Giovedì 25 febbraio 2021 – ore 21:10 – TV2000 – Canale 28
NOTORIOUS, L’AMANTE PERDUTA (NOTORIOUS – 1946)
di Alfred Hitchcock (con Ingrid Bergman, Cary Grant, Claude Rains
I film di Hitchcock costituiscono una summa da vedere e rivedere in continuazione per tutta la vita: essi infatti – oltre a un piacere della visione sempre rinnovato – offrono in permanenza spunti di riflessione intorno anche ai più piccoli particolari che costantemente si offrono all’attenzione dello spettatore. Il quale non impiega molto a capire un dato che, nel corso dei nostri incontri, abbiamo avuto modo di sottolineare più volte: il brivido, la suspense, la detection, sono l’accattivante superficie di tante storie d’amore. Hitchcock soddisfa l’innato, permanente bisogno di sicurezza e di ordine morale dello spettatore quando fa sì che i colpevoli siano puniti, ma poi supera questo sentimento (un po’ troppo ‘terreno’…) con la descrizione, non priva di peripezie volta a volta ironico-umoristiche o drammatiche, del trionfo del rapporto amoroso.
Perché Notorious è uno dei risultati più alti di Sir Alfred? Perché la tensione (affascinante, ammaliante) del film, nasce in sostanza dall’abilità con la quale la suspense senza aggettivi, si trasforma in suspense sentimentale: Cary Grant ama Ingrid Bergman o no?
Una delle analisi migliori di Notorious, è riportata nel bel libro Delitto per delitto (ed. Lindau), dove gli autori sostengono: «L’ambiguità raggiunge il culmine nel famoso bacio (un falso finto bacio), ma tutto il film è come pervaso da una sensualità su cui i protagonisti mantengono il segreto, come sulla missione che stanno svolgendo. Il clima di minaccia e pericolo quasi onnipresente, rende più rarefatta l’azione e più intenso l’erotismo, spingendo tutto il film verso un’astrazione irreale: è il film che si apre nella maniera più allusiva e informale, e si chiude nel modo più aperto di quanto accada in tutta l’opera di Hitchcock. Le immancabili sequenze d’antologia (come il lungo carrello che pesca il dettaglio nelle mani della Bergman, in un party in cui compare anche il regista), si alternano a luminosi primi piani e a una concentrazione quasi onirica sugli oggetti: bicchieri, tazze, chiavi.»
Nella coppia Bergman-Grant, è lei la più esposta e la più vulnerabile, dunque la più commovente. Il suo itinerario morale, che la porta a voler come ‘redimere’ l’errore di suo padre – e dunque ottenere la stima di Grant – coincide esattamente con l’itinerario amoroso.
Superbo l’Alexander Sebastian di Claude Rains e la M.me Sebastian di Leopoldine Konstantin (Brno 1886 – Vienna 1965), ennesima versione del rapporto malato tra madre e figlio che troverà nel Norman Bates di Psycho il suo esempio più noto.
Lunedì 22 febbraio 2021 – ore 15:45 – RaiMovie – Canale 24
CUORE DI TENEBRA (HEART OF DARKNESS – 1993)
di Nicolas Roeg (con Tim Roth, John Malkovich)

A scene from Nicolas Roeg’s film version of Heart of Darkness (1994) starring John Malkovich as Kurtz and Tim Roth as Marlow. The book Heart of Darkness by Joseph Conrad.
La discussione è fra le più praticate nell’ambito della critica cinematografica: il confronto cinema-letteratura quando il testo filmico derivi in linea retta da un’opera, appunto, letteraria. Il percorso che proponiamo però, è questa volta l’esatto contrario di ciò che si fa abitualmente: proviamo a partire dal film per giungere poi al romanzo che sta ‘a monte’. Ci spinge a questo suggerimento la grandezza dello scrittore che – con Cuore di tenebra – abbiamo davanti: il massimo del periodo 1890-1920. Avendo tutti visto Lord Jim e Apocalypse Now (che proprio a Cuore di tenebra fa riferimento), sappiamo bene che per Joseph Conrad (1857-1924), il momento della verità giunge quando l’uomo si trova di fronte a una situazione morale in cui il normale codice di comportamento al quale egli si è fino allora affidato, non è più applicabile; non ha più significato né valore. Di qui la necessità di ricorrere alle qualità, se ci sono, sepolte nel profondo (la celebre “seconda occasione” conradiana…), pena il naufragio nel cuore della tenebra.
