Data: Martedì 17 Maggio 2022
Ore: 14:15
Canale TV : IRIS (canale 22)
ASFA LTO CHE SCOTTA
( C L A S S E T O U S R I S Q U E S )
F R A N C I A 1960 – Regia: C L A U D E S A U T E T
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Data: Giovedì 12 Maggio 2022
Ore: 15:50
Canale TV : RAI MOVIE (canale 24)
U N A S T R E G A I N P A R A D I S O
( B E L L, B O O K A N D C A N D L E ) – U.S.A. 1958
Regia: R I C H A R D Q U I N E
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Data: Martedì 3 Maggio 2022
Ore: 15:10
Canale TV : IRIS (canale 22)
I L C O M M I S S A R I O P E L I S S I E R
(M A X ET L E S F E R R A I L L E U R S)
Regia: CLAUDE SAUTET – Francia, 1971
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Data: Giovedì 14 Aprile 2022
Ore: 21:30
Canale TV : LA 7D (canale 29)
QUEL CH
E RESTA DEL GIORNO
(T H E R E M A I N S O F T H E D A Y)
G B / U.S.A. 1993 – Regia: J A M E S I V O R Y
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Data: Giovedì 7 Aprile 2022
Ore: 21:10
Canale TV : TV 2000
EST OVEST Amore e libertà (E S T – O U E S T)
Regia: RÉGIS WARGNIER
co-produz. Russia/ Ucraina/ Bulgaria/ Spagna/ Francia, 1999
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Data: Martedì 29 marzo 2022
Ore: 21:20
Canale TV : canale 5 – (505 HD)
I L D I A V O L O V E S T E P R A D A
( T H E D E V I L W E A R S P R A D A )
U.S.A. 2006 – Regia: D A V I D F R A N K E L
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Data: Mercoledì 23 marzo 2022
Ore: 16:45
Canale TV : RETE 4 – (504HD)
I L V I Z I E T T O
( L A C A G E A U X F O L L E S )
FRANCIA – ITALIA, 1978 – Regia: ÉDOUARD MOLINARO
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Data: Domenica 20 marzo 2022
Ore: 17:00
Canale TV : RETE 4 – (504HD)
R A N C H O N O T O R I U S
U.S.A. 1952 – Regia: F R I T Z L A N G
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Data: Giovedì 17 marzo 2022
Ore: 17:20
Canale TV : IRIS – CANALE 22
F A N D A N G O
U.S.A., 1985 – Regia: KEVIN REYNOLDS
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Data: Martedì 15 marzo 2022
Ore: 16:35
Canale TV : RETE 4 – (504HD)
L’ALBERO DEGLI IMPICCATI
(THE HANGING TREE) – U.S.A. 1959 – Regia: DELMER DAVES
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Data: Martedì 8 marzo 2022
Ore: 21:10
Canale TV : RAI MOVIE – (canale 24)
C O M E E R A V A M O (THE WAY WE WERE)
U.S.A., 1973 – Regia: SYDNEY POLLACK
Sapete quanto ci teniamo ad affiancare alle osservazioni riguardanti propriamente la Storia del Cinema, riflessioni pertinenti la Critica Cinematografica. Sottolineando quanto il Critico dovrebbe – un po’ alla maniera dei conoscitori delle arti figurative – individuare subito, con occhio infallibile, autori e film importanti da ciò che non lo è. Ripetiamo: subito, non dopo anni o decenni. Laddove succedesse, è evidente che il discorso si situerebbe su un altro piano, e soprattutto la cosa andrebbe riconosciuta apertamente. L’esempio più trasparente riguarda – in Italia – il caso di Douglas Sirk. Chi, da noi, riconobbe subito l’importanza di Secondo amore o Lo specchio della vita ?
Ora, durante la stagione cinematografica 1973/74, uscirono in Italia film di alto o altissimo livello di cui, tutto sommato, ci si occupò adeguatamente: Lancillotto e Ginevra di Robert Bresson; Amarcord di Federico Fellini; Sugarland Express di Steven Spielberg; Allonsanfàn dei fratelli Taviani… . Film di altissimo livello di cui, colpevolmente, non ci si occupò affatto: La rosa rossa, di Franco Giraldi ! Film molto modesti di cui, colpevolmente, ci si occupò fin troppo: Jesus Christ Superstar, di Norman Jewison; L’esorcista, di William Friedkin; Il viaggio di Vittorio De Sica; La montagna sacra, di Alejandro Jodorowsky… . In mezzo vi furono decine di titoli – soprattutto americani – poco o nulla capiti e scambiati per prodotti commerciali pro-botteghino da liquidare in due righe. C’erano opere di qualità assai elevata (Chi ucciderà Charley Varrick? di Don Siegel; La conversazione di Francis Ford Coppola; Paper Moon di Peter Bogdanovich…), o di medio-buon livello (Il lungo addio di Robert Altman; Città amara di John Huston; L’ultima corvé di Hal Ashby…). Anche il nostro Come eravamo fa parte di questo folto gruppo: ma come, un film con il bello Robert Redford, e Barbra Streisand, la cantante de Il gufo e la gattina ? E invece il film con il “biondo era, e bello”, e la canzonettista da 145 milioni di dischi venduti, è una delle riflessioni più ricche sulla recente storia americana!
Fra chi riconobbe subito (subito, nel 1974!) il valore di Come eravamo, vi fu il nostro amato Tullio Kezich (allora 46enne). Eccolo in integrale: « Non eravamo poi tanto diversi da questi ragazzi che oggi facciamo finta di non comprendere: ce lo dice il regista Sydney Pollack, un quarantenne che parla a nome degli ultracinquantenni. Tra un flash-back e l’altro, la vicenda di Come eravamo abbraccia circa tre lustri: dal ’37 agli inizi degli anni Cinquanta, cioè dalla vigilia della seconda guerra mondiale alle mobilitazioni popolari contro la bomba atomica. Sulle vette degli incassi americani con oltre 11 milioni di dollari, il film è un tipico prodotto dell’operazione nostalgia: favoleggia agli spettatori, con toni delicati alla Scott Fitzgerald, di un’epoca dove tutto sarebbe stato meno grossolano che al giorno d’oggi (ma Scott diceva le stesse cose degli anni Venti, scrivendone nel cuore del decennio successivo). Robert Redford, bello e dannato, è uno scrittore dottissimo, troppo arrendevole ai richiami della dolce vita; Barbra Streisand, bruttina e superimpegnata, è una comunista ebrea che ha fatto di Roosevelt il suo dio e crede di poter cambiare il mondo. Come eravamo è la cronaca del loro incontro e dei loro scontri, dalle scaramucce del college al matrimonio dopo la guerra, per finire in quel cimitero degli elefanti (intellettuali) che una certa letteratura ha collocato a Hollywood. Si tratta, però, di una Hollywood vista per la prima volta senza ipocrisie negli anni della caccia alle streghe. Qui dentro c’è materia per due film, di cui il primo (quello che arriva alla morte di Roosevelt) sarà certo accolto più cordialmente perché tocca temi che non riguardano solo un’élite. Però tutto lo spettacolo, animato da due interpreti stupendi, ha il fascino avvincente delle cose riuscite; e la figuretta di Barbra – che continua a strillare i suoi slogan democratici nel finale amarognolo – è un atto di fede nella continuità dell’illusione. E (perché no?) un invito a non mollare.»
