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I Racconti di Maurizio Maniscalco

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Quiete

Natura in bilico

Nel silenzio e nella pace di un’oasi sicura, gli animali vivono protetti.
Non cosi nelle foreste e nelle savane.
Incendi, devastazioni e bracconaggio, distruggono l’ecosistema
del nostro pianeta azzurro, unico e insostituibile.
Abbiate cura di questa “casa” dal cuore pulsante
che ci fu donata con amore infinito.

 

 

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Mi chiamo Maurizio Maniscalco, docente di fotografia e postproduzione.
  Cinque anni fa, tradendo i dogmi fotografici, presentai una serie d’incontri sulla

vita di Leonardo da Vinci e sul Rinascimento.
   Dopo circa un anno dagli esordi, sentii fortemente la necessità di scrivere la sua storia a episodi. Rispettando scrupolosamente i dati storici raccolti nei vari testi, introdussi elementi deduttivi assolutamente personali.

   Prima di allora non avevo mai scritto nulla di narrativo, ma avevo solo redatto una serie di testi tecnici sulla fotografia, questa nuova opportunità mi spinse a osare di più, da allora ho scritto racconti e poesie.

   Sono uno scrittore autodidatta, non ho pretese, ma ho scoperto quanto sia importante scrivere, pensare e dedurre, è una palestra per la mente ed evolve lo spirito.

   Mi auguro di non essere giudicato troppo severamente. Buona lettura

 

 

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L’EREMITA  (prima parte)
Una preziosa morale
Testo di Maurizio Maniscalco

   I fatti che vi racconto in questa storia risalgono alla notte dei tempi, sfumano tra realtà e leggenda, narro la metamorfosi di un giovane che, destinato a ben altri compiti, seguì la luce della sapienza, non importa se quest’uomo sia esistito o no, l’importante è che ogni pensiero scaturito dalla sua mente risvegli le coscienze.

 

 

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L’EREMITA  (seconda parte)
Ma… la verità esiste?
Testo di Maurizio Maniscalco

    Con pochi mezzi a disposizione, visitò grandi città dove le genti erano più acculturate , con grande volontà si propose alle folle nei mercati, nelle piazze, nei giardini e in qualunque   posto vi fossero esseri disposti ad ascoltare le sue parole.

 

 

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L’EREMITA  (terza parte)
Una scelta difficile
Testo di Maurizio Maniscalco

 

 

 

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FOTOGRAFIA IN VIAGGIO
Immagine e testo di Maurizio Maniscalco

Prefazione
Questo è il primo di una serie di racconti dedicati alla fotografia e a coloro che intendono alzare “l’asticella” della loro cultura.

 

 

 

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ORBITA CELESTE
Casa dolce casa
(Elaborazione immagine e testo Maurizio Maniscalco)

PREFAZIONE
   Questo è un racconto molto diverso da quelli che l’hanno preceduto, scaturito dal mio amore incondizionato per la natura e per questo mondo fantastico che l’uomo sta portando lentamente alla distruzione.

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BUTTERFLY
   Una favola per pensare
(Immagine, elaborazione e testo Maurizio Maniscalco)

PREFAZIONE
    Questo racconto si discosta molto dagli altri che ho pubblicato perché è particolare, si snoda tra passato e presente, meditazioni e considerazioni sono scaturite osservando lo svolazzare di una farfalla.

   E’ diviso in tre parti apparentemente slegate tra loro, ma leggendo con attenzione, il legame c’è. I miei scritti, oltre a raccontare una storia, porgono materiale per riflettere: gli spazi bianchi sono fatti per questo. Buona lettura.

 

 

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Questo racconto chiude un trittico dedicato ai sentimenti: solidarietà, affezione, amore, amicizia e così via. Emozioni astratte ma molto potenti, esse attivano nella nostra mente stati di euforia travolgente, ma  se non corrisposti, ansia e depressione. Non tutto ciò che è materiale ha valenza su questa terra, bisognerebbe  saper dosare logica e irrazionalità: non sempre è possibile.

   I miei scritti traggono le loro fonti principalmente da questi elementi spesso in antitesi tra loro, aggiungo poi una morale, che più o meno esplicita, si rivela all’attento lettore.  Buona lettura.

 

 

UNA FASCIA DORATA
Una storia vera
Immagine, elaborazione e testo di Maurizio Maniscalco

 

      Era il mese di giugno di due anni fa, martedì. Quel giorno, decisi di lasciare alcuni impegni pressanti per dedicarmi una giornata di vacanza.

   Il desiderio era così forte che senza rendermene conto, mi ritrovai, inspiegabilmente, a guidare sull’autostrada in direzione dei laghi.

   Giunsi ad Arona, città che conosco discretamente, parcheggiai di proposito lontano dal centro: passeggiare sul lungo lago di mattina è straordinario.

   La riva era deserta, silenziosa, l’aria immota, nel piccolo molo, fra le barche ancorate, scivolavano cigni che, procedendo senza movimenti evidenti, apparivano come figure irreali.

   L’atmosfera circostante, dalle tinte rarefatte, ricordava i dipinti di Monet, ma quello che mi stupì maggiormente, fu l’udire il mio respiro e l’incedere  dei  passi.

   Sostai in un bar del centro per un caffè e proseguii senza abbandonare la passeggiata lungo lago: la mia intenzione era quella di raggiungere un piccolo, strategico promontorio, che permette una visione  ad ampio raggio.

   La cosa che rende piacevole la sosta in quel punto è la presenza di una panchina circolare che cinge un albero al centro, un punto d’osservazione fantastico, realizzata ad arte per osservare il castello di Angera che si specchia proprio di fronte sull’altra riva. La leggera foschia si era alzata, l’aria era così tersa che tutto ciò che si riusciva a inquadrare sembrava ritagliato e incollato su un cielo azzurro.

   Da quel punto, dando le spalle alla città, si possono vedere le montagne innevate a sinistra e un promontorio a destra che cela una parte del lago, non mi stancavo di far scorrere lo sguardo da un lato all’altro: era uno spettacolo ipnotico.   