Proviamo a guardare “questo” Heart of Darkness: incontreremo Marlow (Tim Roth) che risale in battello il grande fiume africano per vedere che ne è di Kurtz (John Malkovich), il responsabile di una stazione commerciale. Ebbene, in primo luogo chiediamoci: le immagini create dal regista inglese Roeg, quanto sono efficaci nel ricreare un universo? Quanto coincidono con quelle che ciascuno di noi ha tratteggiato dentro di sé in rapporto alla vicenda data? Il viaggio reale di Marlow, è anche (è soprattutto!…) percorso simbolico alla scoperta dell’Io più nascosto, oscuro, nel cuore della tenebra (o nella tenebra del cuore!…)?
A questo punto siamo pronti per tornare al romanzo: non per stabilire una (inutile) scala di valori (il romanzo è meglio del film, o viceversa). Ma per costruire un confronto fra tre immaginari: il nostro personale, quello del film, quello del romanzo.
Con un invito: Conrad – la cui lingua-madre non era l’inglese – è l’autore ideale per chi voglia lanciarsi nella lettura in lingua originale. Forza, proviamo a compitare insieme:
(…) I raised my head. The offing was barred by a black bank of clouds, and the tranquil waterway leading out to the uttermost ends of the earth flowed somber under an overcast sky – seemed to lead into the heart of and immense darkness.
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(…) Rialzai la testa. Il largo era accerchiato da un banco di nuvole scure, e la quieta via d’acqua che andava verso i confini estremi della terra, scorreva cupa sotto un cielo coperto – sembrava condurre nel cuore di una tenebra immensa.
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E allora, come sempre: buona visione; buona lettura.

A scene from Nicolas Roeg’s film version of Heart of Darkness (1994) starring John Malkovich as Kurtz and Tim Roth as Marlow. The book Heart of Darkness by Joseph Conrad.
Giovedì 18 febbraio 2021 – ore 21:10 – TV2000 – Canale 28
LA PAROLA AI GIURATI (12 ANGRY MEN 1957 – di Sidney Lumet)
con Henry Fonda, Lee J. Cobb, Ed Begley, Martin Balsam
Una giuria si riunisce in camera di consiglio per decidere il verdetto da emettere nei confronti di un giovane diciottenne accusato di aver ucciso il padre con un coltello a serramanico. Su dodici giurati, undici votano colpevole, ma – rischiando l’imputato la pena di morte – è indispensabile l’unanimità. Il giurato n° 8 (Henry Fonda), con il rigore delle argomentazioni riuscirà gradualmente a seminare il dubbio presso i colleghi, un significativo ‘campione’ – nella sua varietà – della classe media americana.
Il film d’esordio di Sidney Lumet (1924-2011), allora 33enne regista televisivo, non ha preso una ruga – né oltreoceano, né presso di noi – nel porsi come campione assoluto di quel cinema d’impegno civile fondato sulla fede nei valori democratici destinata a raccogliere la convinta adesione del pubblico. Il richiamo vigoroso contro il pericolo dell’errore giudiziario, è stilato attraverso una partitura drammatica che comincia a interessare lo spettatore, poi a catturarlo, infine a ‘inchiodarlo’ alla poltrona con la sola forza della parola. Che poi sia un virtuoso tour de force registico, è provato dalla quasi totale unità di tempo, luogo e azione; dal forte senso della progressione nel distribuire cronologicamente gli effetti drammatici; dai movimenti di macchina in uno spazio così ristretto. Fin troppo facile individuare nella direzione degli attori una delle linee di forza del film. Henry Fonda può aspirare al ruolo di co-autore dei questo “12 uomini in collera” (ma una volta tanto diremo che il titolo italiano è forse migliore…), tuttavia la sua bravura non risalterebbe così tanto se non ci fossero i ‘cattivi’ Ed Begley, prepotente, irascibile, razzista; e Lee J. Cobb (il don Mariano Arena del Giorno della civetta). Il campionario umano costituito dai giurati – tutti con stati d’animo e mentalità differenti, ben sottolineati dalla ricchezza della loro descrizione psicologica – lungi dal conferire alla storia una patina di artificio, ne fa invece, come dicevamo, uno specimen della classe media americana, con l’esposizione di pregiudizi e difetti che le sono propri.
