Le rubriche di Fulvio Bella

Le rubriche di Fulvio Bella

Lo so,
ne sono consapevole,
non avviene tutto ciò a mia insaputa,
come la casa di Scajola
o gli euro in valigia di Panzeri.
Lo so
che ogni anno invecchio sempre un poco,
ma non mi spaventano le rughe che verranno
o anche quelle,
già venute,
scavate dalle lacrime e dal riso.
Non mi meraviglio della voglia
d’andare a letto presto,
o del fatto che non riesco più a seguir Poirot
senza addormentarmi sul divano.
Non pretendo più
che il corpo si alzi lesto
e prepotente ai desideri.
Lo so,
non mi spavento.
Ancora il cuore continua
a inseguir la meraviglia
ancora il mattino
mi si mostra
squadernando
orizzonti e sogni.
“Ma ora son certamente sogni”,
direte.
Lo so,
ma cosa c’è di più reale e bello
d’un transito tra i sogni?

 

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Con questa domenica finisce la rubrica “domenica col mito”, infatti il corso di quest’anno dedicato alle Metamorfosi di Ovidio è terminato. E’ stato bello, ci siamo divertiti. Ora pensiamo a che fare l’anno prossimo. Come congedo presento un mito, a mio parere assai belo, che ci racconta, caso raro nel mito a dire il vero, di un uomo che resiste per amore della moglie alle tentazioni di una seduttrice seriale come Circe.

Il mito di questa domenica 15 Maggio è:

“Pico, uno dei primi re del Lazio

 

Pico, uno dei primi re del Lazio, fondatore della città di Laurentum, luogo dove secondo Virgilio si stabilirono i troiani guidati da Enea, stava cacciando nei boschi intorno alla città quando fu visto dalla maga Circe che subito se ne innamorò. Usando le proprie arti magiche, fece apparire davanti a Pico un bellissimo cinghiale alla vista del quale subito Pico si lanciò all’inseguimento. Ovvio che il cinghiale portò fritto dritto Pico nel luogo dove l’aspettava la maga. Subito Circe fece le sue “avances, ma certo risultò per lei inaspettata la risposta di Pico: “Chiunque tu sia, non sono tuo. Già sono schiavo di un’altra, e prego il cielo di restarlo per lungo tempo ancora! né violerò per un altro amore il patto coniugale”

Davanti al rifiuto Circe, arrabbiata non poco, si vendicò trasformandolo, come ci suggerisce il nome, in un picchio.

Nel quadro di Luca Giordano (1634 – 1705) vediamo Pico che respinge Circe

 

 

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Il mito di questa domenica 8 Maggio è:

“Aci, Galatea e Polifemo

 

Quando il mito si fa anche geografia

Alle falde dell’Etna c’è un fiume, dalla sorgente rossastra, chiamato dagli antichi greci “Akis”, che ha dato il nome a nove località siciliane lungo la costa etnea (Aci Trezza,  Aci Castello, Aci Catena etc); belle le località ma ancora più bello il mito che ci racconta la storia d’amore tra il  bellissimo pastore Aci e la Nereide Galatea, una delle cinquanta ninfe del mare. Ma in questo amore gioioso c’era un terzo incomodo, e che incomodo! nientemeno che il ciclope Polifemo. Le provò tutte per conquistare Galatea, (straordinari i versi in cui Ovidio nelle Metamorfosi ci racconta di come il Ciclope cercasse di farsi bello) ma non ci fu nulla da fare. Accecato dal rifiuto e dalla gelosia decise di vendicarsi, così una sera, quando vide i due innamorati abbracciati in riva al mare al chiarore della luna, prese un grosso masso di lava e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo.  Galatea disperata pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Gli dei commossi trasformarono il sangue di Aci in un piccolo fiume che, nato sotto l’Etna,  sfocia sulla spiaggia dove i due amanti erano soliti incontrarsi. Eccoli qui Galatea e Aci (e il Ciclope, in alto sul monte)  come li rappresenta il pittore francese Alexandre Charles Guillemot (1786-1831)

 

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Il mito di questa domenica Iº Maggio è:

Ceice e Alcione, la forza dell’amore

 

Ceice, figlio di Lucifero la stella del mattino, ed Alcione, figlia di Eolo, re dei venti, vivevano uniti e felici nella loro Tarchis; talmente felici da ritenersi pari agli dei dei, tant’è che si chiamano spesso  Zeus ed Era. Ma gli dèi antichi, si sa, erano permalosi, per questo Zeus lanciò un fulmine contro la nave di Ceice che stava andando per mare a consultare un oracolo. Ceice morì affogato. Intanto la povera Alcione, ignara della sciagura, contava i giorni e ogni mattina andava al tempio di Giunone pregando per il ritorno del marito. Impietosita, la grande dea non volle che Alcione continuasse a chiedere il ritorno di uno che era già morto per cui le inviò Morfeo, il dio dei sogni a dirle la verità. Morfeo assunse le sembianze di Ceice ed apparve ad Alcione, informandolo della sua morte.

Lei svegliata di soprassalto si alzò in fretta e corse in riva del mare, dove aveva abbracciato il marito l’ultima volta; salì sullo scoglio dal quale aveva visto la nave perdersi all’orizzonte.
Sotto di lei l’acqua era cupa. E sull’acqua vide galleggiare uno scudo e vi riconobbe l’insegna di Ceice. Dunque il sogno le aveva detto il vero.
Vinta dal dolore, Alcione volle morire e si gettò a capofitto in mare.
Ma invece di cadere, fu portata in alto dal vento. Trasformata in uccello da Giunone, Alcione volteggiò nell’aria, lanciando un richiamo dal becco sottile.

Un vecchietto che stava sulla spiaggia vide un altro uccello, simile al primo, rispondere al richiamo e levarsi in volo dal mare. E tutti e due, insieme, salirono in alto con le bianche ali distese.
Ancora oggi Ceice, il martin pescatore maschio, e Alcione, la femmina volano insieme sull’azzurro mare. Per sempre li ha ricongiunti Amore.

Ovidio, nelle sue Metamorfosi (libro XI, vv. 742 e seg.) ci dice:
Allora l’amore li tenne legati a un solo destino e, fra le creature alate, non si sciolse il nodo coniugale: si accoppiano e diventano genitori, e per sette placidi giorni durante l’inverno Alcione cova in nidi sospesi sul mare. Allora è sicura la via del mare: Eolo trattiene i venti e ne impedisce l’uscita: distende il mare per i suoi nipoti.

Nell’illustrazione un particolare dal dipinto di Herbert James Draper (1915) che rappresenta Alcione alla ricerca del marito Ceìce; dei ‘martin pescatori’ sono dipinti sulla sua testa, a citazione del mito della sua metamorfosi; degli stessi colori delle piume degli uccelli sono le sue vesti<Herbert-James-Draper.-Halcyone1915.

 

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Il mito di questa domenica 24 Aprile è:

Ifi, il dramma antico della transessualità

 

La storia di Ifi, così come la leggiamo nelle Metamorfosi di Ovidio, è uno dei pochi miti greci incentrati sui temi del lesbismo e della transessualità.

IfiIfide è  figlia di Teletusa e di Ligdo, due poveri abitanti di Creta

Il tutto comincia con Lidgo che dichiara alla moglie incinta, che se avesse partorito una bambina, sarebbe stato costretto ad ucciderla poiché non disponevano dei mezzi per allevarla. Teleusa è disperata ma una notte Iside appare a Teletusa  dicendole di non preoccuparsi del sesso nascituro e di allevarlo.
Quando Teletusa partorì, nascose al marito il sesso della bambina e la allevò fingendo che fosse un maschio. Ifi fu cresciuta con un’altra bambina, Iante, che le fu promessa in moglie dal padre; tra le due ragazze sbocciò un amore reciproco.
Man mano che si avvicinava il giorno delle nozze, Ifi era sempre più preoccupata di non poter possedere la sua amata, così pregò Iside affinché le fosse permesso di coronare il suo amore. Il giorno prima del matrimonio Teletusa portò la figlia al tempio di Iside ed implorò l’aiuto della dea.
La dea trasformò Ifi in un uomo cosicché rimanesse sé stessa dentro al nuovo corpo di uomo, e potesse sposare Iante.

Straordinario è come Ovidio, che sicuramente non può non dirsi maschilista, si pone il caso del “diverso da noi”, della sua incolpevolezza, della sua disperazione, dell’innocente costretto a vivere nella menzogna, dei meri confini sessuali, che a causa del conformismo della società, diventano prigioni.

Ecco come Nicolas de Launay in una incisione di metà settecento rappresenta la madre di Ifi che implora la dea di trasformarla in maschio.

 

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Il mito di questa domenica 17 Aprile è:

“Orfeo ed Euridice l’amore che vince la morte

 

La giornata di oggi, Pasqua, mi porta a spaziare tra le varie “resurrezioni mitologiche greche”.

Sono tante (Semele, Pelope, Ippolita etc etc) ma io a questo punto scelgo il mito di una resurrezione mancata,  iil mito di Orfeo ed Euridice una delle storie d’amore più commoventi e strazianti, tanto da ispirare artisti e letterati di tutti i tempi.

Orfeo secondo il mito fu il più famoso posta e musicista, almente bravo  che non aveva uguale tra uomini e dei. Persino le bestie feroci, si fermavano ad ascoltarlo quando suonava la lira.

Ogni creatura amava Orfeo  ma lui aveva occhi soltanto per la bellissima ninfa Euridice. Il loro fu un amore gioioso e  sereno, finché Aristeo non  s’innamora di Euridice e cerca di sedurla, Euridice fugge e nel fuggire calpesta un serpente  che la morde uccidendola.

Orfeo impazzito di dolore non riesce a sopportare la mancanza di Euridice per cui tenta l’impossibile, scendere negli Inferi e chiedere ad Ade e Proserpina di restituirgli Euridice.  Deve affrontare molte prove ma grazie alla sua musica riesce ad incantare Caronte il traghettatore degli Inferi e a sedare Cerbero, l’enorme cane a tre teste  posto a guardia dell’Ade.

Persefone, intenerita dall’amore di Orfeo, permette all’innamorato di poter riavere l’amata ad una condizione. Durante il tragitto che avrebbe ricondotto entrambi nel mondo degli uomini, Orfeo non avrebbe mai dovuto voltarsi per guardare Euridice. 

Durante il viaggio però un  sospetto comincia a farsi strada nella sua mente;  pensando che a seguirlo fosse solo un’ombra, per paura si voltò, ma nello stesso istante in cui si voltò Euridice scompare per sempre.

Com’è bello e poetico il passo in cui Ovidio nelle Metamorfosi, (libro X, 61-62) ci descrive  il fatto: “Ed Ella morendo per la seconda volta, non si lamentò. E di che cosa avrebbe infatti dovuto lamentarsi se non  di essere troppo amata? “

Nella foto un marmo di  Antonio Canova di cui quest’anno ricore il bicentenario della morte.

 

 

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Il mito di questa domenica 10 Aprile è:

            “ Bauci e Filemone, una meravigliosa
storia d’amore

Un mito, quello di oggi, che ci rasserena; una tenera e delicata storia sul tema dell’amore coniugale, sulla vita semplice e sul valore dell’accoglienza.

Zeus ed Ermes, travestisti da mendicanti girano per la Frigia, chiedendo ospitalità.

Bussarono a mille porte, cercando un

luogo per riposare e mille porte si chiusero; una soltanto li accolse, piccola con un tetto di paglia e di canne: là vive Bauci una pia vecchietta e suo marito Filemone; uniti dagli anni della giovinezza, invecchiarono insieme in quella capanna”.  Così ci racconta Ovidio nella Metamorfosi (Libro VIII, versi 628/632).

Erano poverissimi, ma non esitarono a dividere la loro povertà con degli sconosciuti che avevano fame, erano stanchi e chiedevano ospitalità.   

Dopo essere stai accolti gli Dei si rivelano e chiedono loro di esprimere un desiderio, che avrebbero esaudito all’istante.

Filemone disse: “Poiché siamo vissuti d’accordo tanti anni, ci porti via la stessa ora: non voglio vedere la tomba di mia moglie e neanche essere sepolto da lei

Quando “sfiniti dagli anni” giunse il tempo di dover abbandonare il mondo Bauci vide Filemone coprirsi di fronde e nello stesso istante Filemone vide Bauci altrettanto coprirsi.

Mentre già una cima cresceva sui loro due volti, finché poterono continuarono a scambiarsi parole: “addio, amore” diserro insieme e insieme la scorza li coprì e li nascose.” (Libro VIII, versi 717-719)

Confesso che ogni volta che passeggiando incontro un tronco dal quale sorgono poi due diversi alberi, mi commuovo e mando un pensiero a Bauci e a Filemone.

Un mito che ancora oggi continua ad ispirare l’arte, ecco qui come ha rappresentato  il mito Salvatore Rizzuti noto scultore siciliano  contemporaneo.

 

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Il mito di questa domenica 3 Aprile è:

            “Duemila anni prima di Dario Argento e
Quentin Tarantino”

E si, questo mito di Procne, Filomena e Tereo, supera di gran lunga lo splatter che hanno messo in scena questi registi.

Ciack si gira, sceneggiatore Ovidio

Tereo, re di Tracia sposa Procne ma poi si incapriccia della più giovane sorella Filomena. La attira in un agguato, la violenta e la mura in una torre dicendo alla moglie che era morta; prima di murarla però, per essere sicuro che non parlasse con nessuno, le taglia la lingua.

Così descrive l’atto Ovidio nelle metamorfosi (Libro VI, versi 555-560)

“Guizzò la radice della lingua, il resto giacque sulal terra nera

mormorando e tremando come si muove la coda di una  serpe mutilata”

Ma lei è testarda, e determinata nel cercare giustizia. Approfittando della sua capacità di tessitrice, realizza una tela in cui racconta la sua storia e la invia alla sorella attraverso una guardia  della torre .  Procne le crede, la trova, la libera  e poi decide per la più cupa della vendette. Uccide il figlio avuto da Tereo e glielo cucina come èasto dopo averlo fatto a pezzi e macinato le ossa. Quando sta per finire il pasto Procne con Filomena  gli rivela cosa ha appena mangiato. Tereo si avventa sulle due sorelle per ucciderle, ma gli dei infuriati trasformano tutti in uccelli: Procne in una rondine, Filomena nell’usignolo e Tereo nell’upupa che annuncia disgrazie.

Mi scuso per l’immagine violenta, ma non si può censurare nessuno, figuriamoci Rubens

 

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Il mito di questa domenica 27 Marzo è:

                     Aracne trasformata in ragno

Vale davvero la pena di immergersi in questo mito anche solo per sognare davanti a questi tre quadri, nell’ordine, Tintoretto, Rubens e Velasquez.

Ma meraviglioso è il mito in sé stesso. Ce lo narra per esteso Ovidio nel VI libro delle Metamorfosi.

Aracne era una fanciulla abilissima nel tessere, tanto da sostenere di essere più brava della dea Atena che di quell’arte era la protettrice. Ne era tanto sicura che sfidò la dea a duello.

Atena allora si presentò ad Aracne sotto le vesti di una vecchia, consigliandole di ritirare la sfida per non causare l’ira della dea. Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi, e la gara iniziò. Aracne avrebbe meritato di vincere tanto il suo lavoro, (gli amori degli dei e le loro colpe) era così perfetto ed ironico nel raccontare le astuzie degli dei per raggiungere i propri fini. Ma Atena vedendo la perfezione del lavoro, in preda all’ira, distrusse la tela, trasformando poi Aracne in un ragno costretto a filare per tutta la vita dalla bocca, bocca colpevole di arroganza verso gli dei. L’arroganza sicuramente c’era, ma verrebbe voglia di dire da che pulpito viene la predica. Ma il mito è anche questo, ci ricorda come spesso i potenti, facciano quello che vogliono al di là di giustizia e ragione. Ma in questo caso a dire il vero, non c’è bisogno del mito, ce ne accorgiamo da soli. 