Il maggior esegeta italiano di Sydney Pollack, è stato l’americanista Franco La Polla. Chi ci tenesse può ancora procurarsi in Rete la sua preziosa monografia nella collana “Il Castoro Cinema”, del 1978. Vi troverà anche illuminanti indicazioni bibliografiche (non per l’aggiornamento è naturale, ma per il nostro discorso).
Una considerazione conclusiva. Qualcuno potrebbe obiettare: sì, ma anche voi celebrate adesso – a quasi 14 anni dalla scomparsa – Sydney Pollack; quanto a Come eravamo, arrivò in Italia ben 48 anni fa! Già, ma noi lo riconosciamo apertamente, facciamo i nomi giusti, e poi – soprattutto – uno di noi due, nel suo piccolo, può vantare titoli di merito non proprio da buttar via. Insieme con il critico Gian Carlo Castelli, pubblicò in tempi non sospetti, uno studio dettagliato – rimasto abbastanza raro… – sul film forse più bello e meno considerato di Pollack: vale a dire Ardenne 44: un inferno (Castle Keep, 1969) in rapporto al romanzo d’origine di William Eastlake. E, sempre con il compianto professore bustocco, si diede non poco da fare durante qualche anno per diffondere la conoscenza (mediante proiezioni e ricche dispense di studio) di Questa ragazza è di tutti, 1966, e – soprattutto – di Yakuza, 1975, ennesimo capolavoro pollackiano con Robert Mitchum su sceneggiatura di Paul Schrader !
Sydney Pollack, o uno specchio grande come gli Stati Uniti d’America.
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Data: Lunedì 7 marzo 2022
Ore: 21:00
Canale TV : IRIS – (canale 22)
A HISTORY OF VIOLENCE
U.S.A. / CND-2005 – Regia: DAVID CRONENBERG
[ Tutto il cinema di David Cronenberg
– imprescindibile dal punto di vista della cultura cinematografica –
non è adatto ai minori. ]
Guardate bene la fotografia. È l’interno dello “Stall’s Diner”, cioè di un luogo di ristorazione tipicamente americano – qui siamo in una città dell’Indiana, nella regione del Midwest – gestito da Tom Stall (Viggo Mortensen, in tranquillizzante camicia marrone a quadri). Ci sono le bottigliette di ketchup, i bollitori con il caffè caldo, la pubblicità di dolci e gelati. C’è qualcosa di più normale, di più ‘americano’ ? Sembra una stampa di Norman Rockwell, l’autore delle copertine del “Saturday Evening Post”. Osservate ora l’uomo seduto al banco. Camicia, cravatta, e occhiali scuri: sorride (un sorriso può avere molti significati…), sorride, ma la sua presenza contribuisce essa sola a deviare l’atmosfera da Rockwell a Edward Hopper, anch’egli pittore dell’american way of life, di cui – viceversa – ha sempre sottolineato la solitudine venata da aspetti inquietanti.
“Inquietante”, ecco. Quando abbiamo scelto i titoli da segnalare, Maurizio ha affermato: «… c’è A History of Violence, film inquietante ma molto valido…». Sintesi tanto semplice nella formulazione quanto indovinata nel caratterizzare con un solo aggettivo il film medesimo. Sì, inquietante. A History of Violence è l’esatto opposto (180°, un angolo piatto…) dell’hitchcockiano Delitto perfetto, di cui si è appena parlato. Il titolo, come al solito, ci dovrebbe mettere subito in allarme: “una storia di violenza”, va bene, ma se lo completassimo con il verbo to have avremmo to have a history of violence, che significa avere (alle spalle) un passato violento. C’è dunque qualcuno dal passato discutibile nel film ? Vedi come è la vita: si tratta proprio del gestore del diner con la tranquillizzante camicia a quadri sceso da una copertina di Norman Rockwell. È lui, celebrato dalla comunità come una sorta di eroe per aver sventato una rapina nel suo diner, a far scattare il segnale d’allarme: quale è davvero il passato di Tom Stall ?
La domanda se la pongono per primi la moglie Edie e il figlio Jack (ma in meno di un secondo essa si trasferisce allo spettatore): che cosa succede quando una moglie e un figlio i quali credevano di far parte di una famiglia ‘perfetta’ (della perfetta famiglia americana), vengono assaliti dal dubbio che il rispettivo marito e padre tiene forse nascosto qualcosa di poco edificante intorno alla sua vita precedente il matrimonio ? E ciò che ha detto, ciò che dice, è una menzogna, oppure vuole davvero proteggere la famiglia, oppure… ? Si può amare (ancora) una persona la cui history sconcerta, una persona che forse non è mai esistita, che forse non esiste nella realtà ? Della trama di questo splendido film, nulla si deve rivelare: segnaleremo però che a un certo punto – a proposito di legami familiari – salterà fuori anche il fratello di Tom Stall (ma si chiama davvero così ?).
David Cronenberg – diciamolo chiaramente: è un regista difficile, complesso – non ha mai esitato a filmare la violenza, ma se la mette in scena non è per estetizzarla, per spettacolarizzarla, come in Sam Peckinpah, o in Sergio Leone sia pure in misura minore. È per rifletterci sopra. Anche dietro la famiglia ideale dell’inizio la violenza si fa strada. Cronenberg si e ci chiede: ma da dove essa arriva ?
La ricchezza di A History of Violence è molto estesa in temi, toni, sfumature. Come va letto il ‘quieto’ finale ? Indubbiamente il film non tralascia anche una punta polemica (forse qualcosa più di una punta…) nei confronti di un Paese che storicamente e sociologicamente ha avuto e ha molto a che fare con la violenza: siamo dalle parti del Martin Scorsese di Gangs of New York, qui superato tuttavia con un balzo nettissimo.
David Cronenberg (canadese di Toronto, 79 anni martedì prossimo 15 marzo), ha creato un universo a più dimensioni, da cui le domande intorno ai limiti della condizione umana – sia essa fisica, morale o esistenziale – sgorgano senza sosta. Un cinema, il suo, che mostra volentieri il mondo visto con lenti deformanti, e per questo degno del qualificativo di “moderno”. Molto amato dalle ultime generazioni di critici. Mauro Gervasini, per esempio, ha portato alle stelle A History of Violence: Tom si illude di costruire intorno a sé il mondo perfetto, impermeabile a qualunque contaminazione dell’altro (i banditi, i gangster, la minaccia che viene da fuori) e Cronenberg fa quello che ha sempre fatto. Distrugge da dentro.