Si noterà l’efficacia della tensione che sale, associandola all’andamento del temporale in corso all’esterno del tribunale.
La parola ai giurati è uno splendido dramma carico di potenza. Ebbe l’Orso d’Oro al Festival di Berlino 1957, e – in Italia – il Nastro d’Argento come Miglior Film Straniero nel 1958.
Mercoledì 10 febbraio 2021 – ore 16:35 – Retequattro
IVANHOE (1952) di Richard Thorpe
con Robert Taylor, Joan Fontaine, George Sanders, Liz Taylor

Ci sono film – è bene ripeterlo, e ricordarlo – che valgono più di quello che valgono, in ragione del ‘valore aggiunto’ di particolari (non importa se interni o esterni ad essi) i quali agiscono da potenti moltiplicatori del piacere della visione. Ivanhoe è un appassionato e appassionante specimen anni 50 dei lussureggianti film d’avventure a colori della Metro-Goldwyn-Mayer, molti dei quali diretti proprio dal nostro super-prolifico Richard Thorpe (1896-1991) e interpretati da Robert Taylor (1911-1969): Il prigioniero di Zenda, I cavalieri della Tavola Rotonda, L’arciere del re… .
Siamo nell’Inghilterra del XII secolo. I guerrieri galoppano l’uno contro l’altro maneggiando lunghe lance, mulinando asce e mazzafrusti; pietre vengono scagliate dai parapetti delle fortezze; ponti levatoi si abbassano e si alzano sui fossati, precipitando uomini e cavalli nell’acqua sottostante. Castelli, foreste, costumi e armature (e davvero poco importa sapere se ci siano o no delle incongruenze cronologiche…). È l’avventura medievale così come ci è stata tramandata proprio dal cinema. Certo, per la riflessione profonda esiste (figuriamoci se saremo proprio noi a sminuirlo o a dimenticarcene…) il Lancillotto e Ginevra di Bresson. Ma come ci insegna la cara, compianta, geniale Pauline Kael (1919-2001), «nessuno può dire che Ivanhoe non sia un film travolgente, romantico, impetuoso, commerciale, brillante, alla grande maniera della MGM di Pandro S. Berman».
Il conflitto vede contrapposti i Normanni, che hanno giurato fedeltà al principe John (Giovanni Senza Terra), e i Sassoni, il cui eroe Wilfred di Ivanhoe sta cercando di raccogliere i soldi onde pagare il riscatto ai rapitori stranieri di re Riccardo Cuor di Leone. C’è, naturalmente, anche l’amore, con Ivanhoe diviso tra Rowena (Joan Fontaine), e l’oscura, sensibile, emarginata ebrea Rebecca (Elizabeth Taylor).
Il film si vuole al servizio del celebre, omonimo romanzo (1819) di Walter Scott. E proprio qui sta una bella porzione del citato ‘valore aggiunto’ del film. Il dibattito sul romanzo storico – e sulla storia al cinema – sono ancora apertissimi. Ivanhoe è un personaggio nato dalla fantasia di Scott (1771-1832), ma questo non deve impedire di andare a rivedere, a riscoprire, a ristudiare i termini autentici delle vicende dei sovrani Plantageneti, della Terza Crociata, della “Medieval Britain”. Oltreché, ovviamente, di rileggere il libro. Buona visione. Buona lettura.
Giovedì 4 febbraio 2021, ore 16: 45 – Retequattro
NICK MANO FREDDA (Cool Hand Luke, 1967)
di Stuart Rosenberg
Anche il semplice seguire i titoli giusti che passano sugli schermi televisivi può costituire una base di partenza per ‘fabbricarsi’ conoscenze in campo cinematografico. La cura più importante da porre – soprattutto nel caso del cinema americano – è quella relativa alla ‘esplorazione’ delle cosiddette “seconde linee”: registi i quali, pur non essendo sempre sfiorati dal genio, professionisti e artigiani abili conoscitori del mestiere quali sono, permettono tuttavia di rendersi conto passo dopo passo, film dopo film, della ‘grammatica’ del racconto cinematografico, così come delle tematiche ricorrenti (che sono tali proprio perché in numero finito).