Le persone sulla passeggiata erano rare, una piccola figura in lontananza attrasse la mia attenzione, procedeva nella mia direzione: una signora anziana camminava a stento reggendosi su un bastone, sostando di tanto in tanto appoggiandosi alla ringhiera per prendere fiato. Appariva stanca e dolorante e il primo istinto fu quello di andarle incontro per porgerle aiuto. Probabilmente era molto conosciuta perché più di una persona, interpretando la mia intenzione, si offerse di aiutarla, ma la signora con un gesto della mano aveva sempre rifiutato. Passò qualche minuto e stremata giunse alla panchina, si lasciò cadere con un grande sospiro. Si mise la borsetta sulle ginocchia, incrociò le mani sul bastone di fronte a sé e lo sguardo si perse nel vuoto. Non potei fare a meno d’osservarla di nascosto: minuta, magra, viso scavato, sofferente, non per mancanza

di mezzi e sostentamento, infatti il suo abito era ben curato e di buona fattura, ma molto più probabilmente per dispiacere profondo.

   Valutai potesse avere più o meno novant’anni, l’età di mia madre, il modo di porsi non denotava fragilità mentale ma fermezza d’animo. Occhi azzurri piccoli e vivaci, capelli bianchissimi raccolti con ordine e fissati da un bellissimo fermaglio. No… non era una persona bisognosa, ma l’immaginai piuttosto, carente d’affetto e comprensione.

   Eravamo seduti molto vicino e questo mi creava un piccolo imbarazzo, anche se intuivo che per lei era come se fossi trasparente.

   L’istinto prese il sopravvento e conscio d’infrangere quasi un rito, ruppi il silenzio con una frase scontata e puerile: “Una bella giornata vero?”.

   Non rispose come se non avesse sentito, talmente immersa nei suoi pensieri, pareva fosse in un’altra dimensione. Mi morsi il labbro pensando che avrei fatto meglio a farmi i fatti miei.

   Ripresi ad armeggiare con la macchina fotografica e decisi di abbandonare l’idea di affrontare una conversazione, mi alzai e cominciai a scattare.

   La situazione, il luogo, l’assenza di passaggio e di rumore, accomunava indiscutibilmente persone così vicine ed era normale che potesse scaturire anche un dialogo di circostanza.

   Il silenzio si fece quasi tangibile, l’idea di riprendere il cammino si fece strada nella mia mente e raccolsi le mie cose. Ero in procinto di andarmene quando l’anziana signora, girandosi, sembrò tornare al presente, mi rispose con voce tremolante:

 “E’ una bella giornata, l’aria è così cristallina, ce ne sono poche in un anno come questa.”

   Fui sorpreso della risposta, evidentemente la mia persona non le era sgradita, ebbi la netta sensazione che avesse necessità di parlare con qualcuno, ma di mantenere comunque, un solido legame con il suo mondo, mi sedetti nuovamente.

 “E’ fortunata ad abitare in un posto così bello, sì insomma … la natura, il lago …”

   Rispose lentamente con voce rauca, tipica della sua età:

 “Sì ha ragione, pensi che sono nata a Milano ed essere qui … è così diverso …”

 “Anch’io sono di Milano, ogni tanto faccio una scappata qui.”

   L’imbarazzo e la diffidenza stavano lentamente sfumando lasciando posto a frasi meno convenzionali.

Parlammo a lungo, il sole temperato e le onde ipnotiche avrebbero fatto desistere chiunque ad andarsene e immergersi nel traffico.

   La conversazione si fece più amichevole, confidenziale e rilassata:

 “Vede, mio marito era ingegnere e lavorava qui al cantiere navale, sarò sincera, anche se abito qui da tanti anni, non ho mai dato confidenza a nessuno, sa com’è le persone sono un po’ pettegole, specie nei

piccoli centri. Ho degli amici, certo, ma ben selezionati non sono abituata a parlare con gli estranei, non so perché ma per lei ho fatto eccezione, forse perché mi ricorda mio nipote.”

   Mi strinsi nelle spalle come a sottolineare l’evidente spontaneità del caso, ben sapendo d’aver sentito quella frase molte volte: alla base del mio lavoro e del mio modo di fare ho sempre messo in evidenza i rapporti umani.

   Proseguì, la voce assunse un tono confidenziale come se intorno, nonostante il deserto, ci fosse qualcuno proteso ad ascoltare, il tremore si accentuò sollecitato dal ricordo di un passato sempre presente: “Le voglio raccontare una storia, piccola, breve, ma che non ho mai avuto il coraggio di rivelare a nessuno, appartiene a quella sfera di ricordi che si vogliono proteggere gelosamente.”

    Il rapporto personale aveva imboccato un sentiero preferenziale, fui sorpreso dalla lucidità e dalla proprietà di linguaggio che faceva intuire una passata istruzione, ma non erosa dal tempo, mi girai verso di lei cercando d’incrociare il suo sguardo per non perdere anche il minimo cenno degli occhi e delle labbra.

 “Mio marito si è sempre comportato con me, nonostante il suo lavoro rigidamente matematico e di responsabilità, con dolcezza, regalandomi amore sincero, eravamo anche amici e ci confidavamo pensieri profondi,

ci fidavamo l’uno dell’altra, il bene era grande e senza screzi, avevamo capito che la famiglia è l’ultimo baluardo che si oppone a una società che dona poco e prende molto.

   Bene, deve sapere che a volte la luna appare enorme dietro quelle colline, è talmente grande e luminosa che fa impressione, sembra quasi appoggiarsi sugli alberi. La sua luce crea una scia dorata che parte dall’altra sponda e arriva fino all’imbarcadero sotto casa, perché vede, io abito in quella casa bianca laggiù davanti al lago.”

   Indicò con mano tremula una serie di casette lontanissime dal “nostro” belvedere.

 “Una sera, sapendo che sarebbe sorta “la grande luna”, preparammo la nostra piccola barca e quando comparve, prendemmo a remare verso il centro del lago seguendo la fascia dorata.”

   La voce si fece fioca e rotta, il suo esile corpo fu preso da un lieve tremore, l’emozione del rinnovato dolore stava producendo il suo effetto, le appoggiai una mano sulla spalla volendole infondere conforto, ma lei si strinse ancor di più su se stessa, come a dire che ciò che provava, le dava gioia seppur con amarezza. Riprese schiarendosi la voce:

 “Una volta giunti nel punto più luminoso ci fermammo, appoggiammo i remi guardandoci senza parlare, ci stringemmo le mani, un fremito ci pervase, compresi cosa voleva dire avere un’anima sola, non so se si può amare più di così, io e lui soli nel silenzio più assoluto immersi in una intensa luce dorata, non avevamo la forza di parlare, non un fiato, ci guardammo intensamente facendo parlare solo i nostri sentimenti, mentre le lacrime scendevano copiose. Volendo, il paradiso è qui. Non so quanto tempo passò, ma ci svegliammo da quel sogno solo quando la luce svanì lasciandoci al buio, solo un bagliore delineava le nostre figure.