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Data: Mercoledì 2 marzo 2022
Ore: 16:25
Canale TV : RETE 4 (504 HD)
IL DELITTO PERFETTO
(DIAL M FOR MURDER)
U.S.A., 1954 Regia: ALFRED HITCHCOCK
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Data: Lunedì 28 Febbraio 2022
Ore: 21:00
Canale TV : IRIS (canale 22)
C’ERA UNA VOLTA A NEW YORK
(T H E I M M I G R A N T) USA – 2013 – Regia: JAMES GRAY
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Data: Mercoledì 23 Febbraio 2022
Ore: 21:00
Canale TV : IRIS (canale 22)
SHAKESPEARE IN LOVE
GB / U.S.A., 1998 – Regia: J O H N M A D D E N
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Data: Domenica 20 Febbraio 2022
Ore: 21:20
Canale TV : RAI STORIA (canale 54)
I L P O S T O
ITALIA, 1961 – Regia: ERMANNO OLMI
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Data: Domenica 13 Febbraio 2022
Ore: 18:00
Canale TV : RAI MOVIE (canale 24)
S A N G U E S U L L A L U N A (BLOOD ON THE MOON)
U.S.A., 1948 – Regia: R O B E R T W I S E
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Data: Martedì 8 Febbraio 2022
Ore: 21:10
Canale TV : RAI MOVIE (canale 24)
UN TRANQUILLO WEEKEND DI PAURA (DELIVERANCE)
U.S.A, 1972 – Regia: JOHN BOORMAN
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Data: Mercoledì 2 Febbraio 2022
Ore: 16:50
Canale TV : RETE 4 (canale 4 – 504 HD)
LE TENTAZIONI DEL SIGNOR SMITH (THIS HAPPY FEELING)
U.S.A., 1958 – Regia: BLAKE EDWARDS
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Giovedì 27 Gennaio 2022 Ore: 22:55 Canale TV : RAIMOVIE (canale 24) In occasione della |
M R. K L E I N
FRANCIA, 1976 – Regia: JOSEPH LOSEY
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Data: Mercoledì 26 Gennaio 2022
Ore: 16:45
Canale TV : RETE 4 (canale 4 – 504 HD
COME LE FOGLIE AL VENTO( WRITTEN ON THE WIND)
U.S.A., 1956 – Regia: DOUGLAS SIRK
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Data: Lunedì 24 Gennaio 2022
Ore: 15:20
Canale TV : IRIS (canale 22)
L’ ASSEDIO DI FUOCO ( R I D I N G S H O T G U N )
U.S.A. – 1954 Regia: ANDRE DE TOTH
Nel 1954 la Warner Bros. mandò sugli schermi 20 film. Anche soltanto i titoli, senza i nomi dei registi, degli interpreti e la specificazione del genere, bastano a farci sognare e tornare per un attimo a quella felice epoca d’oro:
L’invasore bianco, Lo sceriffo senza pistola, Il mostro della via Morgue, Duffy of San Quentin, Il delitto perfetto (sì, proprio il capolavoro hitchockiano!), Il trono nero, Un pizzico di fortuna, Il circo delle meraviglie, Riccardo Cuor di Leone, Prigionieri del cielo, Assalto allaTerra (sì, proprio uno dei grandi capolavori della fantascienza!), Duello nella giungla, Rullo di tamburi, Mandato di cattura, È nata una stella, La belva, Il calice d’argento. Siamo a quota 17. I tre che mancano sono: La città è spenta, Cacciatori di frontiera e L’assedio di fuoco: tutti e tre diretti da Andre De Toth (1912-2002), chiare origini ungheresi (5 film in patria – a Hollywood Paprika… – prima di partire per gli Stati Uniti dove Tóth Endre diventerà il cittadino americano Andre De Toth); per una manciata di anni marito felice della fragile, indimenticabile Veronica Lake (1922-1973); attivo a fine carriera anche in Italia, negli anni della “Hollywood sul Tevere ” (Morgan il pirata, I Mongoli, Oro per i Cesari, tra il 1960 e il 1962). Andre De Toth, il terzo grande guercio di Hollywood, dopo John Ford e Raoul Walsh (Nicholas Ray non era guercio, su Fritz Lang la discussione è aperta…).
Già ai suoi tempi, gli spettatori andavano (in tanti) a vedere i suoi film, di cui ricordavano i titoli: non conoscevano però il suo nome. Occorre – al solito – guardare ai cinefili parigini per afferrarne l’importanza e la grandezza: amatissimo da Bertrand Tavernier e Jean-Pierre Melville. Più tardi anche Martin Scorsese dichiarerà di ammirare De Toth, anunderrated hero, un eroe misconosciuto. L’assedio di fuoco è uno dei numerosi western che Randolph Scott girò con De Toth, risultando di incredibile efficacia – con quel suo viso quasi di marmo – nel dar vita a uomini di poche parole ma di solida moralità. Nel film, egli è un uomo il quale – per dimostrare di non essere il fuorilegge che tutti credono sia – deve tutto solo lottare contro i veri cattivi.
Il titolo originale del film – Riding Shotgun – si riferisce al mestiere esercitato dal protagonista Larry Delong, il quale è l’uomo di scorta che sulle diligenze sedeva accanto al conducente con funzioni di difesa e protezione in caso di assalto. ‘Riding shotgun’ perché era armato di
fucile (shotgun), definito “da equitazione” nel pittoresco linguaggio della frontiera per motivi comprensibili. Sta di fatto che Larry cade in un’imboscata da parte di una banda di fuorilegge associati a Dan Marady, l’uomo che ha ucciso sua sorella e suo nipote.
Quandotorna a Deep Water, Larry scopre che quasi tutti gli abitanti credono che sia stato coinvolto in una rapina alla diligenza di cui era il riding shotgun. La rapina ha provocato due morti. Nessuno, esclusa la sua fidanzata e Doc Winkler, ne ascolta l’avvertimento, e cioè che gli uomini di Marady stanno arrivando in paese per compiere davvero una rapina. Larry è costretto a rifugiarsi in una cantina, e a stento viene sottratto al linciaggio dal deputy sheriff Tub Murphy. Ecco intanto giungere la banda di Marady: ma – secondo le convenzioni del cinema di allora – il lieto fine è d’obbligo. Però Larry Delong se l’è vista brutta… .
L’assedio di fuoco è un piccolo, delizioso, semplice, bel western di serie B: vediamolo, per nostro piacere e per celebrare degnamente i 110 anni dalla nascita e i 20 dalla morte di Andre De Toth, «underrated hero».
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Data: Giovedì 20 Gennaio 2022
Ore: 15:15
Canale TV : IRIS (canale 22)
LA GATTA SUL TETTO CHE SCOTTA
(CAT ON A HOT TIN ROOF – U.S.A. 1958) Regia: RICHARD BROOKS
To be like a cat on hot bricks”; “To be like a cat on a hot tin roof” (amer.): = stare sui carboni ardenti.
“The Cat” si riferisce a Maggie “la gatta” [cat può tradurre anche il femminile, she-cat o female cat], moglie sola e sessualmente frustrata dell’alcolizzato ex-giocatore di football Brick (Paul Newman). Maggie (Elizabeth Taylor) non sa per quanto tempo l’unione potrà andare avanti. Si paragona a un gatto [a una gatta…] la quale cerca di rimanere su un tetto di lamiera che scotta, ma ha paura di saltare, perché non sa dove potrà atterrare.