 

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Il mito di questa domenica 20 Marzo è:

                     “Salmace ed Ermafrodito”

 

Nel mito troviamo molto spesso stupri di dei, verso dee, ninfe o donne che siano, più raro è incontrare l’opposto, per questo dedico la lettura di oggi alla passione d’amore della giovane ninfa Salmace, verso Ermafrodito, il figlio, come ci lascia intendere il nome, di Ermes e Afrodite. Si racconta che fosse bellissimo, del resto con genitori simili…

Perché quel nome sia diventato  sinonimo di un uomo con caratteristiche sessuali di entrambi i sessi ce lo racconta il mito…

Ermafrodito, all’età di quindici anni, annoiato dall’ambiente in cui viveva, cominciò ad eslorare il mondo. In questo suo gironzolare arrivò alla fonte dove viveva   la giovane ninfa naiade Salmace, la quale si innamorò immediatamente di lui. Cercò di sedurlo, ma fu respinta. Continuò però nascosta ad ammirarlo fino a quando egli non si spogliò per entrare nelle acque della fonte.  Appena vide il giovinetto cominciare a bagnarsi, saltò fuori da dietro un albero e si gettò su di lui. Si avvolse intorno al ragazzo, con la forza lo baciò e con passione cominciò ad abbracciarlo e a toccarlo. Ma Ernafrodito si oppose con ancora più fermezza, allora lei chiese agli dei di potersi unire per sempre al suo amato e di non esserne mai separata da lui. Il suo desiderio venne accolto e i due divennero un essere solo, i loro corpi furono mescolati in una creatura di entrambi i sessi, metà maschio e metà femmina.

 

Questo mito, (come tutti i miti del resto) ha ispirato decine e decine di artisti di tutti i tempi. Qui sotto il  dipinto  Jean François de Troy, 1769. Collezione privata. e la figura di ermafrodito in una scultura del 300°A.C.

 

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Il mito di questa domenica 13 Marzo è:

                     “la madre di tutte le tragedie d’amore”

Questa domenica mi dedico al mito di Piramo e Tisbe, che Ovidio ci narra immaginando la bella Alcitoe che  racconta questa storia alle sue  compagne mentre tessono. Sembra di leggere Giulietta e Romeo con 16 secoli d’anticipo. E’ un racconto che si perde nei millenni del mito ma che in realtà possiamo incontrare tutte le volte che… ci imbattiamo in un  gelso con l suoi  frutti neri.

Ma andiamo con ordine…

Due giovani babilonesi, Piramo e Tisbe, si amano contro il volere delle loro famiglie. Riescono però a parlarsi tutte le sere attraverso una fessura nel muro delle loro case che confinano. Stanchi di dover subire l’imposizione delle famiglie decidono di fuggire e per farlo si danno appuntamento la notte successiva sotto un grande gelso poco distante da lì. A quel tempo il gelso aveva frutti bianchi come la neve.

Tisbe è la prima a raggiungere il luogo, ma appena arrivata scopre che lì c’è una tigre con le fauci sporche di sangue. Spaventata fugge e nel fuggire perde il suo velo che viene poi azzannato dalla tigre sporcandolo così di sangue. Arriva poco dopo sul luogo Piramo; vede prima le tracce della belva, poi il velo di Tisbe stracciato e sporco di sangue. Pensando che l’amata fosse stata sbranata dalla tigre, straziato dal dolore e dal rimorso di avere organizzato la fuga, si uccide.

Il suo sangue spruzzato in alto tinge di rosso cupo i frutti del gelso.  Qualche minuto dopo Tisbe, superata la paura, torna sul luogo dell’appuntamento. Vedendo l’amato morente, decide anche lei di uccidersi. Chiede pero due cose agli dei: di essere sepolta con l’amato sotto quel gelso e che i suoi frutti siano da quel momento in poi neri a ricordo del lutto.

Ecco come ha interpretato il mito Pierre Gautherot pittore francese in questo suo quadro del 1799. 

 

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Il mito di questa domenica 06 Marzo è:

                                     “vaghe stelle dell’orsa”

 

Guardo il cielo stasera e penso a te cara Callisto e a tuo figlio Arcade lì accanto…
Ovidio nelle Metamorfosi (II, 404-507), ci narra di Callisto, una delle più belle ancelle di Diana, della quale s’era invaghito Giove. Il Dio, per avvicinarsi a lei senza crearle timore, prese le sembianze di Diana. Quando la ninfa s’accorse dell’imbroglio cercò di fuggire, ma oramai era tardi. Giove la violentò mettendola incinta. La ninfa per un po’ di tempo cercò di nascondere il suo stato ma un giorno, dopo una battuta di caccia Diana propose alle sue ancelle di fare tutte insieme un bagno presso una fonte. Il il gonfiore del ventre fece scoprire l’accaduto e Diana adirata, la scacciò.
Callisto diede alla luce un figlio che chiamò Arcade, ma Giunone, la gelosa moglie di Giove, infuriata contro di lei, la trasformò in un’orsa. Fu così che 15 anni dopo Arcade, che si era addentrato nella foresta per cacciare, incontrò l’orsa. Spaventalo stava per colpirla, ma Giove, mandò un vento che li sollevò entrambi da terra e lì collocò come costellazioni in cielo. Callisto divenne l’Orsa Maggiore, Arcade l’Orsa Minore. Ma Giunone, ancora più infuriata nel vedere i due onorati con questa collocazione in cielo, chiese al titano Oceano di impedire che madre e figlio potessero riposarsi nelle loro acque tramontando. Oceano esaudì tale richiesta infatti queste stelle rimangono sempre sopra l’orizzonte.
Nel quadro di Sebastiano Ricci (1659 -1734) vediamo Diana che fredda e spietata scaccia la povera Callisto. Ma si può fare di peggio, Giunone lo dimostra.

 

 

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Il mito di questa domenica 27 febbraio è:

                                     “Fetonte, il Sole, il Po, i pioppi”

 

Questo è un mito che ci riguarda da vicino, perché ….

Due giovinetti discutono, Epafo e Fetonte. Fetonte dice orgogliosamente di essere il figlio del sole, ma Epafo gli dice .” come fai ad esserne certo? Non è che tua madre ti imbroglia?”

Offeso da questa insinuazione Fetonte chiede a sua madre come stiano le cose, la madre gli risponde di stare sicuro; se vuole però può andare dal Sole a chiederglielo di persona.

Arrivato dal padre Fetonte ottiene da lui la promessa che, per dimostragli il bene che gli voleva in quanto suo figlio, avrebbe esaudito qualsiasi suo desiderio. Fetonte chiede di poter guidare il suo carro.

Il padre cerca in tutti modi di dissuaderlo, perché sa che è impossibile che il figlio sia capace di guidare il carro, ma Fetonte non cambia idea e il padre non può che cedere perché ormai ha promesso e gli dei non possono non mantenere le promesse.

Come il padre sapeva Fetonte si dimostrò inesperto nel gestire le redini e tenere a bada i cavalli e così perse il controllo ed il carro si avvicinò troppo alla Terra asciugandone i fiumi, bruciando le foreste e incendiando il suolo. Fu così, ci racconta Ovidio,  che la Libia divenne un  deserto  e la pelle degli etiopi si colorò di nero.
Zeus, sconvolto dalla distruzione, colpì il carro con un fulmine e fece cadere Fetonte nelle acque del fiume Po, dove annegò. Le sorelle Eliadi che abitavano in quel fiume, disperate per il dolore si trasformarono in pioppi,  le loro lacrime si trasformarono in ambra.
Quante volte mi capita di pensare, quando sento lo stormire delle foglie dei pioppi, alle Elaidi quasi che quel fruscio altro non fosse che il loro pianto disperato che ancora cerca di arrivare a noi.

Questo mito ha sempre attratto in tutte le epoche l’immaginario di numerosi artisti.  Ecco qui come hanno visto la caduta di Fetonte  Pieter Paul Rubens  (1577 – 1640), Sebastiano Ricci  (1659- 1734, e per venire ai giorni nostri De Chirico (188 -1978)

La metamorfosi in pioppi delle povere Eliadi è invece un’opera di Santi di Tiro (1536 -1603)

 

 

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E’ iniziato il corso sulle Metamorfosi di Ovidio ed allora in concomitanza di ciò , dopo la rubrica   dell’anno scorso “Sabato con Dante” inizio la nuova rubrica “Domenica col mito.

 

Il mito di questa domenica 20 febbraio è:

                                                               “Apollo e Dafne”

 

Apollo, fiero d’aver appena ucciso col suo terribile arco il mostro Pitone, sbeffeggia Cupido e il suo piccolo arco. Il Dio dell’amore allora per punire la presunzione di Apollo, lancia due frecce, con una, la punta immersa nell’amore, colpisce il Dio, con l’altra, la punta immersa nel disamore, colpisce la ninfa Dafne delle quale Apollo s’era invaghito.

Lei fugge, Apollo la insegue.

Apollo sta per raggiungerla, allora Dafne, capendo che non sarebbe riuscita a sottrarsi alla violenza, prega la madre Gea di salvarla dall’abuso.

Ecco, improvviso, un torpore cade sulle membra di Dafne, una corteccia sottile le chiude il petto; ecco i capelli trasformarsi in foglie, le braccia in rami, i piedi mutarsi in radici. Ma anche così Apollo non riesce a staccarsi da lei, decide quindi di rendere questa pianta (l’alloro) sempreverde e di considerarla a lui sacra, da usare come segno di gloria da porre sul capo dei migliori fra gli uomini. Con l’alloro si incoronarono generali vittoriosi, poeti e filosofi. Da qui anche la tradizione attuale delle coroncine di alloro alla fine del percorso di laurea. Anche in questo caso il mito vive ancora tra noi.

Questo mito ispirò decine e decine di artisti. A illustre i post ne scelgo tre, Pollaiolo, Tiepolo e la magnifica scultura di Canova.

 

 

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SABATO CON DANTE

La parola di oggi (Sabato 25 Dicembre) è:

“fantolino

 

E come fantolin che ’nver’ la mamma

tende le braccia, poi che ’l latte prese,

per l’animo che ’nfin di fuori s’infiamma […]

(Paradiso XXIII, 121)

Per indicare un bimbo in tenera età Dante non usa né questa parola né bambino, bensì fantolino, diminutivo di fante ‘infante’, da fans (participio di fari ‘parlare’). La similitudine evocata in questo passo del Paradiso (in cui la forma è apocopata) è una delle più dolci e commoventi della Commedia. Nel Cielo delle Stelle fisse il poeta vede i beati protendersi in alto verso Maria con la loro luce così come farebbe un neonato che, dopo essere stato allattato dalla madre, tende le braccia verso di lei spinto da un sentimento di amore che prorompe anche negli atteggiamenti esteriori. Il termine fantolino, ben attestato in letteratura e attribuito a Gesù bambino in un volgarizzamento veneziano dei Vangeli del sec. XIV (“Et Ioseph sì apelà lo fantolino Yesù”), oggi è piuttosto desueto.

(Accademia della Crusca – K.D.V.)

MI chiedevo che parola avrebbe scelto l’Accademia della Crusca per la giornata di oggi, mi aspettavo qualcosa che si riferisse al Natale e invece niente. Invece niente è quello che ho pensato in prima battuta vedendo la parola, ma poi sapendo ho che “fantolino” è un modo, (seppure oggi assai desueto) per indicare il termine bambino, e leggendo il commento,  mi è diventato ovvio che il “fantolino” di oggi altri non è che quello che , “fantolino” io stesso, aspettavo che arrivasse con i regali. Natalizia è poi la terzina con la sua immagine, tenera e poetica, del bambino che volge le braccia  alla mamma. Come illustrazione è ovvio che oggi ci tocca un’immagine natalizia, ma io ho cercato comunque qualcosa di meno tradizionale; posto  un Presepio, ma in questo Presepio, tratto da una miniatura in tempera e oro da un “Libro d’Ore” composto a Besançon, in Francia, nel 1450 circa, vediamo una Madonna che legge mentre del “fantolino” se ne occupa Giuseppe . Siamo nel 1450 circa…. c’è di che meditare.

Ovviamente auguri a tutti e in particolare a tutti gli amici dell’ACU

 

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La parola di oggi (Sabato 18 Dicembre) è:

“porpora

Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
(Purgatorio XXIX, 131)
 
Nella Commedia il sostantivo, attestato unicamente nell’occorrenza di Purgatorio XXIX, 131, ricorre nella forma porpore più rara e arcaica. A differenza delle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), ognuna vestita di un abito di color diverso, rispettivamente bianco, verde e rosso, sono in porpore vestite le quattro virtù cardinali (Prudenza, Temperanza, Giustizia e Fortezza), che indossano quindi una veste di colore rosso intenso mentre sfilano nella processione mistica alla sinistra del carro, simbolo della Chiesa militante in trionfo, trainato dal grifone dalle membra miste d’oro, di bianco e di vermiglio.
(Accademia della Crusca – E.F.)
La prima cosa che mi sono chiesto è chi fosse la figura con tre occhi sulla testa, poi un po’ alla volta ci sono arrivato; se le figure rappresentavano le virtù cardinali, (chiamate così perché secondo la religione cattolica sono “il cardine” del comportamento cristiano) quella con tre occhi sulla testa non poteva essere che la prudenza, che di occhi non ne ha mai abbastanza. In realtà è una virtù che non mi ha mai fatto tanta compagnia, o comunque se mi stava a fianco, di occhi aperti non ne aveva mai più di uno; anche se poi, a fare da contrappasso alla situazione mi faceva compagnia la fortuna, per cui me la sono sempre cavata. Non è la prima volta che troviamo parole che si riferiscono alla processione mistica, descritta in questo canto così dettagliatamente da Dante. Ebbene se uno non sa come passare il tempo, solo cercando di approfondire il significato dei personaggi che partecipano al corteo e delle allegorie che sono presenti nei vari siboli, ci sarebbe materiale da divertirsi per mesi. Comunque visto che tra le quattro virtù ho scelto di dire qualcosa solo rispetto alla Prudenza ecco come la dipinge Piero del Pollaiolo, il fratello minore del ben più famoso Antonio. Vediamo una giovane donna, seduta su uno scranno che sorregge uno specchio che ne riflette l’immagine, mentre stringe un serpente nell’altra mano. Il serpente allude al passo del Vangelo di Matteo “Siate prudenti come serpenti” (Matteo 10,16), mentre l’immagine dello specchio rimanda all’occhio e alla vista, intesi soprattutto come strumento di conoscenza del mondo esteriore e interiore. Per questo è spesso legato all’iconografia della Verità e della Prudenza.
Se ci pensiamo gli occhi stessi sono definiti popolarmente gli “specchi dell’anima” poiché rifletterebbero – o tradirebbero – il carattere, l’umore e le intenzioni di una persona. Tuttavia, se lo sguardo è rivolto esclusivamente su di sé, l’autocontemplazione porta a narcisismo e vanità.
Lo specchio, dunque, incarna una valenza negativa o positiva secondo i casi: in esso ci si perde e ci si riconosce, si distingue il dissimile dal simile.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 11 Dicembre) è:

“bizzarro

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
(Inferno VIII, 62)
 