   Un’onda spinse la barca facendola fluttuare, compresi che era tempo di tornare.

   Per giorni parlammo poco, sapevamo tutt’e due che quell’esperienza ci aveva cambiato, ci bastavano gli sguardi di tenerezza e le strette di mano.”

 

   Sciocchi coloro che si perdono nelle iniquità di una vita frustrante, c’è ben altro da raccogliere in questa esistenza.

   Passò il tempo e la vecchiaia cambiò i nostri corpi, ma non l’amore, ogni giorno si rinnovava la luce nei nostri occhi, fino a che un dì di maggio mi guardò per l’ultima volta e insieme a lui si spense la mia vita.

   Non passa giorno che col sole o con la pioggia, percorra questa strada e intanto, anche se sono sola, son sicura che mi ascolta, ci raccontiamo tante cose come abbiamo sempre fatto.

   Una sera la luna rispuntò come succedeva da sempre, ero sul balcone e per non perdere l’attimo, corsi a prendere la macchina fotografica in soggiorno chiamando i miei nipoti, ma una volta tornata ad affacciarmi non vi era più nulla, il momento era passato come passano tutte le cose e il tempo di questa esistenza”.

   Ero immobile, in apnea, non riuscivo a sillabare alcun suono, la voce tremante, ma profondamente evocativa mi aveva paralizzato: è curioso costatare come parole pronunciate con vibrazione particolare, riescano a insinuarsi nel profondo dell’anima, mi accorsi che una lacrima stava rigando la mia guancia che per pudore rimossi subito senza farmi scorgere.

   Luisa, questo era il suo nome, abbandonò lo sguardo fisso sul lago e girandosi nella mia direzione mi disse con una semplicità disarmante:

  “Signore, non so perché le ho detto tutto questo, ma ora devo andare.”

  Non le chiesi spiegazione, ma sapevo perché avesse dato sfogo ai suoi sentimenti, mi sentii in dovere di accompagnarla, lei rispose che non era il caso, ma notando la difficoltà nel rialzarsi provai a insistere:

 “Signora mi permetta almeno di accompagnarla per un tratto.”

   Forse per la prima volta mi osservò intensamente: “Va bene signor … ?”

 “Maurizio e lei?”

 

  “Luisa”

  Mi porse il braccio e questo gesto mi commosse, mi rammentò mia madre.

  ” Signora Luisa, lei non lo sa, ma mi ha fatto un grande regalo, fa piacere incontrare persone speciali.”

  Non parlò ma mi sorrise.

  Lentamente arrivammo al bar sulla piazza vicino a un grande parcheggio, espresse il desiderio di entrarvi,   chiese un bicchiere d’acqua. Il barman: “Ecco qua signora Luisa, come va?”

  “Bene, vede oggi ho compagnia.”

 Si aggiustò il bastone e si diresse verso la porta.

 Feci per riprenderla sotto braccio, ma cortesemente …:

 “Signor Maurizio la ringrazio adesso proseguo, devo farcela da sola, è necessario.”

 “Ma …”, non feci obiezioni.

 Avevo visto dove abitava e le sarebbe mancato più di un chilometro alla meta, quasi leggendomi nel pensiero: “Tutti i giorni faccio questa strada, non si preoccupi.”

  Le depositai un bacio sulla guancia, strano a dirsi ma avevo l’impressione di averla sempre conosciuta, come fosse stata una vecchia zia. La seguii con lo sguardo fino a che non scomparve dietro il rimessaggio dei traghetti. Recuperai la macchina nel parcheggio e ripresi la strada del ritorno, ebbi la sensazione che la mia mente si fosse sdoppiata: una controllava il traffico mentre l’altra faceva scorrere un film in sovraimpressione; come sia arrivato a casa è ancora un mistero.

   Passarono due mesi prima che tornassi ad Arona, mi recai nello stesso posto in riva al lago con la speranza di rinnovare l’incontro, ma non accadde.

  Tornai nuovamente al belvedere, ma dopo aver atteso invano, decisi di offrirmi un bel caffè fumante, proprio nel bar della signora Luisa. Chiesi al barista:

 “Mi perdoni, quella signora anziana, la signora che tutti i giorni passa di qui …”

 “Sì, la signora Luisa?”

 “E’ un po’ di tempo che non la vedo, volevo salutarla ma non l’ho più incontrata.”

 “Adesso che mi ci fa pensare è un bel po’ che non la vedo, non faccio sempre il turno di mattina, Paolo hai più visto la signora Luisa?”

 “E’ vero” rispose l’altro ” è un mese che non passa più, non saprei.”

   Fui assalito da un ragionevole timore, ebbi la tentazione di recarmi fino alla sua palazzina, ma desistetti per discrezione e per non peccare d’ingerenza nei fatti altrui, in fin dei conti, c’eravamo visti solo una volta

e in modo occasionale. Uscii dal bar e mi parve di rivedere in lontananza la figurina claudicante che a fatica si appoggiava sul bastone, per un attimo ne fui felice, ma era solo un miraggio dovuto alla speranza.

   Non ne seppi più nulla, forse era con il suo Giovanni in un mondo lontano a contemplare la grande luna dorata.

 

 

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Elaborazione Immagine e testo Maurizio Maniscalco

 

LETTERA DI UN SOLDATO

 

  Addì’, 16 ottobre 1915

     Accampamento militare sul fronte italiano prima della battaglia.

     Spira e sibila un forte vento che sbatte e gonfia i teli e fa tintinnare i ferri.

     Nell’oscurità della trincea, un soldato, fasciato nella sua divisa grigio verde, seppur distrutto dalla stanchezza e devastato nell’animo, trova la forza di scrivere una lettera alla moglie.

   Si apparta nell’angusto dormitorio, accende una lanterna schermata ed estrae dalle giberne un mozzicone di matita e un foglio sdrucito:

   “Ti scrivo amore mio perché la tua mancanza si fa sempre più opprimente, pensare a noi mi solleva e mi conforta. E’ quasi l’alba, tra poco monterò di guardia. Il morale è molto alto, ma a volte vi sono cedimenti. Come vorrei abbracciarti!

   Il vitto è buono, non ci manca niente, è una guerra di posizione, non succede nulla, dicono che la situazione è momentanea, presto torneremo a casa.

   Per fortuna c’è Paolo, ci facciamo compagnia, parliamo molto, a volte discutiamo come facevamo al bar dei suoi, anzi salutameli e dì loro che stiamo bene.”

   In quel mentre l’amico, al termine del suo turno di guardia, scosta la pesante tenda che scherma l’entrata e impedisce alla luce di filtrare all’esterno.