Un titolo celeberrimo, che ci riporta a un’epoca del cinema americano (suppergiù gli anni 1950-1965), quella dei melodrammi ‘fiammeggianti’ fatti apposta per mettere in rilievo le protagoniste (belle e brave) e i protagonisti (belli e bravi) dello star system hollywoodiano; gli ambienti e gli arredi delle case dei ricchi; tenori di vita, abiti e comportamenti che la gente comune poteva solo immaginare. Il cinema come “officina dei sogni”, appunto. Non è ovviamente questa la sede anche solo per iniziare un discorso di tipo sociologico su quel cinema: qui il nostro discorso si limita alla constatazione – doverosa – che molti di quei film non solo erano cinematograficamente validi ma hanno in qualche modo segnato la Storia del Cinema (basti pensare a Douglas Sirk, a John M. Stahl, a William Wyler…).
Una fetta non piccola del loro successo, dipendeva dai soggetti (e dalle successive sceneggiature). Un nome con cui fare i conti è certamente quello del drammaturgo Tennessee Williams (1911-1983), che da solo fornì al cinema Lo zoo di vetro, Un tram chiamato desiderio, Estate e fumo, La primavera romana della signora Stone, La rosa tatuata, Improvvisamente l’estate scorsa, La dolce ala della giovinezza, La notte dell’iguana. E, naturalmente, La gatta sul tetto che scotta. Opere che trionfarono sui palcoscenici americani ed europei, vinsero premi, imposero il suo nome come il più “forte” del periodo postbellico. Loro tema fondamentale è la «rappresentazione di un mondo corrotto e corruttore, dominato dalla violenza, dall’interesse, da varie forme di prepotenza che finiscono per schiacciare gli innocenti, o più semplicemente i diversi». Pubblico e critica rimasero colpiti anche dall’ambientazione geografica di molti lavori di Williams, originario del Mississippi e dunque a suo agio nel descrivere il ‘profondo Sud’ degli Stati Uniti, ancora legato al ‘clima’ (in tutti i sensi), ai valori (o disvalori) pre-Guerra di Secessione.
La gatta sul tetto che scotta, con dialoghi (per allora) morbosi, sessuofobie, frustrazioni, racconta di una famiglia dove c’è un padre che si scopre malato terminale, un figlio maggiore avido (Jack Carson), quello minore (Paul Newman) depresso, bevitore, fragile ma anche debole e irresoluto. Le mogli (comunque in posizione subordinata…) fanno quello – più o meno ‘nobile’ – che possono per difendere i mariti.
Un evergreen, avvisa “FilmTV”. Sì, e noi ne consigliamo la visione. Il problema è però questo: La gatta sul tetto che scotta ha resistito all’usura del tempo? Quanto è accettabile oggi la pruderie del tempo nel censurare la (chiara) omosessualità del personaggio di Paul Newman? Ormai anche in Wikipedia, cui rimandiamo, si legge: per non incappare nelle maglie del Codice Hays, fu soppressa la tematica originaria del testo teatrale: Brick, un atleta, non riesce a desiderare la bellissima e focosa moglie perché non si è mai ripreso dalla morte (per suicidio) di un compagno di squadra, Skipper, di cui era innamorato, senza però sapere o accettare di essere omosessuale. E annega nell’alcool qualunque barlume di consapevolezza rischi di venire a galla.
L’interpretazione è di maniera: basti pensare a La dolce ala della giovinezza (1962, sempre Brooks, sempre Williams; ancora un Newman, però decisamente migliore; soprattutto una magnifica Geraldine Page che Elizabeth Taylor non riesce nemmeno a vedere…). Taylor era più indicata per i film in costume: “la gatta” era una parte per Lana Turner. Anche Jack Carson è qui al di sotto della sua performance ne Il trapezio della vita, di Douglas Sirk. Quanto al Brick di Paul Newman, ci piace ripetere ciò che a suo tempo disse Louis Marcorelles, il quale recensì il film per i Cahiers du Cinéma: «un frère de ces jeunes Américains qui n’ont jamais fini de grandir» (un fratello di quei giovani americani che non finiscono mai di crescere).
Richard Brooks (1912-1992) è stato un buon regista. Il suo problema era la “continuità di rendimento”. Prima de La gatta ci diede due ottimi film, Il seme della violenza e L’ultima caccia; così come fece subito dopo (Il figlio di Giuda, il citato La dolce ala della giovinezza e il bellissimo Lord Jim, tratto da Conrad). Probabilmente a fine anni Cinquanta attraversò un periodo accidentato, lanciandosi ne I fratelli Karamazov (estraneo alle sue corde), e nel poco felice Qualcosa che vale. Il film comunque è qui, proviamo a vederlo: oleografico oppure un classico riuscito?
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Data: Domenica 16 Gennaio 2022
Ore: 16:50
Canale TV : RAI MOVIE (canale 24)
MA PAPÀ TI MANDA SOLA ? (WHAT’S UP, DOC ?)
U.S.A. – 1972 – Regia: PETER BOGDANOVICH
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Data: Sabato 15 Gennaio 2022
Ore: 17:00
Canale TV : RAI STORIA (canale 54)
H U G O C A B R E T
(U.S.A. 2011) Regia: MARTIN SCORSESE
Il primo, il primissimo fondamento che motiva questa segnalazione è il più semplice, il più condivisibile, il più vicino alla ragion d’essere di una segnalazione: dare di gomito a un amico quando gli si voglia dire (con tutti i migliori sentimenti, quasi con affetto…): ecco, non perdere questo film perché è bello, e soddisferà al massimo grado quel che ormai tutti chiamiamo il piacere della visione. Senza curarsi della verosimiglianza, lanciando la mdp in favolose carrellate ad alta velocità dietro il protagonista Hugo, il regista cinefilo Martin Scorsese ha modo di rendere omaggio a Georges Méliès (1861-1938), il padre fondatore del cinema fantastico e fantascientifico. Quanto l’opera dei Lumière ‘stava addosso’ alla realtà, tanto le preoccupazioni di Méliès erano rivolte alle immense possibilità che il nuovo linguaggio apriva alla fantasia.
La vicenda del film prevede che a inizio anni Trenta, l’orfano dodicenne Hugo Cabret viva praticamente ‘di contrabbando’ in una grande stazione ferroviaria parigina (la gare Montparnasse), dedicandosi alla manutenzione degli orologi e alla riparazione di meccanismi e congegni. ‘Mestiere’ e passione ereditate dallo zio e dal padre, il quale gli ha lasciato un automa che non era riuscito a rimettere in sesto. Hugo viene a contatto con il proprietario del negozio di giocattoli della stazione stessa: che è proprio Georges Méliès. E il film diventa così una ricca storia a quattro (Hugo-automa-Georges-Isabelle, figlia degli scomparsi collaboratori dell’inventore-regista).
Non ci si stancherebbe mai di ammirare la precisione assoluta con cui ambienti, costumi, colori, caratteri sono ricostruiti e resi dal film. Cinema puro, insomma, che non è poi tanto facile trovare oggigiorno sugli schermi. Sarà che noi siamo particolarmente sensibili al mito mélièsiano dell’illusione di celluloide, ma questo omaggio filologicamente rigoroso al cinema delle origini, lo abbiamo trovato splendido. Se proprio dobbiamo esprimere una (moderata) perplessità, questa deriverebbe dal tipicamente scorsesiano accumulo di materiale: tante citazioni, mai un minuto di respiro, inquadrature sghembe a profusione, tentazioni virtuosistiche sempre in agguato. Beh, averne di film che mescolano David Copperfield (v. il personaggio dell’ispettore ferroviario Gustav, interpretato dal famoso Sacha Baron Cohen) David Copperfield e Giulio Verne; Harold Lloyd e Charlie Chaplin; una riflessione sul caleidoscopio (v. tutte le invenzioni visive) e la necessità di riandare agli affascinanti studi di Jurgis Baltrušaitis intorno alle deformazioni ottiche.