Stuart Rosenberg (1928-2007) ha diretto questo Luke mano fredda dal nome del protagonista Luke Jackson, voltato in Nick nell’edizione italiana. Si tratta di un prison movie, genere popolare sempre in auge presso i registi liberal, nella misura in cui consente la messa in scena di ‘parabole’ che affermano quanto le prigioni, le catene, gli spazi angusti, le sbarre, i divisori, le gabbie, rappresentino la massima incompatibilità rispetto all’insopprimibile maggior istinto dell’uomo: la libertà. Il film carcerario: ci sono passati in tanti, e mai hanno deluso. Da Jules Dassin (Forza bruta, 1947), a Don Siegel (Rivolta al blocco 11, 1954; Fuga da Alcatraz, 1979), al Sam Peckinpah di Getaway!, 1972.
Qui Paul Newman (che composizione il suo Nick insieme simpatico e disturbato…), si prende due anni di campo di lavoro in uno Stato del Sud (come è ‘cinematografico’ il Sud degli Stati Uniti…) per aver danneggiato una serie di parchimetri. La sua forte personalità non può piegarsi alle regole del campo, e a più riprese tenta l’evasione. Finirà male, naturalmente, ma intanto noi avremo di che riflettere su quel suo essere diventato un eroe per i compagni.
Non finiremo mai di avvertire che queste parabole cinematografiche non vanno lette sotto una luce realistica: perciò lasciatevi pure sfuggire una piccola lacrima sul destino di “Nick mano fredda”; e soprattutto quando canta accompagnandosi alla chitarra la ballata della “Virgin Mary”.
E cercate notizie intorno a Stuart Rosenberg. Scoprirete che nel 1980 dirigerà un altro ottimo film carcerario: Brubaker, con Robert Redford al posto di Paul Newman. Come vedete, i conti tornano…!
Lunedì 1 febbraio 2021, ore 21:30 –RaiMovie canale 24
ALVAREZ KELLY (anno 1966 )
di Edward Dmytryk
Uno dei modi per trascorrere queste serate invernali buie e fredde – che avrebbe altresì il merito di distrarci un poco mettendo in moto il meccanismo del piacere della visione – è certamente quello di vedersi un buon film di genere. L’occasione offerta dal western americano Alvarez Kelly farebbe in questo senso proprio al caso nostro. Guerra tra Nordisti e Sudisti, con entrambi che necessitano di carne per nutrire le truppe. L’allevatore Alvarez Kelly (William Holden) deve fornire ai primi una mandria, ma verso la fine del viaggio i secondi – capeggiati dal colonnello Richard Widmark – lo intercettano e lo ‘persuadono’ a cambiare destinatario. Kelly in qualche modo si vendicherà aiutando la poco convinta promessa sposa dell’ufficiale, a fuggire con il comandante della nave che ha forzato il blocco stretto dai Nordisti intorno alla città di Richmond.
Certo non potremo cogliere lo splendore del Panavision né la magica voce da contralto dell’attrice Janice Rule (1931-2003,avrebbe meritato lo status di star riconosciuta), bella e brava nella parte di Liz Pickering, ma il film – pur non essendo di grana troppo raffinata – si lascia vedere volentieri, con quei totali sulla mandria in viaggio; con quegli attori che sembrano nati a cavallo (c’è anche il caratterista fordiano Harry Carey Jr. a impersonare il caporale Peterson); con quel bel contrasto tra Kelly e l’ufficiale Rossiter, vale a dire tra Holden e Widmark, due grandi attori (benché quest’ultimo con la benda nera sull’occhio non abbia il fascino dei grandi guerci di Hollywood).
Alvarez Kelly ha tuttavia altri meriti. Innanzitutto quello di portare l’attenzione dello spettatore comune sulla figura del regista Edward Dmytryk (1908-1999), qui abile professional, ma che in carriera firmò titoli più che notevoli, come L’ombra del passato (1944); Anime ferite (1946); Odio implacabile (1947); Ultima notte a Warlock (1959). Provate a cercare in Rete sue notizie: ne troverete di interessanti soprattutto riguardo alle vicende relative alla cosiddetta “caccia alla streghe” del periodo maccartista. E poi potrete farvi un’idea personale sull’evoluzione (o involuzione?) del genere western: il 1966 è l’anno in cui esce anche The Good, the Bad and the Ugly (sì, avete indovinato, è Il buono, il brutto e il cattivo, dove l’ormai fortissimo Sergio Leone può firmare con il suo nome e non più con lo pseudonimo di Bob Robertson).