   “Giovanni che fai? Riesci a scrivere in un momento come questo?”

   “E’ proprio in un momento come questo che lo faccio, come va là fuori?”

   “C’è dall’altra parte un movimento che non mi piace, sta sorgendo l’alba, ho intravisto spostamenti e qualche luccichio metallico, molto strano! Di solito stanno attenti a non far brillare le canne dei fucili, sembra quasi che non gl’importi più di tanto, questo mi preoccupa.”

   “Scusa ma finisco la lettera tra poco sarà il mio turno, ho mandato i saluti anche per te.”

   Giovanni pensoso, nel porsi alla scrittura si rattrista. Piega capo in avanti, una lacrima cade sul foglio.

   L’amico fraterno, gli poggia la mano sulla spalla scuotendolo.

  “Giovanni cosa fai, piangi? Non è da noi, siamo soldati.”

  “E’ un attimo di sconforto, troppa sofferenza, freddo, fame, manca poco che ci mangiamo i topi, continuo a scrivere miserevoli bugie per non preoccupare Cristina che è in attesa, sai…. Paolo, avremo un bambino ed io sono qui lontano chi si prenderà cura di lei?”

  “Su dai fatti forza al paese sono molto uniti, tutti si danno una mano, questo schifo di guerra inutile prima o poi finirà e potremo tornare a casa, io ai miei campi e tu al tuo negozio.”

 Giovanni rinfrancato prosegue la scrittura infondendo alla lettera una nota di dolcezza:

  “Un sorriso m’increspa le labbra quando i ricordi ritornano al passato. Da ragazzo, passando tra i banchi del mercato ti osservavo, non sapevi chi fossi, ma ero lì solo per te, in ombra, silenzioso ma felice.

    Non ero ancora entrato nella tua esistenza, ma in cuor mio sapevo che se m’avessi amato, non avrei più chiesto nulla, anche se lontana, non immagini quanto mi sei d’aiuto.

   Mi farò onore, mi batterò come non ho mai fatto prima, lo farò per la nostra famiglia e per il mio paese.” Giovanni prosegue lo scritto terminando con una sorta di preghiera:

   “Che Dio mi protegga da colpi alle spalle e da fendenti al fianco, mi dia la forza di tornare così come mi hai visto andare.”

   La fiamma barcolla, si è disciolta in un minuto lago, si spegne, ma un’alba livida rischiara i truci scavi.

  Il soldato ripiega il foglio, depone lo scritto, brandisce il fucile, non vi è più tempo per il cuore, bisogna difendere la vita.

   In lontananza inquietanti bagliori illuminano il Carso, il nemico è partito all’offensiva, cannoni nemici, fino a quel momento muti, vomitano palle incandescenti irriverenti come bestemmie nel silenzio.

   Il suono della devastazione giunge in ritardo, segno che i colpi sono distanti.

   Le creste che si affacciano sulla valle saltano in frantumi.

   La montagna che da millenni s’erge regale e immacolata viene violata, distrutta, rocce granitiche vengono scagliate  verso il cielo terso, è un incubo!

 La mente non si capacita, fino ad oggi la guerra era solo teoria, ora si esprime cruda, vediamo la morte in faccia, l’inferno è qui!

  Lampi e fragori assordanti avanzano, si fanno più vicini. I colpi sparati a raggiera si avvicinano, bisogna mettersi in salvo correndo.

  A breve distanza un sole rosso dal nucleo accecante divampa, un proietto carico di morte esplode, seguito da un secco scoppio, travolge e scaraventa uomini e sassi al di sopra delle fragili mura.

  In mezzo al denso fumo, come inferno d’apocalittica memoria: sangue!

  Un crepitio assordante, una pioggia di pietre rovina al suolo, una voragine, la trincea non esiste più.

  Come se condanna fosse stata eseguita, giunge il silenzio. Degli uomini appostati, non vi è più traccia.

  A scoppi in lontananza seguono boati fragorosi e lampi incandescenti. Tutto si frantuma, i metalli fondono, i corpi bruciano. Un odore acre e soffocante riempie ciò che rimane di un inconsistente rifugio.

  Io, che di questo ho drammatica e agghiacciante visione, rimango attonito; quanti uomini morirono inutilmente? Fra le altre domande mi chiedo: Chissà se la missiva giungerà a destinazione, se gli ultimi pensieri di chi ha amato veramente, leniranno il dolore di lei, che in ansia attende?”                                                                                                                                                                          A mio nonno

 

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Elaborazione Immagine e testo Maurizio Maniscalco

 

IL MAESTRO DI MUSICA

   Il professor Emilio Bardi si presentò davanti al n° 90 di viale Bonaparte alle 16:00 meno trenta secondi, come ogni venerdì.

   Ruotò leggermente il polso per controllare l’orologio, attese che la lancetta terminasse il giro e alle 16:00 in punto suonò il campanello.

   Premette il pulsante del citofono d’ottone lucidato a specchio, passò qualche secondo, una voce, in stentato italiano rispose squillante:

   “E’ lei signor Bardi?”

   “Sì Esmeralda sono io.”

   Si udì un ronzio e subito dopo uno scatto secco fece aprire il pesante portone di legno.

Il palazzo risaliva agli anni ’30, lo si poteva arguire dall’architettura dell’epoca, solida, imponente e signorile. Entrò in un atrio spazioso, perfettamente lucidato, sullo sfondo, in controluce, si ergeva un massiccio ascensore in vetro e ferro battuto, originale, bellissimo, manutenuto con cura, ma che avrebbe fatto bella mostra in un museo.

  Il professore lo guardò con sospetto e rinunciò a salirvi come faceva ormai da un anno: una volta, vi rimase chiuso per mezz’ora prima che il custode venisse a liberarlo, lo spavento fu tale che si ripromise di non utilizzarlo più.  

  A causa di un dolore alla gamba, che lo assillava da giorni, sarebbe stato tentato di aprire il cancello cesellato, ma reputava quella vetusta gabbia, inaffidabile: lo attendevano quattro

piani a piedi, non sarebbe stato agevole.

   “Caro Emilio, pensò tra sé, non te ne vuoi convincere ma gli anni passano anche per te.”

   Il professore aveva appena compiuto i cinquantanove anni: li portava bene, se non fosse

stato per quei capelli radi e qualche ruga d’espressione, avrebbe dimostrato dieci anni di meno. Portava occhiali cerchiati d’oro, la sottile montatura metteva in risalto i suoi occhi chiari, ma gl’infondevano un’aria severa, questo contrastava con la sua vera natura, era inderogabilmente preciso nel suo lavoro, questo sì, ma umano e comprensivo.