Un film dunque da affrontare solo dal punto di vista di un raffinato formalismo? Ma neanche per idea! Sentite cosa dice l’equilibrato Paolo Mereghetti: «Nelle mani di Scorsese, il bellissimo romanzo illustrato di Brian Selznick La straordinaria invenzione di Hugo Cabret permette al regista di intrecciare i due temi forti della sua ispirazione: la sfida del singolo per trovare il proprio posto nel mondo, e il cinema come lente per capire la realtà. E dilata la sua carica poetica fino a diventare un inno alla gioia di vivere e alle capacità dei sogni (cioè dei film) di regalarci preziosi momenti di felicità. Quattro stelle.»
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Per questioni “ tecniche “ questa settimana ci è impossibile presentare la scheda dei film prescelti per la visione. Vi elenchiamo comunque una serie di titoli che meritano la visione.
(due film: “Il traditore di Fort Alamo” e “Steve Jobs” li riteniamo i più “interessanti”)
Buona visone
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Data: Martedì 28 settembre 2021
Ore: 21:00
Canale TV : CINE 34 (canale 34)
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Per questioni “ tecniche “ questa settimana ci è impossibile presentare la scheda dei film prescelti per la visione. Vi elenchiamo comunque una serie di titoli che meritano la visione.
(due film: “Il traditore di Fort Alamo” e “Steve Jobs” li riteniamo i più “interessanti”)
Buona visone
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Data: Martedì 28 settembre 2021
Ore: 21:00
Canale TV : CINE 34 (canale 34)
LA LEGGENDA DEL PIANISTA SULL’OCEANO
1998, Italia Regia: GIUSEPPE TORNATORE
Settimana interlocutoria, questa, in cui abbiamo scelto film un po’ controversi, i quali sollecitano il giudizio del singolo spettatore. Film, intendiamo dire, ‘aperti’, che hanno suscitato reazioni contrastanti. Prendiamo questo Tornatore. Una sorta di kolossal girato – in lingua inglese – in Ucraina, con attori stranieri anglofoni e collaboratori più che illustri (Ennio Morricone per le musiche, l’ungherese Lajos Koltai per la fotografia, costumi di Maurizio Millenotti, soggetto da un monologo teatrale di Alessandro Baricco). Una “favola grandiosa” – si direbbe – (40 miliardi di spesa), costruita a tavolino per centrare il grande successo di pubblico e, forse, per entrare nella storia del cinema. Con il primo scopo è andata bene, con il secondo un po’ meno. Tornatore (n. 1956) già vincitore di un Oscar meritato con Mediterraneo (1991), ha poi sempre faticato a mettere insieme opere totalmente convincenti: si è abituato a pensare in grande, e la critica non infrequentemente ha fatto pollice verso. Che dire? Provate a guardare questa Leggenda: forse sapete già che racconta la storia di un Tim Roth pianista che sceglierà di non scendere mai a terra dalla nave sulla quale fu trovato ancora in fasce: è un uomo che “non esiste”. Lasciamo però a un estimatore del film, l’illustre critico Paolo D’Agostini, il compito di tracciare qualche linea orientativa: «(…) Che lezione ci dà questo film, che insegnamento ci lascia questo bel personaggio? Forse che per apprezzare la ricchezza della vita, per sapere che “è una cosa immensa” occorrono tanto i Novecento [è il nome del personaggio di Tim Roth] quanto i Max: l’ingenuità, la follia, l’isolamento, la ‘malattia’ degli artisti cui Dio ha donato il genio per creare ma non la capacità di vivere la vita comune; e l’adattabilità, il realismo, il senso comune, i vizi, ma anche la capacità di perdersi e di commuoversi dei loro gregari. Quelli che scendono a terra. A poco più di 40 anni, come il Fellini che aveva appena fatto La dolce vita e si accingeva a fare Otto e mezzo, Tornatore ci consegna, nel doppio richiamo alla fine di secolo che ci ha preceduti e a quella che è alle porte, una metafora che resterà perché emoziona senza cedimenti sentimentalistici, e perché scava senza proclami pretenziosi, con il dono di una “pesante leggerezza”. Tornatore ha sempre avuto la tendenza a riempire i suoi film di suggerimenti, evocazioni, citazioni, intenzioni, ma qui finalmente il sovraccarico non deborda, si fa ricchezza di rimandi, significati, valori, riflessi. E anche la mancanza di misura (ci sono momenti in cui le due ore e quaranta non paiono tutte necessarie), si lascia perdonare, anzi giustificare come armonica a una necessità espressiva, a un’economia narrativa, a uno stile personale.»
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Data: Sabato 25 settembre 2021
Ore: 15:20
Canale TV : RAI 3
VIA DALLA PAZZA FOLLA (FAR FROM THE MADDING CROWD)
2015, GB/U.S.A. – Regia: THOMAS VINTERBERG
Questa segnalazione è per la verità originata più dall’incitamento a leggere (o a rileggere) il romanzo originario di Thomas Hardy, che dall’intrinseca pregevolezza del film che ne ha tratto il danese Thomas Vinterberg (n. 1969) il quale – con L’ultimo giro – ha vinto l’Oscar per il miglior film straniero all’ultima edizione. Thomas Hardy è scrittore che ha sempre avuto pochi lettori in Italia, quantunque i suoi romanzi e una parte delle poesie e dei racconti siano stati tradotti.
Forse Hardy (1840 – 1928) tiene a distanza il lettore italiano perché esprime una visione amara e desolata della vita, in cui l’uomo è schiacciato da un Fato (rigorosamente in maiuscolo) indifferente e ostile. Lontano parente della nostra Grazia Deledda, ha ambientato tutte le sue trame nelle campagne del natìo Dorset (da lui ridenominato Wessex, alla maniera anglosassone), e si è rivelato un grande poeta della natura. Per questo il cinema (inglese) si è spesso ispirato ai suoi romanzi, e il risultato migliore venne raggiunto dalla splendida versione che proprio di Via dalla pazza folla ci diede nell’ormai lontano 1968 il regista John Schlesinger. Già, ma allora c’era alla sceneggiatura Frederic Raphael (90 anni compiuti lo scorso 14 agosto: auguri!), Julie Christie come Betsabea Everdene; Peter Finch era Boldwood, il proprietario terriero di mezza età, Terence Stamp faceva il sergente Troy e Alan Bates il fedele pastore Gabriel Oak.
Adesso invece il problema riguarda proprio gli interpreti, che sono totalmente fuori parte (stavamo per scrivere che non sono all’altezza…), con la sola eccezione della brava Juno Temple (n. 1989) nel breve ruolo della sfortunata Fanny Robin.