L’aggettivo bizzarro, qui riferito al fiorentino Filippo Argenti, ha il significato di ‘facile alla collera’, ‘iracondo’, diverso da quello, documentato dal XVI secolo e oggi comunemente diffuso di ‘che non segue i comportamenti considerati comuni e abituali’. L’etimologia è alquanto controversa poiché non si può ricondurre allo spagnolo bizzarro ‘coraggioso’ (a sua volta dal basco bizar ‘barba’) perché attestato soltanto a partire dal 1500 circa. Secondo alcuni studiosi deriverebbe invece da bizza con l’aggiunta del suffisso meridionaleggiante ­-arro; per altri dal latino vĭtiu(m); per altri ancora dalla base fonosimbolica *bec-/*beg-; *bac-/*bag-; *bic-/*big- usata per ‘voci che suscitano ripugnanza e disprezzo’ o, infine, dalla famiglia *biz- ‘insetto’. Come afferma Boccaccio, il significato che usa Dante era proprio del fiorentino: “bizzarro, cioè iracundo; e credo che questo vocabolo “bizzarro” sia solo de’ Fiorentini, e suona sempre in mala parte, per ciò che non tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcune dimostrazione rimuovere si possono”. Stando alle parole di Boccaccio, bizzarro dunque ben si addice a descrivere il personaggio di Filippo Argenti in tutte le sue caratteristiche: fiorentino e conosciuto per una spiccata superbia che spesso lo induceva a dimostrazioni d’ira, anche contro lo stesso Dante.
(Accademia dela crusca – M.D.C.)
Sicuramente con Filippo Argenti, suo vicino di casa, Dante ce l’aveva; abbiamo visto spesso come Dante non si faccia scrupoli o remore nel trattare male i suoi conterranei, ma qui proprio esagera. I maligni dicono che alla base ci siano le numerose liti tra i due e che una vota Dante sia stato addirittura preso a schiaffi da lui. Che comunque Filippo Argenti fosse “bizzarro” nel senso di iroso, vanitoso e prepotente ce lo certifica il soprannome (il suo nome era Filippo Adimari, ma fu soprannominato Argenti per il vezzo di ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento). Si dice anche, ma non si sa se è leggenda metropolitana o verità, che fosse solito girare per Firenze a cavallo con le gambe più aperte possibile, in modo di colpire in faccia qualsiasi persona si permettesse di passargli troppo vicino. E “uomo grande e nerboruto, e (…) iracundo e bizzarro più che altro, e dotato di pugna (…) che parevan di ferro” ce lo descrive Boccaccio nell’ottava novella della nona giornata dove lo vediamo pestare a sangue il povero Biondello.
Ma Argenti viene recuperato anche ai nostri tempi in una canzone di Carapezza intitolata proprio “Argenti vive”. “Ciao Dante, ti ricordi di me? / Sono Filippo Argenti, / Il vicino di casa che nella Commedia ponesti tra questi violenti…” cos’ inizia la canzone, il resto potete sentirlo andando su you tube. E’ bello vedere come Dante continui a restare tra noi.
E per seguire questa linea di contemporaneità ecco l’illustrazione che dedica a Filippo Argenti Gabriele Dell’otto famoso fumettista italiano che nel 2018 ha illustrato per conto della Mondadori la Commedia. L’immagine è un po’ cruda, del resto Date qui non si comporta certo meglio di Filippo Argenti.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 4 Dicembre) è:

“menare

 

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
(Inferno V, 32)
 
Menare è un verbo transitivo attestato, con vari significati (qui con quello di ‘condurre trascinando’), sin dall’italiano antico; deriva dal lat. tardo mĭnāre ‘spingere avanti gli animali da tiro con le grida e la frusta’, a sua volta dal lat. classico mĭnāri ‘minacciare’. Il Vocabolario della Crusca lo registra, nella prima edizione, con diverse accezioni: ‘condurre da un luogo all’altro’, ‘percuotere’, ‘agitare, dimenare’, ‘trattare, tramare’. Oggi menare si usa prevalentemente nel senso di ‘picchiare’, usato soprattutto in romanesco, dove regge la preposizione a (menare a qualcuno).
( Accademia della Crusca – K.D.V.)
Oggi mi voglio divertire andando a cercare varie citazioni per i diversi significati del verbo proposto dalla Crusca, vediamo cosa riesco a trovare. Comincio, per il significato di “condurre” con questa citazione presa dal capitolo 32 dei Promessi Sposi, quello tremendo della descrizione della peste e degli untori, forse non è il miglior modo di cominciare di questi tempi, ma va così: “gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione” od anche questa del Petrarca “Ov’ancor per usanza Amor mi mena “ . Per il significato di “portare” scelgo questo verso tratto dalla poesia “alla sera” di Ugo Foscolo, forse dopo “tanto gentile e tanto onesta pare” il sonetto più bello della letteratura italiana ”quando dal nevoso aere inquïete / tenebre e lunghe all’universo meni”. C’e Dante, c’é Petrarca, può mancare Boccaccio? “menando la Lauretta una danza”, qui ovviamente nel senso di condurre . Ma c’è anche menare in senso di muovere rapidamente, qui mi viene in soccorso l’Ariosto : “Corre il fiero e terribil Rodomonte, e la sanguigna spada in cerchio mena”. C’è anche il significato di picchiare, ma in questo caso preferisco non cercare esempi, mostro però, visto che ho citato Rodomonte, il re moro che incarna al contempo il valore e la superbia, questa immagine tratta da un carretto siciliano moderno che ci mostra il duello tra Rodomonte e Mandricardo.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 27 Novembre) è:

“camiscia

 […] che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta […]
Inferno XXIII, 42)

Il canto XXIII del’Inferno, dedicato agli ipocriti, si apre con una scena precipitosa: Dante e Virgilio sono inseguiti dai diavoli della precedente bolgia e sono costretti alla fuga. Nel passo spicca una potente metafora, che in pochi versi descrive accuratamente una lunga sequenza di azioni: Virgilio, nel tentativo di salvare Dante dai demoni furibondi, si comporta come una madre premurosa che si accinge a salvare il figlio da un incendio (vv. 37-39).

(E come quella mamma, oggi
sono le molte mamme che
fuggono da un “incendio”
ben più grande per salvare
i propri figli da un futuro
di fame e miseria.
Come ci racconta questa foto)

In fretta e furia ella lo afferra, incurante di sé stessa, che ha indosso solo una camicia. Il sostantivo camicia, che indica un indumento simile alla tunica, lungo fino alle anche e portato di solito al di sotto della veste vera e propria, è attestato già dal XIII secolo; deriva dal latino tardo camīsĭa, a sua volta derivato, probabilmente per mediazione della lingua celtica, dal germanico *kamitja. La forma camiscia rappresenta l’esito tipico in Toscana del nesso latino /sj/, poi reso nella grafia con ci e quindi pronunciato con lo stesso fono iniziale di ciliegia.
(Accademia della Crusca – E.A.)

Qui più che fermarmi a riflettere sulla parola, mi pare più opportuno soffermarmi a sottolineare la bellezza di questi versi usati per fare un paragone che a prima vista potrebbe apparire scontato, vista la retorica che spesso accompagna in alcuni poeti la parola mamma; penso alla poesia imparata a memoria in terza elementare : “la mamma è come un albero grande che tuti i suoi frutti ti dà / per quanti gliene domandi sempre uno ne troverà ”; qui invece Dante dipinge, e il verbo non è casuale, un’immagine possente e delicata insieme; c’è la paura ma c’è al contempo  forza e sicurezza, cura e coraggio. Per dare possibilità di confrontarsi con le parole che scrivo  pubblico il paragone nella sua interezza riportando anche la terzina precedente: 

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;

Davvero  letti così nel loro insieme questi sono proprio versi che si depositano nel cuore, per lo meno nel mio.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 20 Novembre) è:

“drago

Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro su la coda fisse […]
(Purgatorio XXXII, 131)
 
      Quadro di Paolo Uccello conservato alla National Gallery
di Londra, che ci racconta di San Giorgio che uccide il drago
Il sostantivo ha due occorrenze nella Commedia: compare nell’Inferno (Inferno XXV, 23), nella forma draco, alla latina (in rima con Caco, il centauro che lo porta sulla schiena), a indicare l’animale alato che sputa fuoco, tipico dell’immaginario fantastico medievale (“Sovra le spalle, dietro da la coppa, / con l’ali aperte li giacea un draco; / e quello affuoca qualunque s’intoppa”); si trova poi nel Purgatorio (Purgatorio XXXII, 131), nella forma drago, in riferimento al draco magnus dell’Apocalisse, mostro mitologico munito di sette teste di serpente.
(Accademia della Crusca – L.F.)
“Drago”, è una parola sulla quale si potrebbe scrivere un libro intero ed infatti di libri interi ne sono stati scritti a bizzeffe. Del resto questa creatura mitico-leggendaria è presente nell’immaginario collettivo di tutte le culture. Di solito creatura maligna per l’occidente, portatrice di bontà e fortuna per l’oriente. MI ricordo il drago che secondo Apollonio Rodio nelle Argonautiche faceva la guardia al Vello d’oro, mi ricordo che di dragi era piena l’ Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, ricordo che di Draghi sono pieni i giornali di questi mesi. Se penso all’Apocalisse mi viene in mente il suo drago con sette teste e dieci corna (questo di Dante ha anch’esso sette teste ma quattro con le doppia corna, 3 con una corno solo.). Tante teste aveva anche l’Idra, per batterla Ercole dovrà sudare sette camicie. San Giorgio che combatte il drago è un classico del’iconografia cattolica, il “drago” Cerruti Gino che viene catturato al Giambellino è un classico della canzone d’autore. E tutti i draghi delle fiabe?
“Come potremmo dimenticare quegli antichi miti che stanno all’origine di tutti i popoli, i miti dei draghi che nell’attimo estremo si tramutano in principesse? Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi. Forse tutto l’orrore non è in fondo altro che l’inerme che ci chiede aiuto.” scrive Rainer Maria Rilke.
Ma forse può avvenire anche il contrario, penso a quello che raccontava Stefano Benni: “tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago.”

 

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La parola di oggi (Sabato 13 Novembre) è:

“febbre

 

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse […]
(Inferno XXV, 90)
 
            (Scelgo come immagine questa bella scultura dell’artista
Biagio Poidimani posizionata all’interno della Fonte Aretusa a Siracusa)
Nel significato, ancora attuale, di ‘aumento della temperatura corporea al di sopra della norma’, la febbre nel passo dantesco è uno degli effetti causati dal morso velenoso del serpente infernale. Il termine ricorre in altri due luoghi dell’Inferno: nel canto XXX, 99 si parla di febbre aguta, che indica un tipo di febbre ben noto nei testi volgari dell’epoca, cioè un’‘afflizione che si sviluppa all’interno dell’apparato circolatorio’; nel canto XXVII, 97 ha invece valore metaforico di ‘affezione dell’animo’.
(Accademia della Crusca – K.D.V.)
Qui siamo nella VI Bolgia, quella dei ladri, non faccio certo fatica ad immaginare come nel corso dei secoli questa bolgia sia andata via via aumentando, e come ancor di più ora continuamente si ingrandisca. Questi versi che con gli altri che seguono ci descrivono una vera e propria metamorfosi, mi ricordano che devo iniziare a rileggere le Metamorfosi di Ovidio per cominciare a preparare gli incontri che terrò da gennaio in avanti all’Acu proprio sulle Metamorfosi di Ovidio. E qui, in questo canto, Ovidio è proprio citato da Dante che afferma che per quanto abbiano scritto Ovidio e Luciano, le metamorfosi alle quali lui ha assistito vanno ben oltre. E sicuramente in questo canto Dante mostra una bravura descrittiva, nel presentarci il serpente che dinventa uomo e al contempo l’uomo che diventa serpente, davvero impareggiabile. Per quanto riguarda la parola febbre ho poco da dire, è una parola che è arrivata intatta a noi con quei sintomi e quelle conseguenze che ognuno di noi ben conosce. Per illustrare il post visto che Dante fa riferimento ad Aretusa, la ninfa trasformata in fonte alla quale Alfeo si unisce raggiungendola dopo essersi trasformato in fiume.

 

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La parola di oggi (Sabato 6 Novembre) è:

“smarrire

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
(Inferno I, 3)

La prima rima della Commedia si realizza grazie al participio passato femminile del verbo smarrire, che ha altre attestazioni nel corso del poema (a volte nella variante ismarrire, con la i prostetica dopo parola terminante in consonante), non di rado nella forma riflessiva e con varie sfumature semantiche, da ‘perdere’ a ‘confondersi’ a ‘sbigottire’. Lo stesso participio ritorna al maschile, quasi a chiudere il cerchio, nell’ultimo canto del Paradiso, nella visione dell’essenza divina, dalla quale non si può distogliere lo sguardo senza smarrirsi (“Io credo, per l’acume ch’io soffersi / del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi”, XXXIII, 77).

Si tratta di un verbo derivato dal germanico *marrjan ‘essere di malumore’, entrato già nel latino tardo e inserito nella classe dei verbi in -ire, con l’aggiunta del prefisso intensivo s-. Rispetto a perdere, smarrire indica un evento momentaneo e lascia aperta la possibilità di un ritrovamento: in tal senso, e probabilmente proprio per suggestione di Dante (che nel suo viaggio torna sulla retta via), nella versione italiana della parabola evangelica del Buon Pastore è diventata pecorella smarrita quella che in Luca è “ovem meam quae perierat” e in Matteo “quae erravit”.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)

Questa è una terzina che quasi tutti gli italiani conoscono e che alle volte in momenti di difficoltà non abbiamo esitato a riportare alla mente per farci coraggio. Ci siamo detti: “certo in questo momento siamo smarriti, ma anche Dante era smarrito e nonostante ciò ha saputo non solo uscire dalla “selva oscura” ma arrivare al’Empireo”. Ed è vero quello che rileva il commentatore “smarrire” è un verbo che non dà disperazione perché lascia intendere che la perdita è momentanea, che la cosa persa si possa ritrovare, che la strada smarrita si possa rintracciare. Si è vero, anche la pecorella non è perduta, è smarrita. Tutto ciò per dire che ognuno ha, ha avuto, potrà avere una sua “selva oscura”, ma non bisogna mai, proprio mai farsi prendere dal panico. Da tutto si può uscire.

 

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La parola di oggi (Sabato 30 Ottobre) è:

“universo

 

Nel suo profondo vidi che s’interna, 
legato con amore in un volume, 
ciò che per l’universo si squaderna […]
(Paradiso XXXIII, 87)
 
Per illustrare il post cosa c’è di meglio dell’antica modernità di Dalì? 
Il sostantivo universo compare 13 volte nella Commedia (5 nell’Inferno, 8 nel Paradiso, mai nel Purgatorio). L’ultima occorrenza del termine è in questa terzina: nella profondità di Dio, Dante vede che tutto ciò che nell’universo è separato e diviso (“si squaderna”) si trova raccolto, custodito dentro (“s’interna”), legato con amore. Nell’unità divina si unificano tutte le divisioni e le contraddizioni dell’universo.
(Accademia della Crusca – L.F.)
 
 
 
Qui vediamo un Dante, come in realtà abbiamo già visto molte altre volte, capace di trasformare  in poesia pensieri complessi legati alla filosofia, alla fisica, alla teologia, all’astronomia e al misticismo.
Infatti in questa terzina c’è tutto questo ma soprarutto c’è poesia.  Tutto quanto esiste nell’Universo, immaginato come fogli di quaderno dispersi e casuali, si può vedere in Dio rilegato come un unico libro. Ma c’è una cosa che non ci deve sfuggire, questo libro è “rilegato con amore”. Quell’amore che come ci dice il verso alla fine del canto che chiude tutta la Commedia “che move il sole e le altre stelle”. Del resto l’amore nella Divina Commedia è ovunque. Procede dal basso verso l’alto, dai sensi allo spirito, in molte forme diverse: passionale e familiare, terreno e divino, disperato e soave. È l’amore infatti la vera spinta che porta Dante a intraprendere il suo viaggio dagli inferi al cielo.
Per illustrare il post cosa c’è di meglio dell’antica modernità di Dalì? 

 

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La parola di oggi (Sabato 23 Ottobre) è:

“epa

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’essere nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.
(Inferno XXX, 102)

 

Visto che la parola è “pancia” ecco il  quadro di Botero …

Dal gr. hêpar (in lat. hēpar), cioè ‘fegato’, il termine ricorre per due volte all’interno del canto XXX dell’Inferno con il significato di ‘ventre’. Dante descrive con estremo realismo il pugno che il greco Sinone, personaggio dell’Eneide, dannato tra i falsari di parola, sferra sul ventre gonfio e duro dell’idropico Maestro Adamo. Questa immagine trae ulteriore espressività dall’utilizzo dell’aggettivo croia, probabilmente dal provenzale croi, a sua volta dal lat. corium ‘cuoio’, che per la prima volta viene utilizzato da Dante non con l’accezione moraleggiante di ‘vile, spregevole’, ma con quella più concreta di ‘duro’.
(Accademia della Crusca- K.D.V.)