Mercoledì 27/1, ore 21:00 – Iris can. 22
THE MILLIONAIRE (“Slumdog Millionaire”- 2008)
di Danny Boyle, Loveleen Tandan
A chi dare in sostanza ascolto: ad Alberto Castellano, ottimo cinefilo partenopeo, socio d’onore della confraternita dei sirkiani (nel senso che ha scritto un prezioso libro dedicato a Douglas Sirk), oppure al meritatamente celebre critico Paolo Mereghetti, senza il cui “Dizionario dei Film” noi spettatori saremmo un po’ tutti come naufraghi privi di sestante?
Castellano: «In un mondo segnato dall’ossessione per il quiz televisivo, il “quarto d’ora di celebrità”, il desiderio di apparire, Danny Boyle racconta la paradossale storia indiana di un giovane fenomeno mediatico discriminato per le sue umili origini. La drammatica odissea di Jamal con annessa descrizione dei quartieri poveri e degradati di Mumbai, è narrata con uno stile euforico ed energetico, che realizza il miracolo di far incontrare Bollywood con il grande cinema indiano degli anni 50.»
Mereghetti: «Il film è la tipica produzione occidentale sulla ‘povertà’ degli altri (qui l’India), dove dolore e disperazione non sono mai esacerbati e la simpatia dei piccoli protagonisti riesce sempre a bilanciare la descrizione delle loro sfortune. Il balletto sui titoli di coda sottolinea che tutto dev’essere preso come una specie di sogno favolistico.»
È il film tipico da cineforum, che invita all’intervento, al dibattito, in virtù della sua natura di inno alla vita, toccante e coinvolgente (sincero o furbo?). Intanto diciamo che The Millionaire ha incassato ben 8 Oscar (mai dimenticare, o sottovalutare, o guardare dall’alto in basso…), e la prima reazione che ci permettiamo di suggerire è quella di procurarsi (edizioni Guanda) il romanzo di partenza, Le 12 domande, il cui autore – Vikas Swarup (n. 1963) – è un distinto diplomatico indiano. Quanto al regista, l’inglese Danny Boyle (n. 1956), ha subito fatto parlare di sé con Piccoli omicidi tra amici, 1994 e Trainspotting, 1996. Più recentemente ha diretto Steve Jobs, 2015, e Yesterday (2019). Che sia abilissimo nell’incrociare i gusti del pubblico, è un dato di fatto incontestabile e prova quanto sia professionalmente apprezzabile: sono molti i registi d’oggi di cui si possa dire altrettanto? Molto più discutibile è la presenza del ‘contorno’ (e non ci riferiamo alla gastronomia…), ebbro di seguitare a imporre – per esempio – la stupida moda dei titoli in lingua: qui sarebbe andata benissimo la traduzione alla lettera dell’originale (Il Povero Milionario), e invece. Come ci piacerebbe imporre al/i colpevole/i, di tenere una conferenza in inglese intorno all’esotismo di Lafcadio Hearn o al lessico poetico di Philip Larkin!
Giovedì 21/1, ore 17: 20, Iris can. 22
FANDANGO (1985) di Kevin Reynolds
Uno dei film che rappresentano al meglio quello che è poi diventato una sorta di sottogenere del cinema USA dopo Hollywood. La tela di fondo narrativa è, naturalmente, quella ‘eterna’ del viaggio, cui però si sovrappongono i temi nuovi della nostalgia, del malinconico passaggio dalla spensieratezza della gioventù alla maturità e ai conseguenti ‘obblighi’. La macchina del cinema si sovrappone – in un gioco continuo di rimandi – al trascorrere della quotidianità del reale, nel senso che la perdita dell’innocenza giovanile si accompagna a una rivisitazione di miti e generi cinematografici. Si veda, per esempio, l’episodio ambientato nel luogo dove venne girato Il gigante, con James Dean mito generazionale anni 50, vissuto da giovani anni 70 in partenza per il Vietnam. Eccolo qui l’incubo di una generazione di americani (di una società…)! Fandango inizia con la contestuale consegna dei diplomi e delle cartoline-precetto per due dei protagonisti. In cinque poi partiranno in auto – ed ecco il “rito di passaggio”… – alla volta del confine messicano, in una zona sperduta del deserto dove anni prima avevano dato vita al gruppo. Peripezie surreali e divertenti, che culminano nella sequenza del paracadutismo, dove il “no go” viene letto al contrario “go on”, e alla fine gli ex-ragazzi dovranno accettare l’ineluttabilità del reciproco allontanamento.