E dire che la vicenda è ben congegnata. Betsabea è contesa da tre uomini: Oak, appunto, Troy e Boldwood. Rifiuta il pastore perché non è abbastanza ricco e il proprietario perché non lo ama; sposa il soldato, ma ne ricava solo offese e amarezze. Poi il proprietario uccide il soldato, e Betsabea può correggere l’errore originario sposando il pastore Oak. Il film è corretto dal punto di vista dei bei paesaggi fotografati a colori, i costumi sono gradevoli, qualche scena è filmata bene (Betsabea e il sergente Troy con la giubba rossa nel bosco…), ma il confronto con Schlesinger è improponibile. Forse Hardy può essere portato sullo schermo solo da registi inglesi: per esempio, anni fa (1979) ci si mise anche Roman Polanski con Tess dei d’Urbervilles. Sì, Nastassja Kinski, tre premi Oscar: sostanza, però, pochina.
Via dalla pazza folla: sì, vedetelo (non vi annoierà di certo); vedetelo, e poi via di corsa al romanzo.
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Ritorniamo dopo la pausa estiva con la nostra rubrica di “consigli” per la visione di film di qualità.
Molti i titoli che meriterebbero la vostra attenzione, ma le nostre scelte si orientano su pellicole trasmesse in orari “umani”, pomeriggio e prima serata. Chissà perché i “capolavori” li trasmettono in orari notturni o all’alba… quelli non ve li proponiamo, ma dalla prossima pubblicazione potremo perlomeno evidenziarveli…se soffrite d’insonnia!!!
Buona visione
Data: Mercoledì 22 settembre 2021
Ore: 16:30
Canale TV : RETE 4 (504 HD)
SCANDALO AL SOLE (A SUMMER PLACE)
1959, U.S.A. Regia: DELMER DAVES
«Preferisco di gran lunga che il pubblico non sappia che c’è un regista. Questa è la mia tesi generale riguardo alla regia.»
Non si può certo sostenere che l’americano Delmer Daves (1904 – 1977) non sia stato accontentato in questo suo auspicio teoretico. Di fatto, ancora oggi molti suoi titoli (la decina di western: L’amante indiana, 1950; L’ultima carovana, 1956; Quel treno per Yuma, 1957; L’albero degli impiccati, 1958 …), sono vivi nella memoria degli spettatori, ma quanto a ricollegarli complessivamente al suo nome in segno di avvenuta identificazione autoriale, ebbene siamo ancora piuttosto lontani. Che simile atteggiamento sia da estendere anche agli addetti ai lavori, è però davvero singolare: singolare perché – esso sì – consapevole ( e dunque colpevole…!).
Estraneo al triangolo Vienna-Berlino-Hollywood, all’humus culturale ebraico, alle soluzioni narrative (Edgar G. Ulmer) o visive (Jacques Tourneur) ‘estreme’ di certi suoi coetanei, a Delmer Daves è stato fatto pagare un biglietto esageratamente caro per i fluviali melodrammi del quadriennio 1961-’65, da Vento caldo ad Accadde un’estate. In Francia era tempo di Nouvelle Vague e il 68 bolliva già in pentola; negli Stati Uniti non gli furono perdonati l’ipocrisia e i pregiudizi attribuiti alle classi sociali benestanti, soprattutto nei rapporti intergenerazionali. Sono proprio i temi che Daves affronta a partire dal celebre Scandalo al sole, celebre perché la colonna sonora di Max Steiner ha segnato un’epoca ed è ancora ben presente a chi aveva sedici-diciotto-vent’anni quando uscì il film. È totalmente fuori moda Scandalo al sole ? Alcuni rispondono affermativamente, ma è una domanda che riveste poco significato nel momento in cui lo si guarda con l’occhio dello storico, sia del cinema che dell’american way of life (e forse non soltanto). La vicenda è nota: è la storia di tre coppie, due di genitori male assortiti e una dei rispettivi figli che si amano con l’entusiasmo della giovane età. Ambientata a Pine Island, al largo della costa atlantica del Maine, traccia di fatto un parallelo tra la pruderie, il tipico puritanesimo di molti ambienti ricchi dell’East Coast, e la permissività – sì, in materia sessuale innanzitutto… – richiesta dalle generazioni che avanzano. Due generazioni a confronto insomma, dove il liberal Daves ha buon gioco nello stigmatizzare – v. la Helen Jorgenson di Constance Ford – snobismo, pregiudizi sociali e razziali, ipocrisia (la stessa che spinse i distributori italiani a tradurre il titolo originale A Summer Place con Scandalo al sole…!). Detto che il problema maggiore del film risiede nel cast (bravissimo, come sempre, Arthur Kennedy nel ruolo di Bart Hunter, marito disincantato di Sylvia Hunter/Dorothy McGuire; non più comprensibile invece il motivo che spinse a valorizzare i bamboleggianti Troy Donahue e Sandra Dee come la coppia giovane), non è il caso di fare pollice verso a Scandalo al sole: una volta riposizionato nel suo proprio contesto cronologico, contiene anch’esso una parte di verità.
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Data: Domenica 19 settembre 2021
Ore: 21:15
Canale TV : 26 CIELO
LEZIONI DI PIANO (THE PIANO)
1993 – Australia / Francia
Regia: JANE CAMPION
Non fosse stato per lei e per il Peter Weir di Picnic a Hanging Rock, quanti fra noi (e fra gli addetti ai lavori…) avrebbero spontaneamente cominciato a considerare che la lingua inglese ricomprende la cultura raffinata e autonoma di un intero Continente geografico, una cultura da indagare per mezzo di categorie mentali libere e indipendenti ? Cinema e Australia; cinema e Nuova Zelanda: ma chi ci aveva mai pensato ? E invece oggi possiamo essere qui a scrivere con certezza assoluta che il primo posto nell’ambito di una classifica di merito riguardante le registe che hanno operato e operano nella Storia del Cinema, spetta ex-aequo a Ida Lupino (1918 – 1995, inglese) e a Jane Campion, nata a Wellington, Nuova Zelanda, il 30 aprile 1954.
Chi ha seguito su RaiMovie la recentissima cerimonia di assegnazione dei premi a conclusione della Mostra di Venezia, non potrà dire di non essere stato colpito dal suo volto inquadrato in primissimo piano: emanava la forza interiore, la decisione, il ‘marchio’ vorremmo quasi dire, di una donna il cui destino è l’arte, l’espressione artistica, la comunicazione di sensazioni che aiutano a capire ad alti livelli di profondità l’universo nel quale ci è stato dato di vivere (e non solo…). Come non pensare ad Artemisia Gentileschi, Angelika Kauffmann, Vittoria Colonna, a Katherine Mansfield stessa, presente in tutte le storie della letteratura inglese e conterranea di Jane Campion ?
Sentite come Giovanni Grazzini (quanto ci mancano critici come lui, come Guglielmo Biraghi, Claudio G. Fava…) apriva sul “Corriere” la recensione dedicata a Lezioni di piano: Tra i film belli della stagione, Lezioni di piano fa spicco, forte ritratto d’una donna vincente compiuto da una donna intelligente e sensibile, venuta dal femminismo a celebrare l’assoluto dell’amore. Questa storia romanticamente eccessiva, è narrata da Jane Campion con uno stile di volta in volta vibrante e sfumato, che ha una grande forza inventiva e d’espressione. Usando la mdp col piacere quasi sensuale di trascorrere sui volti, gli oggetti, i comportamenti per coglierne la valenza fantastica, evoca il valore del tatto, esalta la comunicazione trasmessa non già con la parola ma con la nota musicale, esplora attraverso l’immagine la zona dell’inespresso, e in una perdurante atmosfera di lirismo trae da tempo e spazio tante occasioni emotive.