Sulla Settimana Enigmistica spesso mi è capitato di incontrare la definizione: “ “ventre, pancia” da collocare in tre caselle vuote, epa appunto. Ancor più spesso l’ho incontrata nei rebus. La parola rimane comunque legata al suo significato greco nelle parole mediche come epatico, epatite etc. etc.

E’ questo un canto in cui Dante, ma questo avviene anche in altri canti, dimostra di avere profonde cognizioni mediche (pensiamo alla descrizione dell’idropisia di Maestro Adamo o della “febbre aguta” di Sinone), del resto alcuni studiosi hanno ipotizzato che in un viaggio giovanile a Bologna, Dante abbia avuto modo di frequentare per qualche tempo corsi di medicina presso l’Università di quella città; si ipotizza ciò anche per la sua scelta di iscriversi nel 1295 all’arte dei medici e degli speziali che però conteneva altre branche oltre quelle citate. Dei corsi universitari non esistono prove dirette, la prova invece della sua appartemenza alla corporazione la si trova sfogliando l’albo delle iscrizioni alle corporazioni medioevali conservato a Firenze.

 

 

 

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La parola di oggi (Sabato 16 Ottobre) è:

“latino

 

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino“.
(Inferno XXVII, 33)

 

Dante viene sospinto da Virgilio a parlare con Guido da Montefeltro, il quale racconta la propria drammatica storia, che lo ha portato all’Inferno tra i consiglieri fraudolenti: diversamente dal greco Ulisse, protagonista del canto precedente, Guido è latino, cioè ‘italiano’: in questo come in altri passi dell’Inferno e del Purgatorio, latino vale infatti ‘italiano’, secondo un uso dei primi secoli che sottolinea la continuità tra l’Italia antica e l’Italia medievale. Nel Paradiso invece latino assume significati diversi: come sostantivo, vale ‘linguaggio’ (Paradiso X, 120: “quello avvocato dei tempi cristiani [Orosio] / del cui latino Augustin si provide”), ‘discorso’ (Paradiso XVII, 35: “per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno”); come aggettivo significa ‘chiaro’ (Paradiso III, 63: “ma ora m’aiuta ciò che tu mi dici, / sì che raffigurar m’è più latino”). Italiano, che Dante, come Petrarca, non usa, era pochissimo attestato al suo tempo, e si affermerà poco dopo, a partire dai testi in prosa. Dante, per riferirsi all’Italia, ben presente nella Commedia (ricordiamo la forza dell’invettiva “Ahi, serva Italia, di dolore ostello!”, Inferno VI, 76), anche se non come concetto politico, usa, oltre a latino, l’aggettivo italico (Paradiso IX, 26: “In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rialto”; Paradiso XI, 105: “reddissi al frutto dell’italica erba”).

(Accademia della Crusaca – I.B.)

La cosa che più mi ha colpito in questo episodio è assistere, dopo la morte di Guido da Montefeltro, al dibattito tra San Francesco (niente meno) e un diavolo per contendersi la sua ’anima; avremmo pensato tutti che San Francesco avrebbe vinto facile invece… invece ha la meglio il diavolo che sostiene (da un punto di vista teologico inappuntabile) che la coscienza viene prima dell’obbedienza e perciò lo vediamo prendere l’anima di Guido e consegnarla a Minosse che controvoglia (per la rabbia si mangia la coda) lo invia tra i fraudolenti. Ma perché all’Inferno? Guido fu un grande ed astutissimo condottiero ghibellino che poi, pentito, divenne frate francescano. Bonifacio VIII gli chiese un consiglio su come espugnare la rocca di Palestrina, (la città dei Colonna suoi odiatissimi avversari) promettendogli l’assoluzione in anticipo su qualunque soluzione avrebbe dato anche la più “sporca”. Guido, pur tra travagli e incertezze, gli consigliò di promettere il perdono ai nemici e poi di non mantenerlo, cosa che permise al papa di radere al suolo Palestrina.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 09 Ottobre) è:

“loquela

 

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto.
(Inferno X, 25)

 

Farinata riconosce Dante come suo conterraneo, identificandolo precisamente come fiorentino (“di quella nobil patria natio”) per il suo modo di parlare. Loquela è una parola latina usata nel Convivio e in altri versi del poema (Paradiso XXVII, 134 e XXIX, 131) nel senso di ‘idioma’ o di ‘facoltà di linguaggio’. Il v. 25 allude qui, con una citazione letterale, al passo del Vangelo (Matteo 26, 73) in cui Pietro è riconosciuto come seguace di Gesù proprio per la sua parlata: “loquela tua manifestum te facit”. Non è impossibile che tale citazione, attribuita da Dante a Farinata, fosse in qualche modo diffusa nella comunicazione corrente (come accade tuttora per molte frasi dei Vangeli), in riferimento al fatto che nella variabilità geografica della realtà linguistica italiana non era difficile riconoscere le origini di una persona dal suo modo di parlare. Del resto, anche il pisano Ugolino, sentendo parlare Dante si accorge che è fiorentino (“ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo”, Inferno XXXIII, 11-12). La variabilità dei volgari, descritta nel de vulgari eloquentia, secondo l’autore, è destinata a essere superata nella scrittura letteraria, ma il personaggio Dante, nella comunicazione parlata a cui allude l’opera, mostra evidentemente segni riconoscibili del suo volgare municipale materno. Una ripresa di questi versi (e del passo evangelico) si coglieva nei Promessi sposi del 1827 (cap. a proposito della “loquela” di un bravo del contado di Bergamo, che avrebbe dovuto far credere ad Agnese che il tentativo di rapimento di Lucia “proveniva da quella parte”. Nell’edizione definitiva Manzoni sostituisce loquela con linguaggio, ma permane il riferimento alla variabilità linguistica tra le diverse località, anche all’interno di una stessa area regionale.
(Accademia della Crusca – N.D.B.)

Anche oggi la “loquela”, o la differenza di accento, ci fa capire subito da che parte proviene una persona. Le differenze di parlata, pur nell’uso della medesima lingua o dialetto, sono così tante da essere diverse, alle volte, anche tra paesi e città confinanti. Si dice “dialetto milanese” ma quante diversità ci sono in quel milanese; già il milanese di Brugherio diverge (seppure per piccoli tratti), da quello di Milano e da quello di Monza. Che vi siano differenze tra Monza e Milano non mi sorprende, anzi secondo me le hanno accentuate apposta, perché tra queste due città, che pure quasi confinano, c’è sempre stata la voglia di differenziarsi, a partire proprio dal rito religioso, a Milano c’è il rito ambrosiano, a Monza quello romano. Così ci sono, a pochi chilometri di distanza, due diversi riti per la messa, due diversi carnevali. Mi ha portato a riflettere sul presente anche questo ricordo del “bravo” manzoniano che parlava bergamasco utilizzato per depistare, quante volte sui giornali abbiamo letto che il rapinatore parlava “con forte accento straniero”.

A questo punto visto che ho parlato di Monza come illustrazione posto questa bella immagine dell’affresco del museo del Duomo di Monza che rappresenta il matrimonio di Teodolinda, figlia del Duca di Baviera, con il re dei longobardi Autàri.

 

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La parola di oggi (Sabato 02 Ottobre) è:

“ortolano

 

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano etterno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto.
(Paradiso XXVI, 65)

Il sostantivo ortolano (attestato dal XIII secolo, dal latino hortulanus, derivato di hortus ‘orto’) è utilizzato solo questa volta nella Commedia ed è inserito dal poeta all’interno di una metafora di origine evangelica, legata all’ambito semantico dell’agricoltura. In risposta alle domande che San Giovanni gli pone riguardo alla carità, una delle virtù teologali di cui si discute nel XXVI canto del Paradiso, Dante afferma di amare profondamente il creato e tutte le creature, tanto quanto Dio stesso le ama. In questo passo, infatti, le “fronde” di cui si “infronda” (verbo parasintetico di invenzione dantesca) “l’orto”, cioè il mondo, sono tutti i viventi e “l’ortolano etterno” è Dio, che li crea e li nutre.
(Accademia della Crusca – E.A.)

Questo canto mi ha sempre fatto venire in mente il tutolo della bella commedia di Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”, infatti Dante dopo aver superato l’esame di San Pietro sulla fede, l’esame sulla Speranza di San Giacomo Maggiore ( l’apostolo fratello di Giovanni che, stando ai Vangeli, con Pietro e Giovanni vide la trasfigurazione di Gesù), viene sottoposto a un terzo esame, stavolta sulla Carità eseguito da San Giovanni. Tre esami perché tre sono le virtù teologali. Subito dopo incontrerà Adamo ma a quel punto sarà Dante a domandare. Venendo alla parola direi che è un vocabolo che ognuno di noi conosce ed utilizza ed è bello leggerla nel significato e l’importanza che Dante metaforicamente da a questa figura applicandola a Dio. Direi che è una grande attestazione di una concezione in cui la Natura altro non è che l’orto nel quale mettiamo radici e cresciamo, crescita che necessariamente pevede cura e attenzione al Tutto. Direi che siamo in piena e totale concezione ecologica.

Come illustrazione ecco un quadro di Giuseppe Arcimboldo, pittore manierista milanese di fine ‘500. Qui ci presenta il ritratto di Rodolfo II d’Asburgo imperatore del sacro romano impero

 

 

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La parola di oggi (Sabato 25 Settembre) è:

“zaffiro

 

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro […]
(Purgatorio I, 13)

 

Alle soglie del Purgatorio, il tono del poema dantesco cambia improvvisamente: abbandonate le tinte forti e cupe dell’Inferno, che hanno “contristati li occhi e ’l petto” (v. 18) del poeta, si entra in un mondo dominato da bellezza, serenità e purezza. Ciò che colpisce subito gli occhi di Dante è il cielo, unica cosa visibile, che riempie il cuore della dolcezza di un colore, quello dell’”oriental zaffiro”, che incarna pienamente lo spirito della nuova cantica. Il colore dello zaffiro, un azzurro limpido e trasparente, era paragonato a quello del cielo già nei lapidari medievali e il sostantivo, databile al 1225 circa e derivato dal latino sapphiru(m), a sua volta dal greco sáppheiros, assume, per metonimia, accezione cromatica già alla fine del Duecento.

(Accademia della Crusca – E.A).

Zaffiro ecco una parola che già solo all’udirla ci provoca emozioni; ci rasserena perché come dicono i poeti infonde tranquillità e bellezza, Carducci ci dice che non sa come “ma di zaffiro / Sento ch’ogni pensiero oggi mi splende”.

Nella Bibbia fu il colore usato figurativamente per descrivere le visioni della gloria di Dio:, Ezechiele ci dice due volte di aver visto “la somiglianza di un trono che era simile alla pietra di Zaffiro”. Ma molte sono le religioni antiche che ci parlano dello zaffiro e molte sono le leggende legate a questa pietra preziosa una delle più famose è un’antica fiaba persiana che ci racconta che i figli del re di Serendip (antico nome dello Sri Lanka) furono mandati in viaggio per sperimentare la realtà del mondo. Per caso i tre giovani Principi scoprirono cose meravigliose, tra queste una miniera di zaffiri. Da questa leggenda nasce l’origine del concetto inglese di “Serendipity” ossia la fortuna strepitosa nel trovare inaspettatamente cose di valore mentre si sta volgendo l’attenzione a tutt’altro.

Effettivamente però, anticamente questa gemma proveniva esclusivamente dalle miniere dello Sri Lanka, ancora oggi la fonte mineraria di zaffiri più importante al mondo. Siamo così passati dalia poesie e dalla leggenda alla a realtà ed allora ecco qui uno degli zaffiri più famosi del mondo lo “Zaffiro di Sant’Eodardo” incastonato alla sommità della corona inglese.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 18 Settembre) è:

“lunghesso

 

Noi eravam lunghesso mare ancora
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
(Purgatorio II, 10)

Lunghesso è preposizione dell’italiano antico, col valore di ‘lungo’, ‘accanto a’. Lungo è rafforzato da esso, spesso impiegato nella lingua medievale in funzione rafforzativa (‘proprio’), sia agganciandosi a preposizioni (sovresso, sottesso) che precedendo pronomi e nomi (anche seguito da articolo), come in Purgatorio IV, 27: “Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,/ montasi su in Bismantova e ‘n Cacume/ con esso i piè”.

(Accademia della Crusca – V.C.)

La preposizione dantesca di oggi, è assai antica, praticamente non più usata, ma mantiene in lei una sua specifica poeticità, che ancora troviamo sopratutto in quei poeti che fanno della parola un cammeo da ammirare; non per caso la troviamo in D’annunzio. Vi ricordate “Settembre” col suo bel incpit: “Settembre andiamo è tempo di migrare”? qualche riga più avanti ecco “lunghesso il litoral cammina/ la greggia” .

Ma la di là del fatto se questa preposizione piaccia o non piaccia siamo davanti a un’altra terzina particolarmente amata da chiunque ha esperienza di viaggio; è il momento in cui l’alba si è trasformata in aurora, si è pronti alla partenza, la tappa è già tutta fissata nella nostra mente, ma ancora, una leggera ed impercettibile malinconia, ci fa indugiare, come a mandare un ulteriore saluto al luogo che ci ha accolto la sera prima. E comunque nel viaggiare quante albe, quante aurore, quanti tramonti.

Quante ne ho incontrate nel mio andare…

 

 

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La parola di oggi (Sabato 11 Settembre) è:

“galassia

Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno […]
(Paradiso XIV, 99) 

La terzina in cui appare il termine galassia costituisce la prima parte di una similitudine con la quale Dante paragona la via lattea ai beati del cielo di Marte. La prima, distesa tra i poli della terra, biancheggia di notte per la moltitudine di stelle che la compongono, i secondi irradiano allo stesso modo una luce abbagliante, ma si dispongono a formare nel cielo il “venerabil segno” della croce. Il termine, di ambito astronomico, era già stato usato e a lungo spiegato nel Convivio, ma sono i versi della Commedia a fissarlo, grazie all’immagine suggestiva in cui è inserito, nella mente e nella memoria del lettore.
(Accademia della Crusca – R.L.)

Forse per capire meglio è bene aggiungere altri versi in modo da chiudere la similitudine:

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ‘ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo

Ovvero, come la Via Lattea, la cui natura fa dubitare i più saggi, biancheggia tra gli opposti poli celesti, punteggiata da stelle di maggiore e minore splendore, così quei due raggi (i beati del cielo di Marte), percorsi dai lumi, formavano il segno della croce, ovvero il segno che divide il cerchio in quattro quadranti uguali.

Dello spazio non parlo mai volentieri perché sono numeri e grandezze che non riesco neppure ad immaginare. Nell’Universo ad oggi sono state calcolate più di 200 miliardi di galassie, le più piccole delle quali contengono centinaia di milioni di stelle. Solo a scriverlo mi sento stordire, preferisco allora, visto che il temine deriva dal greco γαλαξίας (galaxìas), che significa “di latte, latteo” , raccontare il mito che ha dato il nome a questa parte di cielo.

Zeus, invaghitosi di Alcmena, dopo avere assunto le fattezze del marito, il re di Trezene Anfitrione, ebbe un rapporto con lei, che rimase incinta. Dal rapporto nacque Eracle che Zeus decise di porre, appena nato, nel seno della sua consorte Era mentre lei era addormentata, cosicché il bambino potesse bere il suo latte divino per diventare immortale. Era si svegliò durante l’allattamento e si rese conto che stava nutrendo un bambino sconosciuto: respinse allora il bambino e il latte, sprizzato dalle mammelle, schizzò via, andando a bagnare il cielo notturno; si sarebbe formata in questo modo, secondo gli antichi Greci, la banda chiara di luce nota come “Via Lattea”.

Nella foto allegata il quadro che ci mostra come questo mito, la nascita della Via Lattea,  fu interpretato da Tintoretto

 

 

 

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La parola di oggi (Sabato 4 Settembre) è:

“aiuola

 

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci

 

Anche in Paradiso XXVII, 86: “E più mi fora discoverto il sito / di questa aiuola”. Dante usa due volte questa metafora (aiuola = piccola aia) per sottolineare l’infinitesima piccolezza della Terra vista dall’altezza infinita del cielo. Il confronto tra la piccolezza della Terra e l’infinità dell’universo è presente in diversi autori classici e anche volgari, anche se il punto di riferimento di Dante pare Boezio.