   Giunse ansimante al piano, prese fiato e premette il campanello.

   La porta di legno scuro si aprì completamente, Esmeralda, rigorosamente in divisa bianco- azzurra si fece da parte per farlo passare. Il professore chinò il capo in segno di saluto.

   “Esmeralda”

   “Buon giorno professore, mi dia il cappotto.”

   L’appartamento era vastissimo, la padrona di casa lo attendeva al termine di un lungo e lucidissimo corridoio, gli porse il dorso della mano e Bardi abbozzò un garbato baciamano.

   Il professore reputava questo rito aristocratico un po’ démodé ma Donna Lucia ci teneva in modo particolare.

   La signora Caracciolo era una donna di mezza età di stirpe nobile dai lineamenti fini ed eleganti, vestiva sempre con gusto ricercato senza lasciare nulla al caso, eretta, truccata e pettinata alla perfezione, capelli grigi, occhi chiari, giro collo e orecchini di perle facevano di lei l’immagine della raffinatezza e del buon gusto.

   “Donna Lucia è sempre un piacere.”

   La padrona di casa, con un lieve gesto del braccio e un abbozzato sorriso, invitò il professore a entrare in soggiorno:

   “Andrea la sta aspettando impaziente ”disse.

  Bardi era affascinato da quel salotto immenso, il parquet rigorosamente originale, rifletteva la luce proveniente dalle ampie finestre, non presentava screpolature né rigature di sorta.   Sulla destra, protetto dalla luce da un ampio tendaggio, troneggiava uno splendido pianoforte a coda di antica fattura, raro strumento primo novecento, ricordava a chi l’osservava l’esemplare educazione della famiglia.

   Veniva spolverato e curato ogni giorno come fosse un pezzo da museo.

   Bardi, tempo prima, chiese e ottenne da Donna Lucia il permesso di suonarlo, ne estrasse suoni pieni e incisivi carichi di armoniche esaltanti, l’esteso salone fu inondato di vitalità e di vaporosa leggerezza, persino i muri parvero sciogliere la crosta dell’immobilismo. Quel pianoforte, erede del fortepiano, produceva un suono così potente che lasciava l’esecutore privo di fiato. Nato per sale da concerto, si ritrovava in un ambiente inadatto alle sue “potenzialità”, ma il professore, dall’alto della sua esperienza, facendo scorrere le dita con capacità sapiente, aveva convertito la potenza in melodia inebriante: fu domato il leone!

   Al termine del brano rimase in contemplazione con le mani sulla tastiera e sguardo perso all’infinito, era estasiato, suonare quello strumento era come aver parlato con il figlio lontano. Quanto avrebbe dato per possederne uno uguale.

   Al lato, quasi in penombra, su una splendida ribaltina, perfettamente in mezzo, un centrino di pizzo, ogni giorno vi veniva depositato un vaso di fiori freschi alla memoria del compianto marito.

   Quel palazzo e quell’appartamento erano “sorretti” da un ordine maniacale: tutto era lucido e curato con attenzione “militare”. Sul fondo, davanti ad un gigantesco camino, vi erano disposte a raggiera poltrone tappezzate con fine tessuto floreale. La loro posizione era stata predisposta per facilitare la conversazione tra gli ospiti, a ridosso della parete, in piena luce, un grande divano e cuscini sparsi invitavano la lettura. Tutt’intorno, sulle pareti, vi erano appesi dipinti di vario stile e grandezza.

   Sul lato più illuminato aveva trovato posto la galleria degli avi, mentre sulla parete opposta temi floreali, dalle tinte chiare e sgargianti, illuminavano la zona in penombra. Le spesse cornici ricordavano lo stile barocco appesantendo un locale che avrebbe desiderato più leggerezza.

   Il professore attraversò il soggiorno facendo scricchiolare le liste di legno ad ogni passo, le sue scarpe da passeggio, tirate a lucido, “scrocchiavano” all’unisono con il pavimento, un  imbarazzante suono crepitò per tutto il locale. Raggiunse il gruppo di poltrone, si fermò, Andrea, affondato tra i cuscini del divano, guardava il soffitto con occhio perso.

      Bardi lo guardò con compassione, aveva sedici anni, avrebbe avuto davanti a sé una vita di disagi e sofferenze: “Andrea come stai oggi?”

   Il giovane, immerso in un mondo lontano non rispose, il professore cercò di attirare la sua attenzione con la copertina di uno spartito che aveva appena portato:

   “Andrea guarda cosa ho trovato, è quel brano che mi hai chiesto.”

   Il giovane, non avendo pieno controllo dei suoi gesti, girò il capo reclinandolo di lato, il suo sguardo cadde sulle punte delle scarpe di Bardi:

   “Ma.. ma… llle lluccidi tttuuttti  iii gggiorni?“

   “Sì, ci sono affezionato, mi sono comode e le tengo pulite.”

   Sopraggiunse la madre, con un lieve tocco sul braccio indusse il figlio a guardarla:

   “Sii buono, caro tirati su, un’ora passa in fretta.”

   Bardi la guardò scuotendo leggermente la testa come a dire che  il tempo non aveva importanza. La madre s’inginocchiò, guardò il figlio negli occhi, gli accarezzò la mano:

   “Su non fare così, il signor Emilio è gentile, ma tu devi fare lo stesso, c’è Niccolò che ti aspetta.”

   Andrea chiamava affettuosamente il suo violino come il grande compositore Paganini.  Il giovane si alzò a fatica sorretto dal maestro e da Donna Lucia:

  “Vieni caro dopo avrai il tuo premio.”

   A queste parole lo sguardo di Andrea s’illuminò e sembrò dargli vigore.

   Bardi posò la custodia del violino sul divano e ne estrasse lo strumento con cura, non era certo uno Stradivari, ma il suo “lavoro” di strumento da studio lo eseguiva degnamente.

   Andrea lo prese delicatamente dal manico e lo portò al collo stringendolo con forza.

  “No caro non così, più delicatamente.”

   La madre seguiva il figlio per tutto il tempo delle lezioni e assisteva il professore nell’es-pletamento delle sue funzioni.

   Il giovane autistico era migliorato da quando la famiglia si era trasferita al nord, ma nonostante i progressi sarebbe rimasto così per sempre, per Donna Lucia era motivo di grande sconforto e ragione di vita.

   La lezione proseguì con pazienza per oltre un’ora, insegnare a suonare a un giovane così menomato era un’impresa considerevole, ma Bardi lo faceva con affetto e abnegazione.