Avete letto bene: Lezioni di piano è un film che celebra l’assoluto dell’amore, e – senza ‘steccare’ – tocca anche l’amore carnale per affermare la volontà femminile. Segnatevi dunque questo appuntamento, e il nome di Jane Campion: con lei – connazionale di Edmund Hillary – il cinema sale a quota ottomila.
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Probabilmente avrete notato che la rubrica di CINEMA è stata interrotta ….. in parte per la scarsa qualità della programmazione ma anche per il “naturale” desiderio di riposo dopo un anno dedicato non solo all’ACU del nostro esperto “principe” Giulio Fedeli.
Vi ringraziamo per l’attenzione con cui ci avete seguito in tutto questo periodo di “tempo senza tempo” e Vi diamo appuntamento a settembre per riprendere il nostro percorso, nella speranza di poterlo presentare a pieno regime ed in presenza non appena le circostanze ce lo permetteranno.
Nel frattempo vi auguriamo una serena estate con l’invito comunque ci continuare a seguirci sul sito e sulla pagina Face Book.
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Data: Martedì 1 Giugno 2021
Ore: 16:15
Canale TV : RETEQUATTRO
GIUBBE ROSSE
(NORTHWEST MOUNTED POLICE)
di Cecil B. De Mille U.S.A. 1940
Con Gary Cooper, Paulette Goddard, Preston Foster, Robert Preston
La critica cinematografica (c.c.) che riflette sulle sue basi teoretiche: mai ci stancheremo di raccomandarvi la lettura di quei testi che analizzano quali strumenti gli addetti ai lavori mettono in campo (o non mettono in campo…) per formulare i loro giudizi. Cominciate con l’agile guida dell’ottimo Alberto Pezzotta, divulgativa e rigorosa (La c.c.; Carocci, Roma 2007); seguitate con il volume dell’universitario Claudio Bisoni (La c.c. Metodo, storia e scrittura; Archetipo, BO 2008). Poi però prendetevi anche una vacanza: per es., provate a procurarvi (e non preoccupatevi dell’inglese: lo leggerete lo stesso, e non dovrete ricorrere all’aiuto del dizionario così spesso come pensate) The Fifty Worst Films of All Time. Sì, perché Giubbe Rosse -il film che vi consigliamo oggi di non perdere- a detta degli autori rientra proprio nell’elenco dei 50 peggiori film mai girati. E questa è già una (validissima) ragione per spingervi a vederlo: pensate infatti come sarebbe salutare cominciare a farvi qualche domanda se vi dovesse piacere.
Ricordate quando durante i nostri incontri presentammo -qualificandoli come “capolavori” (è un modo di dire, è un modo di dire…)- titoli come Madre Giovanna degli Angeli, Strategia di una rapina, o Irene Irene di Peter Del Monte, che vi lasciarono invece perplessi, se non indifferenti? Chi stabilisce quali sono i film migliori o peggiori della storia del cinema?
Sappiate che nel libro citato (procuratevelo, ci ringrazierete!), immediatamente prima di Giubbe Rosse (1940), l’elenco prevede La taverna della Giamaica (1939, Alfred Hitchcock); prima ancora Il cavaliere della libertà (1930, di D.W. Griffith), poco dopo Ivan il terribile (1944, di S.M. Ėjzenštejn). C’è anche un Preminger, un Losey, un Resnais. C’è bisogno di aggiungere altro?
Sì, c’è bisogno di aggiungere che Giubbe Rosse è un bel film avventuroso, con DeMille per la prima volta alle prese col Technicolor, il quale aggiunge splendore alla maestà dei paesaggi, alla venustà di Paulette Goddard, alla ‘scrittura’ cinematografica senza tempi morti. E questo è ancora nulla, perché il regista ci immerge in un quadro storico che –soprattutto qui in Italia- conosciamo forse ancora troppo poco: la rivolta dei Métis intorno agli anni Ottanta del XIX° sec. Erano costoro i meticci di lingua francese discendenti dalle unioni tra coloni franco-canadesi con donne Cree, Saulteaux, Ojibway, Algonquin. E le appena create (1873) Tuniques Écarlates, si trovarono a dover operare in quei territori immensi, contro popolazioni ostili, dove il banditismo era spesso mescolato alle rivendicazioni ‘nazionali’. Nel film compaiono alcuni personaggi storici, come appunto Louis Riel e Jacques Corbeau superbamente caratterizzato da George Bancroft, il quale aveva appena smesso i panni dello sceriffo Charlie Wilcox in Ombre Rosse. Gary Cooper è Dusty Rivers, un ranger texano giunto in Canada sulle tracce appunto di Corbeau. Paulette Goddard è Louvette (=lupetta), la scatenata figlia di Corbeau. Ed ecco un’altra caratteristica tipica del cinema di Cecil DeMille: l’inserimento mai fuori luogo di storie d’amore e sentimento. Noi non ve lo diciamo: tocca a voi infatti contare quante ne sono romanticamente presenti in Giubbe Rosse. A noi lasciate il compito di sottolineare la bella delicatezza della battuta che Gary Cooper porge alla fine a Madeleine Carroll: «Il Texas sarà più triste senza di lei».
Avendo aperto con delle indicazioni bibliografiche, chiuderemo allo stesso modo. Forse fate ancora in tempo a trovare in edicola l’ultimo numero di Tex Magazine 2021: contiene decine di pagine curate da Graziano Frediani dedicate alle Giubbe Rosse, alla loro storia e leggenda, alla loro canadesità, ai numerosi film che hanno ispirato, tanto numerosi da originare un piccolo filone autonomo del genere western. Buona visione. E Buona lettura.
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Data: Giovedì 27 Maggio 2021
Ore: 17:10
Canale TV : 22 – IRIS
L’ I N F E R N A L E Q U I N L A N di O r s o n W e l l e s U.S.A. 1958
Qualche anno fa, un docente di A.C.U. ci disse che si accingeva a partire per un viaggio di piacere in Spagna, e che una delle tappe sarebbe stata la città andalusa di Ronda. La reazione fu automatica: dovette giurarci che a qualsiasi costo sarebbe andato a cercare la finca (= tenuta) di Antonio Ordóñez (1932-1998), nel patio della quale – in una vera di pozzo cieca ricolma di terra della Plaza de Toros – giace l’urna con le ceneri di Orson Welles (1915-1985). Il grande e celebre torero, era molto amico sia di Welles che di Hemingway, dos americanos que idolatraban la corrida de toros. Al suo ritorno, il collega ci disse che, essendo proprietà privata, la tenuta non era aperta al pubblico: non aveva dunque potuto scattare le fotografie richieste.