(Accademia della Crusca – C.G.)

E’ probabile che alcuni lettori di questo post leggendo la parola “aiuola” e poi vedendo a lato la foto, meravigliandosi diranno: “ma cosa c’entra la parola con la foto?” Si tratterebbe di una meraviglia assolutamente comprensibile perché fa il paio con la mia allo scoprire che la parola aiuola, che in me richiama, fiori ed erbette, ed anche rotonde tra strade affollate, in realtà nasce con un significato di “piccola aia”. Ma al di là di questa meraviglia voglio segnalare la bellezza e la crudezza di questo verso su cui è sempre opportuno meditare: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. Si, guerre, uccisioni, dolori, per un lembo di terra che, paragonato alla grandezza dell’Universo, nemmeno un atomo sarebbe. Piccolezza della terra, piccolezza nostra, mi vengono in mente le parole de “l’amico ritrovato” di Fred Uhlman: “Per la prima volta mi resi conto della mia infinita piccolezza e del fatto che la nostra terra non era altro che un sassolino su una spiaggia dove, di sassolini, ne esistevano a milioni.“ Pensiero che porto sempre con me.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 28 Agosto) è:

“gaggio

 

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.
(Paradiso VI, 118)

 

Confrontare i premi ricevuti a ciò che abbiamo fatto è parte della nostra gioia, dice Giustiniano, perché non sono né minori né maggiori (del giusto). Premi è dunque qui gaggi, plurale di gaggio, un gallicismo attestato nella lingua del Trecento nel senso di ‘pegno’, ‘garanzia’ (ce n’è traccia nel nostro ingaggio). Dante lo usa invece nel senso di ‘premio’, ‘ricompensa’, forse spiegabile col fatto che a volte il gaggio veniva dato al vincitore di un torneo, come si legge in un passo della Cronica di Matteo Villani.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Si credo anch’io che un retaggio di questa parola antica, che ora significa semplicemente pegno, sia nascosta all’interno del termine “ingaggio”, infatti cos’è un ingaggio se non la promessa di una ricompensa collegata ad un impegno da svolgere? Ma venendo al canto nel suo complesso il  protagonista qui  è Giustiniano, ultimo imperatore bizantino educato nel seno di una famiglia di lingua e cultura latine, che regnò dal 527 fino al 565 anno della sua morte. La sua eredità più duratura fu il riordinamento del diritto romano nel Corpus iuris civilis . Giustiniano, sempre per via di quelle coincidenze che spesso mi meravigliano,  mi ha fatto compagnia in queste vacanze.. Infatti il libro che ho letto in quei giorni era: “le guerre gotiche” di Procopio, che di quel periodo è staro testimone oculare nonché storico di corte. Mi ha fatto compagnia Giustiniano ma soprattutto Belisario il suo generale che Dante ci dice che passò di vittoria in vittoria perché assistito direttamente dal cielo. Procopio a dire il vero questo non lo dice ma certamente ce lo descrive come un generale assi capace ed intelligente, furbo ma altresì’ giusto e generoso. A proposito di giustizia Giustiniano in Paradiso spiega a Dante che le sue beatitudini sono minori, rispetto ai cieli superiori, (del resto è inevitabile che chi cerchi sulla terra onore e fama, si dedichi meno di altri all’amore divino), ma che ciò non provoca nessun pensiero negativo perché i premi sono perfettamente commisurati al merito e la giustizia divina  è tale che ad ognuno sembra di avere la gioia perfetta.

Nel bellissimo mosaico di Sant’Apollinare in Classe nei pressi di Ravenna lo vediamo rappresentato  insieme alla moglie Teodora, donna di grande bellezza e intelligenza che l’aiutò non poco nella gestione dell’Impero.  

 

 

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La parola di oggi (Sabato 21 Agosto) è:

“stormo

 

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo […]
(Inferno XXII, 2)

Diversamente dal corrispondente verbo stormire, il sostantivo stormo (dal longobardo *sturm ‘tempesta’) non ha in Dante la sua prima attestazione italiana, perché è usato già in precedenza nel senso di ‘tumulto’, ‘zuffa’. Qui cominciare stormo significa ‘dare inizio allo scontro’, ‘iniziare l’assalto’. In seguito la parola verrà usata soprattutto per riferirsi a gruppi di persone (anche non armate) o di animali, in particolare di uccelli o insetti in volo (e quindi anche di aerei militari).

( Accademia della Crusca  ‘P.D’A.)

Qui la parola viene usata come similitudine per descrivere i dieci diavoli che si apprestano a fare da scorta a Dante e Virgilio nella Male Bolge, a me però la prima immagine che è venuta in mente è “Tra le rossastre nubi/ Stormi d’uccelli neri/  com’esuli pensieri /nel vespero migrar” di quella poesia carducciana (San Martino) con la nebbia che “sale agli irti colli” e che mi è restata arpionata nel cuore fin  dalle elementari. Ma nei ricordi del cuore se la cavano bene anche le campane di Giovanni Pascoli che spesso suonavano a stormo, o come anche si dice “a martello” ovvero con rintocchi rapidi e staccati per radunare la gente o avvisarla di un pericolo. Credo che siano ricordi che entrino nel cuore anche di alcuni dei lettori di questa rubrica perché  Carducci e Pascoli sono due autori che abbiamo affrontato nei nostri corsi all’Acu.

Non ci pensavo ma guarda caso passa un aereo, ed ecco che la parola stormo mi richiama le frecce tricolori un pezzo di quell’Italia della quale andare orgogliosi;  approfitto allora per mandare un  saluto a tutti i componenti della Compagnia della Mongolfiera che da anni sono impegnati per  far conoscere le imprese del volo a partire da quel famoso 13 marzo del 1784 quando il conte Paolo Andreani nella sua Villa a Moncucco (ora Brugherio) fece salire in volo la prima mongolfiera d’Italia. Certo “stormo” sono anche i bombardieri ma quelli è meglio non vederli mai volare.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 14 agosto) è:

“garrire

 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
(Inferno XV, 92)
 
Il verbo garrire, che per noi oggi nomina, come già in Petrarca, lo stridio delle rondini, in passato valeva anche ‘rimproverare’, ‘rimordere’ e in questo senso lo usa Dante qui e a Paradiso, XIX 147. In entrambi i passi lo adopera al congiuntivo (con forma senza l’interfisso -isc- che si userebbe oggi in garrisca) e in rima col raro arra, ‘anticipo, caparra’.
(Accademia della Crusca – V.C.)
“io voglio che vi sia chiaro che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, purché non mi rimorda la coscienza” così risponde Dante davanti alla profezia del suo maestro Brunetto Latini.
Chissà – mi chiedo – com’è avvenuto che nel giro di poco tempo il verbo garrire sia passato dal significare “ rimproverare, rimordere” a definire il ciarliero chiacchiericcio delle rondini; forse che il loro stridio potesse far pensare a reciproci rimproveri durante un litigio? Non so. Però del tutto scomparso questo significato antico non è, lo incontriamo ancora nella “mie prigioni” di Silvio Pellico: “finimmo per potere ogni giorno conversare assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci”. Inoltre ha anche un altro significato questo verbo ed quello di indicare il fremere delle bandiere, delle vele o dei drappi in genere, agitati dal vento. “La vela maestra sbatteva e garriva come un vessillo.” scrive D’Annunzio. Ma per illustrare la parola, non scelgo bandiere o vessilli, scelgo le rondini, e scelgo proprio quelle che hanno nidificato sotto il tetto della cascina”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 7 agosto) è:

“agrume

 

[…] e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agruame […]

(Paradiso XVII, 117)

 

Il sostantivo agrume deriva dal latino volgare *acrūme(n) ‘frutto aspro’, dal latino classico ācrus ‘acre’; entrambe le forme risalgono alla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’. Nel Trecento, secolo delle prime attestazioni, il sostantivo aveva un significato ben diverso da quello attuale: non indicava infatti i frutti e gli alberi del genere Cedro, ma alcuni tipi di ortaggi dal gusto forte e pungente, come il porro, la cipolla o l’aglio. Proprio questa antica accezione permette a Dante di sviluppare una metafora dalle tinte realistiche e concrete: tutte le verità che egli apprende nel Paradiso attraverso le parole profetiche dei beati, spostandosi di “lume in lume” (v. 115), avranno per molti di coloro che le ascolteranno un sapore intenso e spiacevole, analogo, appunto, a quello tipico di alcuni aspri ortaggi.

(Accademia della Crusca – E.A.)

E Dante questo coraggio di “ridire” pur sapendo l’odio e le inimicizie che tutto ciò gli avrebbe procurato, ce l’ha. Lo spinge a ciò però, il coraggio certo, ma altresì la voglia di “fama” dice infatti nei versii successivi :

“e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”

ovvero parafrasando:

“se io sarò timido amico della verità (se ometterò dei particolari), temo di non avere la possibilità di vivere tra coloro che definiranno antico questo tempo (tra i posteri).”

Bello questo modo di definire i posteri “coloro che questo tempo chiamearnno antico”.

E in ciò avrà l’approvazione totale del suo avo Cacciaguida (protagonista di quasi tre cantiche intere del Paradiso) che lo invita a dire tutto senza tentennamenti fregandosene di chi ci rimarrà male, (e lo dice ciò usando un perfetto francesismo): “lascia – dice – che chi ha la rogna si gratti”. Ma da anche un’altra spiegazione che sembra uscita dalle cronache scandalistiche dei giornali odierni, gli ricorda che nei vari regni dell’Olttetomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) gli sono stati mostrati pressoché solo anime note, perché alle esperienze della gente comune nessuno presta attenzione, nessuno le porta ad esempio. Insomma (per lo meno dal punto di vista dei comportamenti) siamo sempre all’Ecclesiaste (1,10) “nihil novum sub sole”. Niente di nuovo sotto il sole. Per illustrare il post scelgo una delle foto (sempre magnifiche) di Sara Gambazza.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 31 Luglio) è:

“addio

 

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio […]
(Purgatorio VIII, 3)
 
In rima con disio e in dipendenza del verbo dire, la Commedia ci offre qui una delle prime attestazioni di questa formula di saluto di congedo (propriamente a Dio, cioè ‘ti/vi raccomando a Dio’, ‘ti/vi affido a Dio’), che è la più antica tra quelle tuttora in uso. Allora, però (e così ancora fino a tempi recenti), con addio non si intendeva marcare un distacco definitivo.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)
E’ abbastanza ovvio eppure vi giuro che non ci ho mai pensato a questo fatto che “addio” derivasse da “a Dio”; in questo senso si giustifica anche quel significato di distacco definitivo che alcuni danno a questa parola. E’ una parola molto usata nella letteratura, penso a quel pezzo che in alcuni casi fanatici insegnanti di fede manzoniana ci facevano addirittura imparare a memoria: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! …..Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 24 Luglio) è:

“aceto

 

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
(Purgatorio XX, 89)
 
Il sostantivo aceto (attestato dal secolo XIII), dal latino acētu(m), a sua volta dalla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’, indica un liquido derivato dalla fermentazione del vino (o di altri elementi naturali), dal sapore acido, acre. Un misto di aceto e di fiele fu la bevanda offerta a Cristo per dissetarsi sul Calvario, a cui Dante qui allude: la terzina parla, infatti, delle offese perpetrate contro Bonifacio VIII durante l’oltraggio di Anagni. Il papa diventa qui un nuovo Cristo, costretto a sopportare i colpi inferti alla Chiesa dalla casa reale francese, contro cui Dante si scaglia nel corso dell’intero canto, l’ultimo della cornice degli avari.
(Accademia della Crusca – E.A.)
Questi versi sembrerebbero contenere in sé un’evidente contraddizione, vediamo infatti qui Bonifacio VIII, il papa odiato da Dante (fu lui il responsabile del suo esilio da Firenze), quel Papa che Dante accusa di aver trasformato il Vaticano in una “cloaca / del sangue e de la puzza” e per il quale vede già pronto un posto all’Inferno tra i papi simoniaci, venir paragonato a Cristo soffrente tra i due ladroni. Ma la contraddizione in realtà non c’è e Dante ci dà una dimostrazione della sua capacità di autonomo giudizio, non confondendo la persona con l’istituzione. Nel caso della “schiaffo di Anagni” (7 settembre 1303) Dante afferma che in quell’occasione ad essere oltraggiato da Guglielmo di Nogaret e Giacomo Colonna, non fu Bonifacio VIII, fma Gesù stesso poiché il Papa è vicario di Cristo in terra. La resistenza di Bonifacio VIII ai francesi fu però inutile, egli infatti morì un mese dopo lo schiaffo e questo spianò immediatamente la via al predomino francese sul papato con il trasferimento della sede ad Avignone.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 17 Luglio) è:

“belletta

[…] ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra.
(Inferno VII, 124)

 
ella palude dello Stige Dante incontra gli iracondi, i quali sono immersi, come dichiarano loro stessi, “ne la belletta negra”. La voce belletta (documentata già prima di Dante) significa ‘melma, fanghiglia’, come chiariscono altre parole presenti nel canto: palude, pantano, melma, limo, lorda pozza, fango. L’etimo è però incerto: secondo alcuni deriverebbe da belletto (a sua volta da bello) nel senso di ‘impasto’, secondo altri da melmetta, diminutivo di melma, per altri ancora dalla voce toscana melletta, che ha lo stesso significato; ma la parola è più antica di quelle da cui dovrebbe derivare.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)
A proposito di questa parola mi faccio guidare da Boccaccio che nel suo commento alla Commedia, (ricordo che fu lui a definire “Divina” il libro che Dante chiamò semplicemente Commedia). A proposito di questi versi scrive: “Limo è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive de’ fiumi l’acqua torbida… la qual noi volgarmente chiamiamo belletta “
Ma è una parola che ha trovato fortuna tra scrittori e poeti dei secoli successivi; Ippolito Nievo ne “le confessioni di un italiano” scrive: “la strada andava sempre in giù, e le piante mi scivolavano sopra una belletta. sdrucciolevole come il ghiaccio . Manzoni invece nei Promessi Sposi usa (inventa?) il termine “melletta”, che indica l’unione della melma con la belletta. No si può prprio dire che non ami la precisione linguistica…
Ma questa parola dà anche il titolo (“Nella belletta”) ad un bel madrigale di Gabriele D’annunzio:
 
“Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio

Non si può proprio dire che qui D’annunzio non riesca a trasmettere un senso profondo di disfacimento, di corruzione e morte, sotto il peso di un estate che col suo calore tutto disfa e tutto corrompe.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 10 Luglio) è:

“modo

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
(Inferno V, 102)

 

La parola modo compare nella Commedia con una notevole gamma di significati, che in parte coincidono con quelli dell’italiano moderno: ‘atteggiamento’, ‘modo di presentarsi’ o di ‘essere’. Uno dei significati remoti si lega al latino: ‘tono’, ‘canto’ (in Purgatorio XVI, 20, dove le anime degli iracondi intonano l’Agnus Dei). Nel canto di Francesca, a cui qui abbiamo fatto riferimento, la parola sembra di semplice interpretazione: la donna pare ancora offesa dalla “maniera” in cui la vita le fu tolta. Quasi italiano corrente. In realtà non tutti hanno interpretato così. Come mai Francesca è offesa dal “modo” in cui fu uccisa? In qual modo speciale fu uccisa? O forse quell’uccisione avvenne in un momento particolare, magari quello del rapporto sessuale? Oppure l’offesa è ben altra, cioè non sta nel “modo” della morte, ma nel “modo” dell’amore, smodato e disordinato, dunque vizioso? Ma allora perché ricordare ancora quell’amore, che del resto sembra non essere finito? Si aggiunga che molti codici non portano “modo”, ma una parola diversa, cioè “mondo”, e così, se questa lezione fosse giusta (ma viene generalmente reputata deteriore), vorrebbe dire che ancora la società offende Francesca per memoria di questo suo amore. Insomma, anche le cose semplici, in Dante, a ben vedere, si fanno complesse.(Accademia della Crusca -C.M.)