   La luce cominciò a calare, il professore guardò il grande orologio che campeggiava sul camino e controllò la corrispondenza dell’ora col suo:

   “Bene! Pensò, sono perfetti!”

   Non c’è da meravigliarsi! Quella che poteva sembrare un’attenzione maniacale derivava dall’abitudine inveterata di chi ha seguito lo scandire di un metronomo per tutta la vita: tutto deve seguire rigorosamente a tempo! Non parliamo poi di un professore d’orchestra!

   Bardi accarezzò Andrea:

   “Per oggi abbiamo finito dobbiamo riporre Niccolò.”

   Così facendo, tolse con delicatezza il violino dalle mani del giovane, che guardando fuori dalla finestra, osservava il blu del crepuscolo e l’accendersi dei lampioni:

   “La .. la mu… musica è am.. am..amore!”

   Il professore, nell’udire quelle parole ingenue e sincere, ma di grande verità, rimase talmente colpito da rimanere con le braccia sospese mentre reggeva violino e l’archetto, la madre poco distante si portò le mani al volto commossa, l’emozione colmò i loro cuori e gli occhi si riempirono di lacrime.

   Sapevano entrambi che non avrebbe mai suonato un brano, ma per loro era una missione. Era stato lo stesso Andrea a chiedere d’imparare a suonare uno strumento così difficile, la madre, nella speranza di recuperarlo da una sconosciuta dimensione, l’aveva assecondato.

   Donna Lucia, asciugandosi il volto, lo prese dolcemente per un braccio:

   “Vieni adesso c’è il tuo premio, venga anche lei maestro.”

   Dopo un anno di conoscenza, i rapporti tra i due, erano rimasti molto formali basati sul reciproco rispetto, ma ingabbiati da un’educazione che non concede deroghe.

   Bardi annuì e si sedettero tutti e tre sul divano, da perfetta padrona di casa, Lucia alzò il campanellino e lo scosse, subito comparve sulla soglia Esmeralda:

   “La signora ha chiamato?”

   “Sì cara, ci puoi portare il tè e i pasticcini?”

   “Subito signora.”

   Anche con la collaboratrice domestica i rapporti erano distaccati, come si conviene nelle famiglie “bene“, ma dopo venti anni di servizio, Donna Lucia la considerava facente parte della famiglia e provava un profondo affetto per quella donna che, lontana dal suo paese d’origine, non aveva più nessuno.

  A volte, nella vita, si creano rapporti tra le persone di leggero distacco, il mutuo rispetto, produce nel tempo un equilibrio costante e armonico.

   Comparve Esmeralda spingendo un grazioso carrellino, sembrava che in quella casa tutto fosse stato acquistato da una giunta di esperti: tutto in ordine, niente fuori posto.     

   I vassoi furono posti con cura sul tavolino fra le poltrone e il camino acceso, il servizio da tè era di squisita porcellana, tramandato da madre in figlia, di generazione in generazione.

   “Guarda Andrea che biscotti fantastici ti ha preparato la mamma, sono molto buoni è una nuova ricetta, sono al burro, proprio come piacciono a te e guarda che forme hanno!”

   Il figlio allungò la mano e li ispezionò uno per uno, Donna Lucia li aveva plasmati facendoli assomigliare a strumenti musicali e chiave di violino.

   Andrea era rapito dall’assoluta novità, ma sopraffatto dalla stanchezza, la madre fece tintinnare nuovamente il campanello e subito Esmeralda comparve d’incanto. 

   “Cara puoi accompagnare Andrea nella sua stanza? E’ molto stanco.”

   “Subito signora, vieni tesoro andiamo a cambiarci.”

   Nonostante i suoi sedici anni, il giovane era avvolto da un affetto che normalmente viene riservato ai bambini, il giorno era scandito dalle attenzioni che le due donne gli riservavano

con amore.

   Bardi approfittò del momento propizio per parlare di un tema delicato che da tempo gli tormentava il cuore, guardò Donna Lucia e stropicciandosi le mani sudate, esordì:

   “Mi perdoni, ma le vorrei parlare di un argomento delicato, molto delicato.”

Non le nascondo che sono in imbarazzo, è un po’ che gliene voglio parlare, ma non ne ho mai avuto il coraggio.”

   Donna Lucia lo interruppe delicatamente, piegò leggermente il capo e a voce bassa: ”E’ forse per il suo onorario?” 

   “No, no, non è per questo“ Si affrettò a rispondere il professore agitando le mani dinanzi a sé. “ Vede“ proseguì sommessamente, “come lei sa, sono vedovo da tanti anni e mio figlio ha trovato lavoro all’estero, ho degli impegni con l’orchestra, ma la mia vita è priva di affetti e difficilmente riesco a conversare con altre persone, sembra che agli altri non interessino i rapporti umani e tanto meno l’amicizia, questo è un mondo superficiale dove conta solo l’apparire e si rifugge l’essere, non le nascondo che a volte non mi ci ritrovo più. Non si pretendono discorsi pesanti e intellettuali, ma non si esprimono più i sentimenti, i dialoghi sono fugaci convenevoli, l’esigenza di coprire i punti sensibili rende i rapporti umani effimeri, si prova quasi vergogna ad apparire per quello che si è in realtà.

   Nel frattempo Donna Lucia osservava il professore con leggera sorpresa e curiosità, quel dialogo, così aperto, era completamente al di fuori dei canoni e dell’etichetta che si erano instaurati e silenziosamente accettati.

   “ Vorrei chiederle”, proseguì il professore, raccogliendo tutto il suo coraggio, “se posso frequentare Andrea al di fuori degli orari di lezione, mi sono affezionato a lui e se posso,

vorrei fare qualcosa di più importante, parlargli, fargli compagnia, anche solo un’ora alla settimana non voglio fare l’invadente, ma questo darebbe di nuovo un senso alla mia vita, so che le sto chiedendo molto, ma per me sarebbe importante, forse potrei esserle anche di aiuto.“

   Bardi, aveva abbandonato il suo rigore a vantaggio del suo desiderio umano. Estrasse il fazzoletto e si asciugò il sudore come se avesse fatto le scale di corsa, aveva superato la sua discrezione entrando in una situazione molto delicata e rischiava d’incrinare il suo rapporto squisitamente lavorativo, inserendo note personali.

   Aveva fatto leva su se stesso e si era imposto di esprimersi così, quel discorso se l’era ripetuto tante volte nella solitudine della sua casa e riteneva la sua situazione ormai insostenibile: aveva bisogno di calore umano e di sentirsi veramente utile per qualcuno.