È un film generazionale e struggente. Inevitabile che i due estensori di questa scheda lo segnalassero ai loro omologhi, visto che negli Stati Uniti Maurizio ha vissuto in prima persona la traversata del deserto su un’automobile presa a noleggio, e Giulio, rimasto in panne con l’auto (no, in Italia…), ne vide ‘partir via’ una parte della carrozzeria anteriore per un traino sbagliato da parte degli amici chiamati in soccorso. Nel film l’idea è quella di far trascinare il mezzo da un treno merci di passaggio, ma insomma, siamo lì!
Attenzione: il sorriso – in Fandango – è sempre venato di amarezza. Facile scorgere presentimenti bellici nella scena del cimitero, dove gli effetti pirotecnici provocati dai petardi e la lapide di un caduto preannunciano la ‘guerra vera’ che attende i protagonisti. Come il cinema ci ha insegnato, la colonna sonora in questo tipo di film (L’ultimo spettacolo, American Graffiti, Un mercoledì da leoni…) è fondamentale: dunque se Carole King, Keith Jarrett, Pat Metheny, gli Steppenwolf vi dicono qualcosa, no, vedete di non perdere questo toccante, appassionato, un filo doloroso Fandango.
Il dittico epico di MICHAEL CIMINO
Domenica 17/1, ore 21.00, Iris can. 22: IL CACCIATORE (1978)
Lunedì 18/1, ore 21.10, RaiMovie can. 24: I CANCELLI DEL CIELO (1980
Dopo potrete essere soddisfatti o no, affascinati o freddi, ma una cosa non potrete con onestà negare a voi stessi: ogni appassionato di cinema non può non fare i conti con l’incredibile figura di Cimino (1939-2016), il Cecil De Mille del cinema moderno, l’Orson Welles della Hollywood anni 70-90. Questa nostra segnalazione è un caldo invito a esplorare in Rete quanto potrete trovare – tantissimo, e spesso illuminante… – su M.C., a cominciare dal mai spiegato cambiamento di aspetto fisico (un po’ come uno dei suoi divi, Mickey Rourke).
Il cacciatore (The Deer Hunter), un autentico “film ad affresco”, trova il giusto equilibrio tra commozione e crudeltà nel rendere conto con forza del trauma vietnamita e delle sue conseguenze negli USA: orrori della guerra, sequenze bucoliche (il matrimonio ortodosso, la caccia al cervo), la chiusa sconvolgente sull’inno di speranza God Bless America. Per molti, per noi, un mito assoluto.
I cancelli del cielo (Heaven’s Gate), indubbiamente un capitolo a parte della storia del cinema, kolossal prima massacrato dalla critica e disertato dal pubblico, poi rivalutato e diventato un “film di culto”, pone in modo acuto un problema filologico (la corrispondenza tra il testo filmico pensato dal regista e ciò che effettivamente è giunto sugli schermi). Vi sottoponiamo i pareri di due critici: il compianto esponente della vecchia generazione, e quello di un fan più giovane ed entusiasta. Aiuteranno per una prima, personale costruzione di un parere.
Tullio Kezich: «Nel 1892, i baroni del bestiame della Contea di Johnson – nel nord del Wyoming – assoldarono un esercito di mercenari per spargere il terrore fra i coloni. La “Johnson County War” è un tipico episodio di capitalismo selvaggio che Cimino rievoca con grossolana brutalità, senza le mezze tinte e le affascinanti ambiguità del suo film sul Vietnam. Ridotto di un’ora rispetto all’originaria versione di tre ore e mezza, detestato dai critici e condannato dal pubblico negli USA, I cancelli del cielo contiene pagine bellissime, ma non convince né come evocazione storica, né come racconto.»
Mauro Gervasini: «Il flop più celebre della storia del cinema, che secondo la leggenda causò il fallimento della United Artists, e una sorta di esilio per Michael Cimino. Costò 44 mln di $, venne maciullato al montaggio, ma questa è la versione definitiva di 216 minuti restaurata nel 2012. Un’opera immane, con un lavoro impressionante sull’immagine (luce quasi sempre naturale, un’ossessione per Cimino), una troupe standard di 600 persone, 220 ore di girato, un andamento narrativo poderoso con due ellissi temporali (la prima di 20 anni; la seconda di 13), movimenti di macchina di stupefacente respiro, un controllo dello spazio che trova nel ‘totale’, ma anche nel vento, nella polvere o nel fango, la sua epica. Una resa dei conti con il sogno americano che lascerà disilluso l’unico superstite. Un capolavoro assoluto.» E Voi che ne dite?