E’ vero alle volte in Dante le cose si fanno complesse, ma in quel caso sta a noi poi renderle più semplici; qui mi è facile, perché nessuna delle congetture portate dal commentatore della Crusca mi convince. E’ così bello in questo caso interpretare la parola “modo” nel suo significato letterale, valido anche oggi, di “maniera”. Quel “modo” si riferisce, o almeno così io lo interpreto, al tremendo fatto di essere uccisi all’improvviso, senza aver la possibilità di dire una parola di discolpa, di poter spiegare le motivazioni del loro sentimento. Perché andare a spezzare il capello in quattro volendo fare di questi versi una condanna verso l’amore “smodato, disordinato, quindi vizioso”? Qui siamo davanti al suo esatto contrario, un amore potentissimo e impossibile da fermare, e proprio per questo “amore”. E non è unDante che nel verso “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” riprende un verso di Guinizelli ovvero “Foco d’amore in gentil cor s’aprende” (dalla canzone Al cor gentil rempaira sempre amore) e consolida quel concetto che aveva già espresso in Vita Nuova, XX, “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa”.

Lo so il quadro di Chagall non si riferisce a loro, ma io Paolo e Francesca me li immagino così

 

 

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La parola di oggi (Sabato 3 Luglio) è:

“folgoreggiare

 

Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.
(Purgatorio XII, 27)

 

Folgorggiare è un verbo di conio dantesco che ha il significato di ‘precipitare rapido e luminoso come la folgore’. Indica il rapido muoversi verso il basso, l’atto del precipitare dunque, di Lucifero, che scende dal cielo folgoreggiando. Nella Commedia ricorre anche il verbo folgorare, che della folgore richiama il movimento rapido, improvviso e violento e che è usato per descrivere il susseguirsi incessante delle imprese di Cesare (“da indi scese folgorando a Iuba; / onde si volse nel vostro occidente, / ove sentia la pompeana tuba”, Paradiso VI, 70).
(Accademia della Crusca – C.Mu.)

Stavolta un piccolo commentino in più ci vuole se no qualcuno dei miei “27 lettori” potrà chiedersi: “ma come mai Lucifero è qui in Purgatorio? non l’avevamo visto nel ghiacciato Cocito a masticare Bruto, Cassio e Giuda? In realtà qui il Lucifero che vediamo è quello scolpito sul pavimento della Prima Cornice del Purgatorio dove si mostrano esempi di superbia punita; ecco Lucifero, il più bello degli angeli, precipitare dal Cielo dopo essere stato folgorato da Dio e dall’altro lato il gigante Briareo giacere a terra morto, dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove, e molti , molti altri esempi ancora. Ad ogni modo venendo alla parola è proprio efficace, si immagina davvero di vedere Lucifero “nel suo precipitare rapido e luminoso”. In realtà questa immagine mi ha anche ricordato un verso del “5 maggio” di Manzoni: “lui folgorante in solio/ vide il mio genio e tacque”. E si il verbo folgoreggiare, si presta bene a rappresentare la figura di Napoleone, la sua incredibile velocità nel vincere, nel perdere, nel risollevarsi, nel ricadere definitivo: “due vote nella polvere, due volte sugli altar”.

Ecco come interpreta la cacciata di Lucifero, Lorenzo Lotto, pittore tra i principali esponenti del Rinascimento veneziano dei primi del Cinquecento; come si vede si attiene alla tradizione biblica e ci mostra Lucifero ancora bello. MI è sempre piaciuto in questo quadro la simmetria tra la caduta di Lucifero e l’ascesa di Michele, in una suggestiva sinfonia cromatica.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 26 Giugno) è:

“festinare

 

[…] e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina.
(Purgatorio XXXIII, 90)

il ciel che più alto festina” è il Primo Mobile, il cielo che ruota veloce più in alto o in alto più veloce (in realtà le due cose contemporaneamente), “quel c’ha maggior fretta” (Paradiso I, 123). Festinare è un latinismo (‘affrettare, affrettarsi’) ripreso da Dante anche nella forma del participio (la “festinata gente” di Paradiso XXXII, 58 sono i bambini giunti in fretta in paradiso, perché prematuramente morti) e nella forma dell’aggettivo festino (festinus, ‘pronto, rapido, veloce’). Anche se non è una sua coniazione, l’unico uso ricordato di questo verbo poi pressoché scomparso è quello di Dante.

(Accademia della Crusca – V.G)

Questa parola sembrava avere un futuro radioso nell’italiano nascente, ma poi in realtà è scomparso quasi subito e da Dante in poi più nessuno dei nostri autori l’ha adoperato. Certo rimane nella nostra mente per via della locuzione latina che Svetonio ha attribuito ad Augusto: “Festina lente” overo “affrettati lentamente”. Questo motto fu poi utilizzato da Cosimo de’ Medici nel smibolo della sulla sua flotta mercantile: la tartaruga con vela; la tartaruga simbolo di prudente lentezza, la vela simbolo di forza e viaggio.

A me questo ossimoro viene spontaneo affiancarlo al famoso episodio dei Promessi sposi quando il gran Cancelliere Ferrer (capitolo 13) si rivolge al cocchiere che deve guidare la carrozza tra la folla in tumulto con le parole: “Adelante Pedro, ccn judicio”., “Veloce Pedro, con giudizio”

Ecco qui sotto il simbolo di Cosimo de’ Medici, ancora visibile oggi su soffitti e pavimenti di Palazzo Vecchio a Firenze e una targa nella cappella Salocchi, 1939, al cimitero di Trespiano frazione di Firenze.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 19 Giugno) è:

“divenire

 

Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
(Inferno XIV, 76)

 

Qui e in altri due luoghi del poema (Inferno XVIII, 68, Purgatorio III, 46) il verbo divenire, che Dante usa ripetutamente nei significati ancora comuni oggi di ‘diventare, cambiare rispetto a prima’, recupera il significato del verbo venire che lo compone e quindi il valore di ‘giungere, pervenire’.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Questo “picciol fiumicello” in realtà è il Flegetonte, per la mitologia greca fiume di fuoco, che Dante invece trasforma in fiume di sangue bollente dove sono puniti i violenti verso il prossimo (tiranni, omicidi, predoni e ladroni). Dante nella Commedia riprende i fiumi degli Inferi della mitologia greca e romana, incontreremo infatti all’Inferno anche lo Stige, l’Acheronte,  il Cocito  che Dante però descrive non già come un fiume, ma come un enorme lago ghiacciato situato sul fondo dell’Inferno,  e infine  il Lete che pero Dante colloca in Purgatorio  nel Paradiso Terrestre e dove immagina che  si lavino le anime purificate prima di salire in Paradiso, per dimenticare le loro colpe terrene.  A fianco a questo fiume fa scorrere  l’Eunoè che invece ha il compito di far ricordare le cose buone del proprio passato .

Questa volta anziché aggiungere come al solito il mio commento a quello della Crusca, lascio che a commentare sia niente meno che Giovanni Boccaccio al quale tra l’altro si deve se l’opera di Dante sia chiamata da tutti “Divina Commedia” e non semplicemente “Commedia” com’era il titolo originale.

Così ci parla Boccaccio del Flegetonte nelle sue “Esposizioni sopra la Commedia di Dante”: Seguita il terzo fiume, chiamato Flegetonte, il quale è interpretato “ardente”: volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell’ardore della gravità de’ supplìci […]»

Le Esposizioni raccolgono le sessanta lezioni sulla Commedia di Dante che Boccaccio tenne in pubblico presso la chiesa di Santo Stefano in Badia a Firenze. I singoli canti sono spiegati letteralmente e nel loro significato allegorico. Il Comune di Firenze aveva commissionato a Boccaccio la spiegazione dell’intera Commedia ma il poeta, a causa delle gravi condizioni di salute, fu costretto a interrompe il suo lavoro al XVII canto dell’Inferno.

 

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La parola di oggi (Sabato 12 Giugno) è:

“Italia

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purgatorio VI, 76)

 

Il nome dell’Italia ricorre ben undici volte nella Commedia, e non sempre come semplice riferimento geografico per indicare la penisola che si estende dalle Alpi al mare o che sta tra Tirreno e Adriatico. Dante non cullava certo in sé un’idea di nazione italiana come l’abbiamo noi o come l’ebbero gli uomini del Risorgimento, e tuttavia aveva ben chiara l’identità comune che univa e unisce tuttora gli abitanti della terra dove il sì suona. Insomma, non c’è poi tanto da ridere con saccenteria sull’idea che Dante sia uno dei nostri “padri della patria”: lo è davvero. Ricordiamocene oggi, festa della Repubblica.

(Accademia della Crusca – C.M.)

Questa è la famosa invettiva di Dante contro l’Italia del suo tempo, contro i Comuni che si facevano guerra l’uno con l’altro. “a che è servito – si chiede Dante nei versi succesivi – che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c’è nessuno a metterle in pratica?” Pensiero sempre attuale.  Molti furono i poeti che piansero l’Italia, penso a Petrarca:

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,”

penso a Leopardi:

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi.”

L’Italia per la quale combatterono e morirono migliaia di giovani patrioti, che seguendo i versi di Goffredo Mameli, si “strinsero a coorte” e gridarono “siam pronti alla morte” Durante il Risorgimento, durante la Resistenza:

“Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.”

 

Salvatore Quasimodo.

Certo c’è l’Italia
“presa a tradimento,
l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,”
ma proprio per questo dobbiamo cantare
“viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.”

 

E nonostante le veritiere parole di Battiato

“Povera patria
schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore
ii credono potenti e gli va bene quello che fanno
e tutto gli appartiene” e il suo “non cambierà”
continuare a pensare e lottare perche “cambierà”.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 5 Giugno) è:

“vanità”

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
(Inferno VI, 36)
 
Nell’Inferno e nel Purgatorio Dante descrive il paesaggio come realtà concreta, ma i dialoghi con i personaggi sono talmente intensi che l’autore sente di dover ricordare al lettore che le anime sono senza corpo, “vanità che par persona”. E in Purgatorio XXI, 135-6, Stazio avverte che le anime sono “vanitate”, ombre da non trattare “come cosa salda”. Il significato della parola è, dunque, ‘inconsistenza corporea’, invece in Paradiso XIV, 56, la parola ha il senso corrente di ‘caducità’.
(Accademia della Crusca – G.B.)
Il termine vanità ora fa pensare a delle persone che amano mettersi in mostra al fine di far risaltare la loro bellezza, eleganza, intelligenza e/o capacità godendo di quel riconoscimento. Ma c’è anche oggi un significato più profondo e più ampio che è la considerazione di quanto le cose umane siano in realtà caduche, effimere, e il loro valore soltanto apparente. Concetto ben conosciuto dai poeti.

Petrarca “che quanto piace al nondo è breve sogno”
Leopardi: “l’infinita vanità del tutto”

Per illustrare non c’è che l’imbarazzo della scelta, la vanità in tutte le sue forme ed accezioni è un tema molto caro ai pittori. La scelta che faccio ricorrendo al mito di Narciso, è forse la più facile e banale e fuorviante rispetto al significato della parola dantesca, ma il quadro è di una bellezza tale che supera ogni obiezione razionale.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 29 Maggio) è:

“scerpare”

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?”
(Inferno XIII, 35)

 La forma deriva dal verbo latino excarpĕre ‘strappare, svellere’ detto di ramo o sterpo, compare qui a sottolineare lo strazio dell’anima di Pier Delle Vigne, suicida, trasformato in arbusto in cui scorre il sangue. Il verbo, fortemente fonosimbolico, arriva fino a Montale in Tramontana: “è un urlo solo, un muglio di scerpate esistenze”.

(Accademia della Crusca -R.S.)

 Pier delle Vigne fu un importante politico e letterato del regno di Sicilia ai tempi di Federico II. Accusato di congiura/corruzione (ancora oggi però non si conosce nei dettagli l’accusa) fu arrestato a Cremona e fatto accecare con un ferro ardente dallo stesso Federico II a Pontremoli. Dante però lo assolve da questa accusa ma lo pone comunque all’Inferno per via del suicidio.

Qualche terzina più avanti sarà lo stesso Pier delle Vigne a dire:

 “L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.”

Tornado però al verbo, eccolo lì che ci aspetta nella sua altezzosa grandezza poetica, orgoglioso di essere arrivato fino a noi, saltando di poeta in poeta; in realtà non è vero che arriva ”fino a Montale”, infatti lo troviamo anche successivamente, per esempio adoperato da Alda Merini nella poesia Genesi:

e fiorita son tutta
e di ogni velo vò scerpando il mio lutto”

Ecco come interpreta questo episodio Ugo Nespolo, artista contemporaneo.

 

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La parola di oggi (Sabato 22 Maggio) è:

“indiarsi”

 

D’i Serafin colui che più s’india,
Moisè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria …
(Paradiso IV, 28)

 

Neologismo e hapax dantesco, il verbo pronominale indiarsi, da Dio con il prefisso in-, significa ‘avvicinarsi a Dio attraverso la contemplazione, divenendo partecipe della beatitudine e della gloria divina’. A indiarsi sono i Serafini, la più alta gerarchia angelica.

(Accademia della Crusca – L.F.)

 Qui Dante ha osato inventare un termine che prima nessuno aveva utilizzato: indiarsi. E arriverà alla fine del Paradiso a quel verbo spettacolare che è “transumanare” anche se lui per primo ci dice che questa parola “signficar per verba non si poria”.

Da notare che il verbo “indiarsi” fu usato poi anche da due poeti assai lontani da Dante, penso a Carducci (Com’angel contemplando arde e s’india) ma soprattutto a Leopardi (e teco la mortal vita saria /simile a quella che nel cielo india); com’è bello questo termine usato da Leopardi nella poesia “alla mia donna” per indicare l’amore terreno, così forte da “indiarsi”.

Come foto esco fuori tema perché anziché i serafini che sono gli angeli più vicini a Dio nella gerarchia celeste scelgo i cherubini che stanno un pochino più sotto. Qualcuno pensa a questa scelta perché da sempre mi schiero coi più deboli? No, in questo caso perché sono di Raffaello.

 

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La parola di oggi (Sabato 15 Maggio) è:

“co”

 

L’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte, presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.
(Purgatorio III, 128)

 

Co (da lat. caput) è un dialettismo, voce lombarda e significa ‘capo’, ‘testa’. Il passo dantesco si riferisce al giovane Manfredi che (ibid. 107, biondo […] e bello e di gentil aspetto), figlio di Federigo II, fu vinto e ucciso a Benevento dall’esercito di Carlo d’Angiò nel 1266 e fu sepolto all’imbocco (in co) del ponte del beneventano fiume Calore in un punto segnalato da un ammasso di pietre (sotto la guardia della grave mora); e da quel luogo, poiché Manfredi era stato scomunicato, Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, ne fece trasportare i resti mortali (l’ossa del corpo) fuori dal regno di Napoli (ibid. 131, fuor dal regno) lungo il Verde (o Liri/Garigliano).

(Accademia della Crusca – E.B.)

Ecco un’altra parola dantesca che piacerà particolarmente a tutti coloro che amano la lingua milanese, oltretutto è una parola che da Dante ad oggi è rimasta tale e quale. Venendo invece alla Storia Dante ci ricorda la battaglia di Benevento che significò il dominio francese nel Sud italiano e iniziò il predominio guelfo in Italia Fu una tremenda battaglia ma fu anche una storia di tradimenti che vide nobili e feudatari napoletani e siciliani passare al nemico d’oltralpe con benedizione e laute ricompense papali. Ma stando al tema delle parole mi piace ricordare un’altra parola, napoletana in questo caso, che nacque in quel periodo. È il caso del termine che si lega a quelle povere donne affamate che correvano sotto il fossato del Maschio Angioino per recuperare i resti dei lauti banchetti dei regnanti francesi i quali si divertivano, dopo ogni abbuffata, a lanciare dagli spalti “les entrailles” ( i resti, le viscere, le interiori). Quando questi avanzi tardavano ad arrivare venivano invocati da queste affamate popolane al grido di uno storpiato francesismo “Zendraglie! Zendraglie!”, nome che ancora oggi portano numerose trattorie napoletane che hanno nel loro menù la cucina delle interiora. Come illustrazione una miniatura della battaglia tratta dal libro trecentesco “Cronica” di Giovanni Villani.