   La solitudine induce a questo e non guarda in faccia nessuno!

   Donna Lucia aveva ascoltato le parole, osservato le espressioni, vide il maestro come fosse la prima volta, lo reputò persona profondamente umana, provata come tutti, dalla piaga della solitudine, sentimento peraltro, che lei conosceva benissimo e sapeva cosa significava parlare in isolamento con se stessi, a volte a voce alta, come matti relegati in un mondo indifferente. Cercava dentro di lei un interlocutore invisibile pronto ad ascoltarla e consigliarla perché perfettamente in sintonia con i suoi pensieri. L’educazione rigorosa le impediva di condividere con altri il proprio dolore, le terribili incertezze, la sofferenza del dover apparire forti al culmine della fragilità, ma argomenti tristi e delicati sono estromessi dall’interesse altrui. Quante volte avrebbe voluto confidarsi per alleviare la pena di avere un figlio “diverso.”

  Donna Lucia tornò al presente, aveva apprezzato con attenzione ogni parola dell’impacciato maestro, che spogliandosi faticosamente del suo ruolo, ne aveva assunto a fatica, uno completamente diverso, ne dedusse che aveva di fronte una sua copia al maschile: una nobile del sud e un maestro di musica del nord accumunati dallo stesso destino.

   Sospirando con mani giunte, Donna Lucia abbassò il capo in cerca d’ispirazione:

   “Professore, quello che ha detto mi ha colpito nel profondo, ne sono commossa, la reputo persona degna di rispetto e comprendo il suo stato d’animo, per certi versi, questo convincimento si sovrappone al mio, ma le chiedo, prima di risponderle, di lasciarmi tempo per considerare la sua proposta.”

   “Ma per carità comprendo benissimo, ci mancherebbe e mi perdoni se mi sono permesso, non vorrei averla offesa in alcun modo. ”

   “Non c’è nulla da perdonare, anzi, le sono grata, ma non sono avvezza a queste confidenze, mi lasci qualche giorno per pensare, lei capisce, ne devo parlare con Andrea, le farò sapere.”

   “Donna Lucia è più di quanto potessi sperare.”

   I giorni passarono interminabili, non giunse alcuna notizia: “Forse ho azzardato troppo, forse avrei dovuto aspettare, ma mi è venuto di getto, che stupido! A volte non mi so controllare, non vorrei perdere questo lavoro, mi sta così a cuore….”.

   Una mattina, mentre Bardi era intento a radersi di fronte allo specchio, rimuginava nuovamente sul suo comportamento, pensieri foschi gli affollavano la mente, rimbalzavano nel suo cervello come scimmie inquiete, lo tormentavano al punto da renderlo insicuro.

   “Non posso più aspettare! Farò la figura del maleducato, ma devo assolutamente sapere

che futuro mi aspetta.” Uscì dal bagno con mezza faccia rasata e si diresse con decisione verso il telefono, cercò il numero e mentre stava agguantando la cornetta, il telefono squillò, rispose quasi stizzito per essere stato distolto dal suo intento: ”Sì?” rispose seccato.

   Gli rispose una voce calma e aggraziata: “Maestro è lei?”

“Sì, sì, sono io, Donna Lucia che piacere, attendevo la sua chiamata e….?”

   Donna Lucia lo interruppe: “sarebbe libero oggi pomeriggio alle cinque?”

   “Sì, penso di sì, perché? Mi può accennare il motivo…  ”

   “Lei sa che non parlo mai al telefono di cose private e delicate, ci vediamo alle diciassette.”

   “Ci sarò senz’altro, grazie infinite.”

   Alle diciassette precise, Bardi, più inquieto che mai, premette il pulsante del citofono, salì le scale agitato, era preoccupato, tutta quella segretezza: ”Capisco il rigore, la serietà, ma qui ci si mangia il fegato, bastava un cenno e non mi sarei macerato per giorni e….” Si spalancò la porta e senza preamboli mise il cappotto in mano a Esmeralda, percorse il corridoio e ottemperò al rito del baciamano, ma prima che aprisse bocca, Donna Lucia lo precedette con il solito gesto educato e invitante: ”Maestro gradisce un tè?”

   “Molto volentieri, grazie.”

Bardi respirò profondamente, voleva apparire assolutamente calmo anche dentro di sé si agitava un marasma indescrivibile, ma lo sguardo tranquillo e rasserenante di Donna Lucia

lasciavano ben sperare.

   Il maestro era un uomo compassato, ma tutta questa etichetta gli parve eccessiva, sembrava di essere a Buckingham Palace.

   Bardi si sedette davanti al camino con le mani giunte in mezzo alle ginocchia e si fece ipnotizzare dalle fiamme giallo-arancio che scoppiettavano allegramente, i suoi pensieri furono interrotti da Esmeralda che depose sul tavolino un vassoio colmo di pasticcini fatti in casa, gli venne posta dinanzi la tazza finemente lavorata: “Si serva pure maestro” disse con tono velato Donna Lucia.

Gli si sedette davanti versandosi il tè: “Dunque, veniamo a noi, ho soppesato la sua richiesta, è inutile mentire, ci ho pensato molto, ne ho parlato con Andrea e abbiamo deciso che …” si concesse una pausa portandosi la chicchera alle labbra, bevve un goccio; Bardi era al massimo della tensione “dicevo che ci farebbe molto piacere averla qui, Andrea le è molto

affezionato e ha detto immediatamente sì, lo si può capire, sarà anche stanco di dover condividere il suo tempo con due donne, sicuramente ha bisogno di avere intorno

una figura maschile” Donna Lucia alzò lo sguardo fino a incrociare quello di Bardi:

“Le sono molto grata, sono sicura che a tutti noi farà bene respirare un’aria diversa, grazie. Dimenticavo, pensi che Andrea mi ha chiesto se poteva venire addirittura tutti i giorni, glielo accenno perché sicuramente glielo chiederà, ma cosa vuole, non capisce che ognuno di noi ha i suoi impegni. Un’altra cosa, sicuramente dovrà sostenere spese aggiuntive, quindi mi dica pure …”

   Questa volta fu Bardi a interrompere Donna Lucia: “Assolutamente, il mio sarà un grande

piacere, lei non sa quanto, sincerità per sincerità, dedicarmi ad Andrea è quello che desidero di più, se per lei va bene, oltre al giorno della lezione, potrei venire anche al sabato, sa abbiamo le prove d’orchestra, ma in un prossimo futuro…”

   “Va benissimo così” disse Donna Lucia alzandosi e porgendo la mano a Bardi il breve colloquio era finito.