LA MALEDIZIONE DELLO SCORPIONE DI GIADA
Titolo originale: THE CURSE OF THE JADE SCORPION – 2001
regia di WOODY ALLEN
Lunedì 11 gennaio 2021, ore 16:00 – Iris canale 22
New York, 1940: una donna energica e indipendente (Helen Hunt), viene assunta per modernizzare una compagnia assicurativa. Subito si scontra con il miglior investigatore della casa (W.A.), un attempato signore misogino e fanfarone, dai metodi tanto efficaci quanto obsoleti. I due – a una festa tra colleghi – sono ipnotizzati dal mago Voltan per mezzo di uno scorpione di giada: sarà l’inizio di una serie di rocambolesche avventure (le quali termineranno come devono terminare le commedie).
Debitore nella sua idea-chiave a un molto più drammatico film di Don Siegel (Telefon, 1977), La maledizione si presenta come un divertissement brillantemente congegnato, in cui l’autore si riallaccia agli inizi della propria carriera. Nostalgia e amore per il cinema degli anni Quaranta, per le commedie poliziesche, le pellicole con Bob Hope e i fratelli Marx, si impongono con evidenza fin da una prima visione, ma tutta ‘moderna’ è l’atmosfera e la ricercata fotografia a colori. Il motivo dell’ipnosi, che si individua come centrale in La maledizione, dà al film un sapore fantasmatico, nella misura in cui non poche azioni censurabili sono commesse in stato di trance. Come spesso accade con Woody Allen, ci scontriamo col tema della fuga dalla realtà (qui in modo involontario) sotto il potere di un ipnotizzatore imbroglione. Ma la presenza della ‘magia’ (tornerà anche in Scoop, del 2006) non è tale da velare alcune sue ‘fisse’: la battaglia dei sessi, il gusto delle battute sparate a cadenza da mitragliatrice con ‘tornei’ dialettici esilaranti tra lui ed Helen Hunt.
Il film è tutt’altro che avaro di gag, sorprese e situazioni stravaganti. Enrico Magrelli, specialista alleniano riconosciuto, ha scritto: «Allen attore è quasi più in forma di Allen regista e si regala gesti, facce e giri verbali notevoli. I duetti-scontri feroci tra l’investigatore e l’ottimizzatrice, si ispirano – con rispetto e senza presunzione – a quelli straordinari, frizzanti e insuperabili tra Katharine Hepburn e Spencer Tracy. Il cast, come sempre, mette insieme attori che sembrano già appagati di avere il proprio nome nei titoli di testa, senza pensare al peso del ruolo (Charlize Theron è una boccoluta apparizione di secondo piano).
Mentre ovunque impazza il restauro delle vecchie copie, Woody Allen mette a stagionare i suoi film».
TERRA LONTANA
Titolo originale: THE FAR COUNTRY – 1954
regia di ANTHONY MANN
Martedì 12 gennaio 2021, ore 16: 45 – Retequattro
Attenzione, ché il genere western ha una storia abbastanza diversificata. Dalla “horse opera” è passato al “western maggiorenne” (fu l’ottimo Tullio Kezich a coniare la fortunata definizione) della coppia Ford-Wayne, ma un ulteriore – e più importante – passo avanti giunse con un’altra coppia davvero mitica, quella formata da Anthony Mann e James Stewart, che tra il 1950 e il 1955 girarono insieme i cinque film fondativi del “western moderno”: nell’ordine Winchester 73, Là dove scende il fiume, Lo sperone nudo, L’uomo di Laramie e, appunto, questo splendido Terra lontana. Stewart incarna perfettamente gli eroi di Anthony Mann (1906-1967: dunque quasi una generazione dopo Walsh, Ford, Hawks), uomini tutt’altro che riconciliati, i quali sovente hanno alle spalle un passato pesante di segreti, e un presente che tende alla redenzione ma dove la violenza e una sorta di volontaria ‘selvatichezza’ ne sigillano un carattere bisognoso di liberarsi dalla brutalità che distingue, che segna, la dura vita della Frontiera. Di contro è impossibile non soggiacere al fascino immenso dei totali, dei campi lunghi sui paesaggi naturali che scendono direttamente dai pittori della “Hudson River School”: e quando si parla di american wilderness, è ad Anthony Mann che si dovrebbe in primo luogo pensare. La sostanza narrativa di Terra lontana è complessa, e naturalmente si identifica in un doppio itinerario.