 

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La parola di oggi (Sabato 8 Maggio) è:

“sanza ‘nfamia e sanza lodo”

 

Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”.
(Inferno III, 36)

 

È una delle molte espressioni di origine dantesca che grazie al successo della Commedia si sono diffuse anche nella lingua comune e risultano ancora oggi vive: nell’italiano contemporaneo “senza infamia e senza lode” è detto di una persona o di una cosa di valore e qualità mediocre, che non si distingue né in positivo, né in negativo. Dante la impiega per riferirsi, in maniera sprezzante, agli ignavi, ossia a coloro che sono vissuti senza prendere mai posizione e quindi senza mai meritare né il biasimo né l’elogio di altri uomini.

(Accademia della Crusca – S.G.)

Certo per uno di parte come Dante questa era proprio la categoria degli uomini che più disprezzava, ma con lui sono in tanti ad avere quest’opinione. Penso a Platone: “Il prezzo pagato dalla brava gente che non si interessa di politica è di essere governata da persone peggiori di loro.” Penso a Gramsci, a quella sua celeberrima frase “odio gli indifferenti.” Anche Einstein (“Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla”) e Martin Luther King (“Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni.)” ci ricordano il pericolo di questo non schierarsi. E potrei continuare all’infinito, ma so che ho già esagerato con tutte queste citazioni e qualcuno a questo punto potrebbe dirmi : “ si tutte queste citazioni, ma perché non ci spieghi invece cosa succede agli ignavi nell’Antinferno?”

Non lo faccio perchè voglio essere coerente con l’invito di Virgilio “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

Sempre in coerenza chiudo con le famose tre scimmiette di Keit Haring, il noto pittore e writer statunitense morto nel 1990 a soli 31 anni di Aids, che ci mostrano il simbolo di una vita indifferente: non vedere, non sentire, non parlare.

 

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La parola di oggi (Sabato 1 Maggio) è:

“libro”

 

[…] la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
(Inferno V, 137)

 

È un libro, nel senso proprio e concreto del termine, l’oggetto che Dante immagina al centro della vicenda di Paolo e Francesca: un libro che, come Galeotto nel celebre romanzo arturiano di Lancillotto e Ginevra, diventa intermediario e testimone silenzioso della passione segreta fra i due cognati. Ma i versi del canto V dell’Inferno sono popolati di molti altri libri, che trapelano indirettamente, richiamati dalle dotte citazioni di Francesca o evocati attraverso i loro protagonisti senza tempo (Didone, Elena, Achille, Tristano): “le donne antiche e ’ cavalieri” (v. 71) che, come i due amanti di Rimini, hanno dimenticato la ragione per abbandonarsi all’istinto e qui scontano la loro colpa travolti dall’eterna bufera.

Altrove libro acquista significati figurati, non diversamente da volume (es. Paradiso XXXIII, 86) o quaderno (es. Paradiso XVII, 37). Con riferimento a una lunga tradizione, il termine può indicare metaforicamente la mente umana in cui si “scrivono” i ricordi, come nel proemio della Vita Nuova: “In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere…” (I, 1).

(Accademia della Crusca – B.F.)

 Questa è una parola che apre l’infinito, infatti infinite sono le storie, le sensazioni, le riflessioni che i libri operano in noi e hanno operato nella storia. Libri che da millenni suscitano emozioni, libri appena comprati, libri letti e riletti, libri dimenticati, libri amati.

“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro” così ci invitava alla lettura Umberto Eco, e poi ricordiamoci quello che ci dice la foto…

 

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La parola di oggi (Sabato 24 aprile) è:

“berze”


Ahi come facean lor levar le berze

a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
(Inferno XVIII, 37)

 Riferito ai diavoli che fanno correre i dannati a frustate; “levar le berze” equivale ad ‘alzare i tacchi’, dove berze è variante di verze ‘cavoli’ con un valore metaforico ancora vivo in locuzioni dialettali come il milanese “portà foeura i verz d’on sit” ‘andarsene da un luogo’ e il comasco “toeu su la sverza” ‘darsela a gambe’.(Accademia della Crusca – A.No.)

     Sandro Botticelli in “malebolge”

 Qui siamo alla prima delle 10 bolge dell’VIII cerchio, nella quale incontriamo i fraudolenti contro chi non si fida e in particolare i ruffiani e i seduttori che corrono in cerchio frustati dai diavoli. In questa bolgia incontriamo Venedico Caccianemico che al di là di questo nome che sembra inventato, in realtà è tra i maggiori esponenti della fazione guelfa di Bologna. Dante ci narra (anche se non abbiamo un riscontro verificato dagli storici) ll mercimonio di sua sorella Ghisolabella (in fatto di nomi bisogna ammettere che si trattava di una famiglia stravagante) condotta “a far la voglia del marchese”. Il Marchese è probabilmente il Marchese di Ferrara dal quale Venedico cercava di ottenere favori. Tanto per cambiare qui assistiamo ad un’altra invettiva di Dante, questa volta contro i Bolognesi ; secondo Dante ci sarebbero più bolognesi in quella Bolgia che in tutto il mondo dei vivi. E si che Bologna nel 1303 aveva offerto asilo ai guelfi bianchi espulsi da Firenze. Però nel 130 6 vinse anche lì la fazione dei guelfi più intransigenti da qui …l’invettiva.

 

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La parola di oggi (Sabato 17 aprile) è:

“cortesia”

 

“Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano”
Inferno XXXIII, 150

Frate Alberigo, traditore e uccisore dei parenti, rivolge a Dante la preghiera di aprirgli gli occhi velati dalle lacrime congelate. Ma Dante rifiuta commentando: “ecortesia fu lui esser villano” (cioè ‘fu atto di cortesia essere villano’ con tale spregevole essere). Cortesia, parola-chiave della civiltà medievale, ha qui un significato accostabile al nostro: ‘gentilezza di modi’, ‘urbanità’, ‘garbo’.
(Accademia della Crusca – R.C.)

Cortesia, ecco una parola che per commentarla non basterebbe un libro intero ed infatti sono davvero tanti i testi che si occupano di lei che, come ci dice il commentatore dell’Accademia Crusca, è parola –chiave della civiltà e della poesia (aggiungo io) medioevale. Questo verso di Dante però ci sorprende, (o almeno sorprende me); davanti ad una persona come frate Alberigo, cortesia è non mantenere la promessa che pure Dante aveva fatto di togliergli le lacrime congelate dagli occhi; Dante in sostanza ci dice che essere villano con lui dunque è moralmente giusto, addirittura doveroso. Dante del resto, su questo non ci sono dubbi, non è un buonista e ce lo ricordano le sue continue invettive; ne abbiamo già incontrate tante, contro Pisa, contro Firenze, contro i Papi simoniaci, “contro i cristiani superbi con la mente ottenebrata”. In questo canto, proprio nei versi finali, se la prende con i Genovesi

Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

Io invece che sono buonista non recito questi versi neppure ora che ho visto in Tv Giovanni Toti, il Presidente della Liguria. Del resto non sarebbe giusto, lui è nato in Versilia.

Non metto quindi una sua foto ad illustrare il post ma scelgo un altro noto illustratore della Commedia ovvero Jan Van der Straet (detto Giovanni Stradano) pittore fiammingo di fine ‘500 attivo soprattutto a   Firenze.

 

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La parola di oggi (Sabato 10 aprile) è:

“speranza”

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
(Inferno III, 9)
 
Sono gli ultimi tre versi di un’iscrizione, verosimilmente in caratteri cubitali, vergata sulla sommità della porta che immette nell’Inferno. Svincolata dal contesto originario, l’espressione “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (con minime varianti) ricorrergamente nell’italiano contemporaneo per indicare situazioni estreme di difficoltà o di pericolo.
(Accademia della Crusca – R.C.)
Speranza è una parola che amo; so che spesso è una parola che si mischia col sogno (“Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è arreso – ha scritto Nelson Mandela) , ma so anche, come ci ricorda Sant’Agostino, che “la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”. Non ci sarebbe umanità senza l’esistenza della speranza che ci dice che, prima o poi, è possibile cambiare le cose. Ce lo dimostra anche il mito del vaso di Pandora, la prima donna mortale secondo la mitologia greca. Riassumo: Pandora aveva con sé un vaso datogli da Zeus, ma che doveva essere sempre chiuso, un giorno però spinta dalla curiosità, aprì il vaso liberando così tutti i mali del mondo, che erano stati rinchiusi lì dentro, vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e il vizio. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Dopo l’apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale simile ad un deserto, finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza, ed il mondo riprese a vivere.
L’immagine in alto:” Rappresentazione di Pandora ed il suo vaso dipinta da Giulio Romano nel 1520 durante il suo soggiorno mantovano”
 
 

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La parola di oggi (Sabato 3 aprile) è:

“antomata”

Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
(Purgatorio X, 128)

Dal greco automata, che (forse) Dante aveva ripreso dalle traduzioni latine dei trattati scientifici di Aristotele per indicare i vermi che si riproducono come da soli, alla cieca, nel terreno. Un ben singolare antenato del moderno automa.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Certo che Dante in termini di invettive non è secondo a nessuno, qui assistiamo a quella contro “i superbi cristiani con la mente ottenebrata” ai quali si rivolge dicendo, “perché mai il vostro animo “in alto galla” (insuperbisce)? in realtà noi uomini siamo simili a insetti mal formati, proprio come un verme che non si è ancora sviluppato”. “Nostro compito – aveva detto nei versi precedenti – è diventare farfalla che vola verso la giustizia divina, la superbia invece vi mantiene vermi”.

L’insistenza sulla pericolosità della superbia è testimoniata dalla durezza della sua punizione in Purgatorio, dove i condannati camminano curvi sotto il peso di enormi massi da rotolare, mentre recitano il Padre Nostro (Visto che si ergevano al di sopra di tutti gli altri, ora son talmente curvi da non vedere chi passa accanto a loro) si spiega col fatto che proprio la superbia era considerato il più grave dei vizi capitali perché era stata all’origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo. La superbia nel mondo dell’arte spesso ci viene rappresentata col simbolo del pavone o dello specchio.

Così la rappresenta Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1611

“Donna bella et altera, vestita nobilmente di rosso, coronata d’oro, di gemme in gran copia, nella destra mano tiene un pavone et nel-la sinistra un specchio, nel quale miri et contempli sé stessa. “

La superbia è stata protagonista di innumerevoli personaggi letterari, in prima battuta mi vengono in mente Raskolnikov di Delitto e catigo e il capitano Acahab di Moby Dick di Herman Melville. Ma devo confessare che il capitano Achab mi ha sempre affascinato.

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La parola di oggi (Sabato 27 marzo) è:

“rubino”

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive […]
(Paradiso XXX, 66)

Pietra preziosa spesso utilizzata nella poesia del Duecento e del Trecento per riferirsi alle qualità della donna amata, nella Commedia è scelta per la sua calda luminosità per indicare gli angeli, rappresentati nella visione dantesca dell’Empireo come faville luminose e più avanti paragonati a topazi.

(Accademia della Crusca – C.Mu.)

Non appena ho letto il verso “quasi rubin che oro circunscrive” mi è subito venuta alla mente questa poesia, da anni sepolta nel cuore e mai più ricordata, che s’intitola appunto “ il rubino “ed è del poeta mistico persiano nato agli inizi del 1200 Gialal al-Din Rumi. Posto qui alcuni versi

“Un’amata chiese all’amante:
“Chi ami di più, te stesso o me?”.
“Dalla testa ai piedi sono diventato te.
Di me non rimane che il nome.
La volontà l’hai tu. Tu sola esisti.
Io sono scomparso come una goccia d’aceto
in un oceano di miele”.
Una pietra diventata rubino
è colma delle qualità del sole. “

ma la ragione per cui ho sempre amato, ma amo ancora di più oggi questo poeta, e perchè in un momento in cui una certo tipo di propaganda tende a presentarci l’islam esclusivamente come religione fanatica,i versi incisi come epitaffio sul suo mausoleo, sono lì a dimostrarci che c’è un islam che tollera ed accoglie:

“Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni.
Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni!
La nostra casa non è un luogo di disperazione,
e anche se hai tradito cento volte una promessa… vieni. “
Si vieni, l’amore accoglie. 

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La parola di oggi (Sabato 20 marzo) è:

“il Bel Paese”

“Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti […]”
(Inferno XXXIII, 80)

 

Paese è un’espressione che spesso usiamo per indicare l’Italia, talvolta anche con ironia, quando la associamo alla notizia di qualcosa di brutto (lo scempio del paesaggio e simili). Ci viene da Dante, che l’ha usata anche lui insieme con parole di sdegno. Nel canto XXXIII dell’Inferno, parlando dei grandi traditori e rievocando la terribile fine che l’arcivescovo di Pisa inflisse al conte Ugolino della Gherardesca – imprigionato in una torre e lasciato morire di fame insieme con un figlio e un nipote – il poeta si scaglia contro la città, che ritiene corresponsabile di questo orrore, e si augura che le isole Capraia e Gorgona, che sono davanti alla foce dell’Arno, si spostino verso lo sbocco del fiume e provochino un’alluvione che uccida tutta la popolazione pisana. E così inveisce contro di essa (vv.79-80): “Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese dove ‘l sì sona”, cioè dove si usa la particella affermativa sì, un particolare che Dante aveva già notato nel suo trattato De vulgari eloquentia.

L’espressione dantesca ha avuto, poi, altri rinforzi. È stata ripresa da Petrarca in un sonetto (CXLVI) nel quale l’Italia è descritta come “il bel paese / che Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe” (dove parte vuol dire “divide in due versanti”). Alla fine dell’Ottocento, il naturalista e fervente patriota comasco Antonio Stoppani dette il nome Il Bel Paese a un suo libro (1876), che descriveva l’Italia ed ebbe grandissima fortuna nel clima postrisorgimentale. Sull’onda di questo rilancio, un produttore di formaggi lombardi dette furbamente (nel 1906) lo stesso nome a un tipico formaggio molle, che sull’etichetta delle confezioni recava il profilo geografico d’Italia e il ritratto di Stoppani. Anche il gioco commerciale era fatto!

(Accademia della Crusca – F.S.)

Ci sarebbe molto da scrivere e in tutte le salse passando dalla bellezza più incantevole, alla furbizia più deteriore, dai quadri del Botticelli ai rifiuti abbandonati nella via, del “sonante si” che ha lasciato il posto ad ok, da chi insulta su facebook a voi che invece siete qui a leggere le parole di Dante, ma ha già scritto molto il commentatore , quindi vi lascio con questi bei versi di Johann Wolfgang Goethe dedicati al nostro “Bel Paese”

“Conosci la terra dei limoni in fiore,
ove le arance d’oro splendono tra le foglie scure,
dal cielo azzurro spira un mite vento,
quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso,
la conosci forse?”