Che cosa era accaduto a noi – da sempre disobbedienti all’obbligo diffuso di decretare Quarto potere e Orson Welles rispettivamente il film e il regista più importanti della storia del cinema – per intraprendere, sia pure attraverso interposta persona, un ‘pellegrinaggio’ wellesiano così pregnante di riconoscimenti? La risposta è semplice. Messa a parte la lettura del libro di Peter Bogdanovich, ci era diventato impossibile negare l’autentico piacere della visione che un titolo qualsiasi di Orson Welles procura, sia esso vicino al suo progetto iniziale o manomesso dai produttori. Per esempio, che il suo gusto per il mascheramento – eccessivo e debordante quanto si vuole – è basilare in ordine ai concetti di finzione e spettacolo con cui le storie cinematografiche devono fare i conti.
Proviamo a prendere il poliziotto ‘deviato’ Hank Quinlan di questo film. È un po’ la sintesi di tutti i “cattivi” wellesiani, e il regista-interprete si è sbizzarrito nell’applicargli anche visivamente tutti i difetti possibili e immaginabili: grasso, vecchio, laido, brutalmente volgare, alcolizzato, ributtante nel suo aspetto sudaticcio (moite, direbbero i francesi). Ne sarebbero bastati due – tre, via – per farne comunque un personaggio odioso. Ebbene, il fatto che Hank Quinlan assurga invece a simbolo della complessità dell’animo umano, si trova enormemente potenziato da simile descrizione: poliziotto che non esita a fabbricare prove false pur di incastrare quelli che ritiene i colpevoli di un reato, ha dalla sua un fiuto praticamente infallibile. Forse, più ancora che di complessità, si dovrebbe parlare di ambiguità dell’animo umano, di negatività positiva di un personaggio tutore di un ordine allarmante e che tuttavia è estraneo al concetto di vantaggio personale, legato a una idea di giustizia implacabile ma “giusta”. Il vero colpevole de L’infernale Quinlan è quello che lui aveva intuito; lui, così lontano dalla correttezza formale del bello e pulito Mike Vargas di Charlton Heston, campione di mediocrità lineare.
Eh, sì; sappiate che dovrete prendere una posizione nei riguardi dell’energia dittatoriale condita di sarcasmo ironico che sprigiona da Hank Quinlan. Tornano alla mente il discorso dei cucù svizzeri che l’angelico e perfido Harry Lime ci sottopone ne Il terzo uomo; la mancanza di limiti morali del suo Macbeth. Soprattutto deve tornare il ricordo della piega tragica delle labbra del commissario di polizia François Périer, mentre nel melvilliano Frank Costello faccia d’angelo confessa – vergognandosene – a Nathalie Delon: «La verità è quella che dico io, malgrado i mezzi che devo usare per raggiungerla!»
Sì, è davvero difficile rimanere indifferenti di fronte al ritratto di Hank Quinlan: e solo un regista/interprete davvero grande lo poteva tracciare.
Il resto è cosa nota: il piano-sequenza iniziale al posto di frontiera tra Stati Uniti e Messico; quello della famosa scatola da scarpe; l’uso del grandangolo; il cameo della divina Marlene Dietrich nel ruolo di Tanya, cui tocca pronunciare l’orazione funebre per Quinlan: «He was some kind of a man» [= a modo suo, era un grande uomo].
Il critico americano Danny Peary ha sintetizzato bene i motivi di quel piacere della visione cui abbiamo accennato: nell’Infernale Quinlan, Welles ha enfatizzato gli elementi di squallore, ma li ha filmati da vero artista.
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Data: Venerdì 21 Maggio 2021
Ore: 16:45
Canale TV : 22 – IRIS
SHAKESPEARE IN LOVE di John Madden U.S.A. 1998
Ce la ricordiamo bene la stagione cinematografica di Shakespeare in Love. Uscirono molti titoli di sicuro interesse, come Ronin, La sottile linea rossa, Train de vie, Salvate il soldato Ryan… . Chissà se fu quella la ragione che portò la critica italiana a trascurare questo film del britannico John Madden (n.1949), il quale aveva esordito bene con Ethan Frome (tratto da Edith Wharton) e in anni più recenti ci avrebbe dato il dittico di Marigold Hotel. O forse Shakespeare in Love venne guardato con sospetto a causa della messe di Oscar che lo gratificarono, e del cast zeppo di nomi importanti (Gwyneth Paltrow, Joseph Fiennes, Geoffrey Rush, Judi Dench, Colin Firth…). Insomma: una furba operazione commerciale studiata a tavolino o un’altra pellicola costruita intorno all’universo del Bardo che ormai costituisce quasi un genere a sé?
Il nostro consiglio è di non lasciarsi prendere dalla fretta nell’emettere un giudizio. Attenzione infatti, perché alla voce “sceneggiatura” compare il nome di Tom Stoppard (n.1937), il drammaturgo inglese di origine cecoslovacca già regista in proprio del famoso Rosencrantz e Guildenstern sono morti e molto attratto dall’autore di Amleto. La notizia che Shakespeare in Love è opera di fantasia, è una buona notizia: in mancanza di una documentazione certa che faccia luce sull’intera vita di William Shakespeare, Tom Stoppard inventa la storia della nascita di un capolavoro rivisitando il mito di Romeo e Giulietta a partire da un altro mito, quello di una presunta musa che avrebbe ispirato il Bardo, liberandolo da una lunga crisi creativa.
Siamo infatti a Londra, nell’estate 1593 – dunque nel bel mezzo dell’età elisabettiana – dove l’astro nascente della scena teatrale non riesce a portare a termine la sua nuova opera. Ma tutto cambia quando il giovane William (Joseph Fiennes) si innamora di Lady Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow). Viola, decisa a diventare attrice nonostante le convenzioni dell’epoca impedissero alle donne di recitare, si traveste da uomo per poter partecipare alle audizioni: sarà lei – la vera Giulietta – a interpretare il Romeo che Shakespeare aveva sempre sognato.
L’idea è molto stuzzicante, perché il travestimento di Viola racconta altre trame shakespeariane (La dodicesima notte, I due gentiluomini di Verona…, provate a ‘lavorarci’ un po’ intorno), e valorizza la vitalità che il drammaturgo – immerso nelle medesime passioni dei suoi personaggi – è stato capace di infondere loro. Il regista Madden mette in scena l’affascinante mondo del teatro elisabettiano con grande sontuosità: collaborazione e rivalità fra gli autori e le compagnie teatrali; gli attacchi dei puritani; il coinvolgimento festoso e rumoroso del pubblico di estrazione popolare.
Forse esagereremo, ma partendo da Shakespeare in Love un professore universitario di Storia del Teatro e dello Spettacolo potrebbe agevolmente ricavare materia per un corso monografico della durata di un intero anno accademico. Che non è proprio male per un film, se è vero – come è vero – che nella sua “Guide des Films” lo storico e critico francese Jean Tulard afferma che Shakespeare in Love richiama il celebre Enrico V di Laurence Olivier.
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QUATTRO PERCORSI PER UN CINEFORUM PERSONALE
Questa settimana (15-21 maggio), l’abbondanza di buoni titoli è tale da consentirci e consigliare il disegno di una sorta di “cineforum” personalizzato a seconda di gusti e preferenze. Vediamo.
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