Quello interiore di Jeff Webster (J.S.), allevatore che scopre in sé un senso di responsabilità, una solidarietà verso gli altri, la constatazione che non essendo soli in questo mondo, a un certo punto bisogna pur fare i conti col prossimo senza armi in mano. Vogliamo dire che Jeff scopre la necessità della morale? E poi quello geografico: Wyoming, Seattle, Skagway, Dawson. Ciascuna “sede di tappa” è da ricordare perché di una chiarezza cristallina nel far capire allo spettatore come si costruisce drammaturgicamente un film western (un film western “moderno”, appunto…!).
Obbligatorio però citare l’importanza dei secondi ruoli, senza i quali la performance di James Stewart non avrebbe risalto: Walter Brennan (Ben) e Jack Elam (Frank) of course; John McIntire (Gannon); Jay Flippen (Rube); Royal Dano (Luke). Brilla come oro la presenza della franco-americana Corinne Calvet (Renée Vallon). Quanto a Ruth Roman (Ronda Castle), ancora una volta ci dice a voce alta che le attrici hollywoodiane univano alla perfezione capacità di recitare e fascino (tutti i westernofili e i westernologi possiedono una copia della sua fotografia abbracciata a Gary Cooper ne Il colonnello Hollister).
LE MIE DUE MOGLI
Titolo originale: MY FAVORITE WIFE (1940)
regia: GARSON KANIN
- Domenica 3 gennaio 2021, ore 21:10, Rai Movie canale 24
Appuntamento obbligato con una delle migliori riuscite nel genere commedia della Hollywood età d’oro, quando ogni titolo che l’officina dei sogni allestiva, era una pepita d’oro (“golden nugget”…) grossa così.
La spedizione scientifica di cui è parte Irene Dunne fa naufragio, e la donna viene data per dispersa. Trascorsi sette anni, il marito Cary Grant ne chiede la scomparsa legale al fine di sposare Gail Patrick. Proprio il giorno del nuovo matrimonio tuttavia, la donna ricompare, e il meccanismo perfetto della commedia si mette in moto: non solo i due ‘vecchi’ coniugi sono ancora innamorati, ma si viene a sapere che lei – durante i sette anni – è certo stata su un’isola deserta, ma in compagnia del bello e aitante Randolph Scott…!
Come è noto, non si dà commedia di successo senza interpretazione ‘giusta’: e qui – capeggiate dallo specialista Cary Grant – anche le partner fanno scintille, a cominciare da Irene Dunne e Gail Patrick (1911-1980), curiosamente poco note nonostante la bravura e la venustà. Perfetto anche Randolph Scott (1903-1987), il quale interpretò più western di John Wayne, ma la cui recitazione ‘calma’, l’alta statura e l’aspetto di uomo integro ne fanno anche qui una ‘spalla’ ideale: il “momento della verità” (ovvero il primo incontro tra Grant e Scott) ha luogo accanto alla piscina di un albergo di lusso dove Scott sta ‘intrattenendo’ due splendide bellezze al bagno. Quanto a Cary Grant, si pensi, per esempio, all’inquadratura in cui è in ascensore e scorge all’improvviso Irene Dunne: occhi spalancati, gambe ferme, l’attore sposta il tronco in sincronia con la porta dell’ascensore che si sta chiudendo. Impagabile!
Ma non è finita qui, figuriamoci. Fra il molto che rimarrebbe ancora da dire, noteremo che il soggetto del film è invece di una serietà (di una ‘lacrimosità’) incredibili: si tratta nientemeno che dei 911 splendidi versi del poemetto Enoch Arden (1864), uno dei capolavori di Alfred Lord Tennyson, il maggior poeta dell’età vittoriana. Enoch Arden diede origine a una pièce teatrale, a un’opera musicale, a due film muti (uno dei quali diretto da D.W. Griffith). Pensate poi a che cosa è diventato qui nelle mani di Leo McCarey e di Garson Kanin!
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