 

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La parola di oggi (Sabato 13 marzo) è:

“innanellare”

Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma.
(Purgatorio, V, 135)

 

Si tratta di uno dei tanti verbi parasintetici creati da Dante, meno originale di altri perché normalmente formato a partire da un nome, ma caratterizzato (almeno secondo il testo vulgato) dal raddoppiamento della n del prefisso. Il significato non è uno di quelli che ha oggi il verbo inanellare (‘foggiare ad anello’ o figuratamente, ‘dire o collezionare più cose, una dopo l’altra, come gli anelli di una catena’), ma quello di ‘mettere l’anello, cioè la fede nuziale, a una donna sposandola’. È attestato solo in questo verso (messo in bocca a Pia de’ Tolomei, fatta uccidere dal marito), al participio passato femminile (dipendente dal successivo ausiliare avea), nella forma aferetica, accanto al verbo disposare e al nome gemma ‘pietra preziosa’ e quindi, per metonima, ‘anello’. (accademia dlela Crusca -P.D’A.)
Il commentatore della Crusca non lo mette ma io devo aggiungere un verso, quello che precede questa terzina, quando la donna, con una gentilezza che ancora non avevamo incontrato, dice a Dante: quando sarai ritornato nel mondo e ti sarai riposato, “ricordati di me che son la Pia”. Verso diventato tra i più famosi della Commedia e che a noi lombardi piace particolarmente perché ci mostra che persino Dante ha messo l’articolo determinativo davanti al nome femminile, un po’ come il “ma anche” che incontriamo nei Promessi Sposi. Poi bastano tre versi per farci intuire tutta la sua storia, storia che ancora oggi purtroppo è attuale, perché il femminicidio non è certamente un crimine superato, e il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne violenza è lì a ricordarcelo.. Per quale motivo sia avvenuto questo delitto Dante non ce lo dice, e anche se molti pensano alla gelosia, gli studiosi non ne sono venuti a capo in modo certo. La figura di Pia de’ Tolomei ha avuto molta fortuna nella storia della cultura, varie trame musicali, tra le quali un’opera lirica di Donizetti e una canzone di Gianna Nannini (non caso anche lei senese), un paio di film, e molti libri tra i quali segnalo “Pia de’ Tolomei romanzo di Carolina Invenizio del 1879 e “dialogo nella palude” opera scenica di Marguerite Yourcenar del 1930.

 

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La parola di oggi (Sabato 6 marzo) è:

“pieta”

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’ era durata
la notte ch’ i’ passai con tanta pieta.
(Inferno I, 21)

 

La forma, modellata sul nominativo latino pietas, tende a distinguersi da pietà, pietate, pietade (tratte dall’accusativo pietatem e usate anch’esse da Dante) per significare specificamente ‘tormento’, ‘angoscia’, come nel passo citato, oppure ‘affetto’, ‘devozione’ che i figli provano per i genitori, come nel passo: “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre” (Inferno XXVI, 94-95; parla Ulisse, che poco prima ha menzionato il pius Enea). (Accademia della Crusca – P.D’A:)

Qui siamo all’inizio della Commedia il canto probabilmente più conosciuto, anche molti che non sanno granché dell’opera, la “selva oscura” incontrata “nel mezzo del cammin”, se la ricordano; qui siamo nel momento in cui Dante all’alba vede davanti a lui un colle, e prendendo coraggio, si appresta a salirvi.

Che bella questa metafora che fa del cuore un lago, e quanto vera se solo ci pensiamo un attimo. Da un punto di vista allegorico quel monte rappresenta la felicità umana che si può raggiungere, grazie alle virtù cardinali, ovvero le virtù umane che costituiscono i pilastri di una vita dedicata al bene, che altro però non sono che la trasposizione nel cristianesimo delle virtù enunciate dai filosi antichi e in particolare da Platone. Virtù cardinali; faccio mente locale e cerco di ricordarle, anche se l’esperienza di Catechismo e di fede, è lontana nel tempo, lontanissima nella vita quotidiana. Eppure riemergono eccole: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza.

E intanto più avanti per difendere Dante dalla Lupa apparirà Virgilio; provo un certo rammarico a ricordarlo, perché sulla sua opera l’Eneide avevo cominciato il corso all’Acu  con un successo di iscritti che proprio non avrei immaginato; corso che la pandemia ci ha obbligati a sospendere al quarto incontro. Ma coraggio, tutto passa; usciremo fuori anche da questo incubo e usciremo con Dante “a riveder le stelle”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 27 febbraio) è:

“grasso”

[…] esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
(Paradiso II, 77)

 

La parola ricorre nella Commedia tre volte, due in senso metaforico (aere grasso = denso; fanno grassi = si arricchiscono), una sola in senso proprio, in riferimento agli strati di grasso e magro presenti in un corpo fisico: il paragone è utilizzato, sorprendentemente, per discutere, niente meno, di una dibattuta questione astronomica, un problema che sarà ancora al centro dell’attenzione di Galileo, cioè la causa delle macchie lunari. (Accademia della Crusca – C.M.)

Noi siamo abituati a concepire la poesia come uno strumento per parlare d’amore, di bellezza, di gioia, di dolore, di morte addirittura ma la cosa sorprendente in Dante è come sappia usare la poesia (quella metricamente perfetta fatta di rime ed endecasillabi) per parlare di tutto: teologia, storia, geografia, filosofia e, come in questo caso, di astronomia. La cultura di Dante era di straordinaria ampiezza, non c’era un ramo dello scibile del tempo che non gli appartenesse e tutto sapeva esporre in poesia. Certo poi io, ma tutti credo, preferisco Dante quando parla d’amore. Quasi tutto il canto affronta la questione delle macchie della luna, con Beatrice che confuta le tesi che Dante aveva scritto nel Convivio. Ma anche a rieleggere tutta la dimostrazione, come faccio ora, più di tanto non capisco, del resto Dante mi aveva avvertito proprio all’inizio del canto:

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua che io prendo già mai non si corse;

….ed io sono, lo so, “su piccioletta barca”

 

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La parola di oggi (Sabato 20 febbraio) è:

“bieco”

[…] onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.
(Inferno XXV, 31)

 

Detto dello sguardo vale “minaccioso, malevolo”, ma Dante usa l’aggettivo in senso morale per definire le azioni “scellerate” di Caco, represse da Ercole con violenza. Nel verso “opere biece” il plurale dell’aggettivo si presenta come in altri casi danteschi o di autori antichi, con la palatalizzazione del tema; la forma può alternare con quella di uso odierno (“biechi”, “bieche”). (Accademia della Crusca -A.N.)

Che Ercole non andasse tanto per il sottile si sa, è qui Dante ci ricorda che colpi con la sua mazza Caco, il Centauro che gli aveva rubato quattro buoi e quattro giovenche dalla mandria, con cento bastonate, anche se 90 furono inutili dal momento che, come ci racconta Dante sulla scorta di quanto scrive Ovidio, “non sentì le diece “perché già al decimo colpo era morto. Ma un altro collegamento è scattato in me, ed è con Tex Willer (si lo so a molti può sembrare irriguardoso questo affiancamento, ma in realtà il bello  è proprio vivere i grandi del passato, come accompagnatori del nostro vivere quotidiano). C’è infatti un episodio in cui Tex, come fece Caco che per non far capire la direzione presa trascinò le bestie rubate per la coda, cavalcò all’indietro per qualche miglio..Già che ci sono, voglio ricordare che Tex è pieno di trucchi, presi dalla storia, penso all’episodio in cui alcuni banditi legano paglia incendiata alla coda dei cavalli che lanciano poi nella pianura; i cavalli continuano a galoppare senza fermarsi, terrorizzati dal fuoco che gli brucia la coda e in questo modo incendiano le sterpaglie secche dei prati i e fermano gli inseguitori;  trucco questo, come ci racconta Sallustio, usato  realmente in Spagna da Quinto Sertorio generale romano del primo secolo avanti Cristo ; un altro trucco è quello usato da Laskarina Bouboulina, patriota greca nella lotta per l’indipendenza dai turchi, che nell’isola di Zante, mise centinaia di sagome di legno di uomini armati tra gli alberi dei boschi per far creder che l’isola era così difesa che non poteva essere attaccata. La cosa bella e incredibile è che il trucco funzionò per lei, ma anche nel forte dove Tex con pochi uomini era assediato.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 13 febbraio) è:

“lonza”

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta […]
(Inferno I, 32)

 

Dante nella Commedia indica con questo termine la terza fiera che gli va incontro nella selva oscura, considerata simbolo del vizio della lussuria e identificata dai commentatori di volta in volta con la lince, il ghepardo o il leopardo, come pare più probabile data la pelle coperta di macchie. Anche la lonza che indica il taglio di carne che compriamo oggi dal macellaio o dal salumiere è parola usata da Dante, non nella Commedia, ma in una delle Rime (“ma peggio fia la lonza del castrone”).

(Accadelia della Crusca – P.D’A.)

Devo confessare che quando mi è capitato di comprare la lonza non mi ha mai sfiorato il fatto di pensare a Dante Alghieri; nella mia mente la lonza dantesca è sempre stato un leopardo ed è raro che la velocità di chi mi servisse mi facesse pensare ad un leopardo. Forse sarebbe andato meglio se avesse prevalso il piano allegorico, tutto sommato lussuria e macellaio è pur sempre un paradigma erotico tant’è vero che su questo Alina Reyes ha scritto un libro (intitolato appunto “il macellaio”) dal quale il regista Aurelio Grimaldi ha tratto un film con Alba Parietti.

Ma oggi il commentatore dell’Accademia della Crusca mi ha aperto un mondo, da oggi posso benissimo immaginarmi che a servirmi al supermercato sia Forese Donati e chiedergli, in bello stile, ““se meglio fia la lonza del castrone”. Dai Dante, scusa, si scherza!

 

 

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La parola di oggi (Sabato 6 febbraio) è:

“marra”

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra.
(Inferno XV, 96)

 

Attrezzo da muratore, o anche (come lo nomina Dante) da contadino, la zappa, aggeggio necessario nel ciclo agricolo dell’anno; ma il Poeta lo nomina con un certo disprezzo, come cosa rozza e manuale di cui non intende curarsi, affaccendato in più alti disegni, pur nell’avversa fortuna. (Accademia della Crusca C.M.)

Si ognuno di noi dovrebbe essere, come Dante sostiene di esserlo stato, pronto ai colpi della Fortuna, sapendo che essa, indipendentemente da noi, dai nostri meriti o demeriti, gira come meglio crede. Ma Dante due versi prima aveva detto una cosa in più, “pur che mia coscienza non mi garra”, purché non mi rimorda la coscienza.

La parola “marra” che per Dante è poca cosa, diventa però una parola centrale in una magnifica poesia di Giovanni Pascoli; allora proseguendo nel “miscuglio poetico” che sempre mi piace fare,  e pensando inoltre al corso che all’Acu abbiamo tenuto su  Giovanni Pascoli , abbandono le fiamme dell’Inferno per passare “al mattinal fumare” dei campi dove i contadini sono intenti ad arare, sotto lo sguardo “saputo” del passero che aspetta gioioso la fine del lavoro , per lanciarsi su qualche seme

Arano
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinnio come d’oro
(Myricae 1891)

 

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La parola di oggi (Sabato 30 gennaio) è:

“inmilarsi”

L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla
(Paradiso XXVIII, 93 )

 

Neologismo dantesco formato sul numerale mille, riferito alla moltiplicazione vertiginosa del numero degli angeli, che la mente umana non è in grado di contenere. Il verbo fu ripreso da Boccaccio e, in epoca moderna, da Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Saba e Montale. (Accadenia della Crusca C.G.)

Parafrasando: “Ogni angelo (scintilla) continuava a girare (seguiva) insieme al suo cerchio infuocato (L’incendio suo); e il loro numero era così alto (eran tante) che si moltiplicava (s’inmilla) più che la progressiva duplicazione (più che ’l doppiar) degli scacchi.

Questo è un altro canto che piace molto a chi si interessa di angeologia, e vuole conoscere l’assetto delle schiere degli angeli, e inoltrarsi tra le diverse tesi di Dionigi Aeropagita (l’intellettuale greco convertito al Cristianesimo dalle prediche di San Paolo ad Atene)  e di Gregorio Magno (importante Papa del VI secolo e dottore della Chiesa) circa la loro disposizione in cielo, discussioni che nel periodo di Dante avvenivano, nelle botteghe, nelle vie e tra la gente così comunemente, con ognuno che diceva la propria, come noi oggi discutiamo dell’assetto delle squadre di calcio, ma qui Beatrice dice chiaramente che aveva ragione Dionigi, che si rifece a quanto aveva visto San Paolo durante il suo rapimento in cielo descritta nella seconda epistola ai Corinzi. Ma io non sono per nulla interessato alle gerarchie angeliche, (e neppure all’assetto delle squadre di calcio a dire il vero) ma approfitto della terzina sopra riportata per ricordare a cosa si riferisce quel verso “più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla”

Vuole la leggenda che l’imperatore dell’India per ricompensare l’inventore del gioco degli scacchi che lo aveva fatto uscire dalla noia gli chiedesse di dire cosa volesse in cambio.

L’uomo, con aria dimessa, chiese un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due chicchi per la seconda, quattro chicchi per la terza, e via a raddoppiare fino all’ultima casella. Stupito da tanta modestia, il Principe diede ordine affinché la richiesta del mercante venisse subito esaudita. Gli scribi di corte si apprestarono a fare i conti, ma dopo qualche calcolo la meraviglia si stampò sui loro volti. Il risultato finale, infatti, era uguale alla quantità di grano ottenibile coltivando una superficie più grande della stessa Terra!

Non potendo materialmente esaudire la richiesta dell’esoso mercante e non potendo neppure sottrarsi alla parola data, il Principe diede ordine di giustiziare immediatamente l’inventore degli scacchi. E questo la dice lunga, a mio modo di vedere, sul modo che hanno i potenti per risolvere le situazioni quando hanno torto. 

 

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La parola di oggi (Sabato 23 gennaio) è:

“inforsarsi”

[…] ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa”.
Ond’io: “Sì ho, sì lucida e sì tonda,
he nel suo conio nulla mi s’inforsa”
(Paradiso XXIV, 87)

 

Neologismo dantesco formato sull’avverbio forse, significa ‘essere in dubbio’. Il verbo, usato anche come intransitivo non pronominale, ebbe un certo successo e fu ripreso, tra gli altri, da Petrarca, Boccaccio, Tasso, Alfieri. (Accademia della Crusca C.G.)

Insomma, Dante interrogato da San Pietro circa la qualità della sua fede risponde senza “inforsarsi”, non ha nessun dubbio: “ho nella borsa – risponde – una moneta così lucente (quindi di buona lega) e così rotonda (non consumata ai bordi, quindi integra nel suo peso) che riguardo al suo conio non c’è nulla che possa costituire per me motivo di dubbio.” Alla domanda precedente su cosa fosse per lui la fede Dante riesce a costruire una splendida terzina pur riportando testualmente le parole di San Paolo contenute nella “lettera agli ebrei” (XI,1) e chiosata da San Tommaso nella “Summa theolgica”

“fede è sustanza di cose sperate
E argomento de li non parventi,
questa pare a me sua quiditate”

L’interrogazione di San Pietro va avanti, ma Dante risponde sempre in modo perfetto (potevamo mai “inforsarci”?)

Detto questo su Dante, andiamo avanti sulla parola; visto che la Crusca dice che questo verbo è stato utilizzato anche da altri autori mi sono messo alla ricerca di altri esempi.

Eccone alcuni:

“e col suo operar sì mi convengo, / che parte alcuna di quel non s’inforsa / in me”  (Boccaccio, Ninfale d’Ameto)

“Mi rota si ch’ogni mio stato inforsa” (Francesco Petrarca, Il Canzoniere, sonetto 119)

“Inforsa ogni mio stato”  (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata 4,92)

“Divido il tema: ed anco il dir m’inforsa.” (Vittorio Alfieri, satira nona)

 

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Inizio da questo sabato una rubrica che intitolo:

“Sabato con Dante”.

La rubrica prende spunto da una bellissima iniziativa dell’Accademia della Crusca che pubblica e commenta ogni giorno, dal primo gennaio 2021, una parola di Dante. Ciò come contributo alle iniziative per commemorare i 700 anni della sua morte avvenuta il 14 settembre de 1321. Parola di Dante fresca di giornata, così han chiamato la loro rubrica .

Io partirò ogni settimana (il sabato appunto) da una delle loro parole per poi trarre qualche considerazione personale da condividere con i lettori di questa pagina.

Mi sembra un’occasione davvero importante ma allo stesso tempo semplice e alla portata di tutti, per ricordare, rileggere ma anche semplicemente scoprire la grande eredità linguistica lasciata da Dante.

Cominciamo:

 “trasumanar”

 

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba
(Paradiso, I, 70)

 

Neologismo dantesco per indicare un’esperienza che va oltre l’umano. Dante lo usa per indicare l’avvicinamento a Dio, ma il termine può essere esteso ad ogni condizione che vada al di là dell’esprimibile, dove le parole non bastano più.

Pensateci un attimo com’è davvero bella, originale e al contempo precisa questa parola inventata.

 

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