   Esmeralda, dopo aver salutato educatamente, chiuse la porta alle spalle del professore,

Bardi scese le scale a quattro a quattro come faceva da ragazzo, era sollevato e felice, aprì il portone e allargando le braccia respirò l’aria della sera.

Passarono settimane da quel giorno, l’inverno aveva lasciato il posto alla primavera e in quel parco ricco di verde, tutti sapevano che, rigorosamente alle ore 16:00, tutti i giorni, tre figure dall’incedere lento ma sereno, sarebbero apparse in fondo al viale.

La musica di Luigi Palombi

Gentilissimi, 

il 28 Dicembre avrò “un anno di più”: quale occasione migliore per farmi gli auguri il giorno dopo (ringiovanendomi di 24 ore) presso l’ auditorium di Radio Popolare giovedì 29 Dicembre alle h.21.00 ? eseguirò in diretta sulle frequenze di Radio Popolare la Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven nella trascrizione “storica” per pianoforte solo di Franz Liszt. Finalmente posso permettermi di fare un regalo che accarezzavo da tempo: eseguire “la Nona” per la fine dell’ anno come segno benaugurante per il futuro.
La diretta radiofonica potrete seguirla dal link: https://www.radiopopolare.it/ascolta-la-diretta/ , ora il regalo dovete farmelo Voi: si potrà partecipare al concerto che si terrà nell’ Auditorium Demetrio Stratos (via Ollearo 5, Milano) accanto alla sede della radio, basterà prenotarsi inviando una mail a prenotazioni@radiopopolare.it o telefonando, dal lunedì al venerdì, allo 02 39241409 tra le 8.00 e le 18.00.
Che dite? ci venite? loro già lo sanno: 
 
Vi ringrazio come sempre per la preziosa attenzione, a presto!
 
Un caro saluto
 
Luigi Palombi
 
 
♦•♦•♦•♦•♦
 
 
Gentilissimi, 

 
da ieri trovate su Panorama.it la storia riguardante l’ inedito di Igor Stravinsky presente nel mio cd Piano Conversations, ecco il link:
 
 
Vi ringrazio come sempre per tutto, buona lettura!
 
Un caro saluto
 
Luigi Palombi
 
 
 
♦•♦•♦•♦•♦
 
 
 
Gentilissimi, 

il mese di Giugno si è appena concluso ma ha lasciato due “nuove”: le “quattro stelle” al cd Igor Stravinsky – Piano Conversations nella recensione comparsa sul numero di Giugno di Musica e l’ intervista per Radio Toscana Classica all’ interno della rubrica Cronache musicali con tre pezzi selezionati; potrete confrontare i pareri sulla versione pianistica di Apollon musagète…Vi ringrazio come sempre per tutto,buona lettura e buon ascolto!
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Gentilissimi, 

in attesa di rivederVi domani pomeriggio per Piano City Milano (dettagli qui: https://www.pianocitymilano.it/concerto/3277/ ) con il programma Love/Desire: Bruckner/Wagner
Vi segnalo una bella sorpresa: è finalmente uscito il numero di Maggio della rivista musicale Classic Voice con il mio cd download dedicato alle pagine pianistiche di Max Reger (1873 – 1916), quasi un diario del compositore tardo-romantico che condivise il tempo di Richard Strauss e di Claude Debussy e che “avrebbe voluto” compiere il passo decisivo verso la crisi del linguaggio tradizionale: c’è anche l’ aneddoto dell’ incontro con Richard Strauss che disse…ma non posso raccontarvi tutto! maggiori dettagli sulle rubriche della rivista li trovate qui (il codice per scaricare il cd è all’ interno della rivista, ergo va acquistata) 
 
 
Oltre all’ articolo scritto per la rivista con le ragioni della scelta di questo repertorio (la produzione pianistica di Reger è molto vasta) il cd “fisico” in allegato contiene la Nona Sinfonia di Gustav Mahler diretta da Ivàn Fischer: lo sapevate che l’ ultimo movimento (Adagio) oltre ad essere un omaggio alla cantabilità degli adagi di Anton Bruckner (e domani potrete sentire in concerto l’ Adagio dall’ Ottava Sinfonia) è stato la fonte di ispirazione “armonica” di Almeno tu nell’ universo (1989)? provate a cantare sottovoce 
l’ incipit: “Sai, la gente è strana/ prima si odia e poi si ama…” 
Perciò: acquistate Classic Voice di Maggio! 
Una cosa: ma il cd di Stravinsky Piano Conversations? si parla anche di quello nella rivista ma Stravinsky non vedeva di buon occhio Reger, quindi gli aggiornamenti sugli articoli dedicati cd cd edito dalla Dynamic li troverete discretamente in allegato (da Repubblica a Il Piccolo, Brescia oggi etc.), penseremo anche a lui prossimamente…
Vi ringrazio come sempre della pazienza e dell’ attenzione, a presto!
 
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Gentilissimi, 

volevo segnalarVi due concerti che farò nelle prossime settimane, sarei molto contento della Vostra presenza:

il primo è per la manifestazione di Piano City e si terrà domenica 22 maggio alle h. 17.00 presso la Fondazione Pasquale Battista (via Giuseppe Pozzone 5, M1 Cairoli), il recital si intitola Love/Desire – Bruckner/Wagner , i dettagli e il fil rouge del programma sono al link seguente, ingresso libero:
 
 
il secondo si terrà presso l’ Unione Femminile Nazionale (Corso di P.ta Nuova 32) mercoledì 25 maggio alle h. 18.00, ingresso libero, il titolo del concerto è  “L’anima, la danza, la libertà. Un concerto per la pace” , qui mi esibirò su un fortepiano restaurato, ecco il programma: 
 
L. van Beethoven                               La Consacrazione della Casa, ouverture op. 124
(1770 – 1827)                                      (trascr. per pnf. di C. Czerny)
 
M. Clementi                                         Valzer op. 38 n. 11
(1752 – 1832) 
 
G. Rossini                                           – Danse Sibérienne
(1792 – 1868)                                      –  A ma chère Nini (Les Noisettes)
                                                            – Valse Boiteuse      
 
F. Chopin                                              Preludio op. 45
(1810 – 1849) 
 
L. van Beethoven                                 Nona Sinfonia in re min. op. 125,
                                                             IV movimento: Presto – Allegro assai
                                                             (trascr. per pnf. solo di F. Liszt)
 
 
 
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Gentilissimi, 

nel caso Vi inoltriate nella lettura de La Repubblica di oggi (sabato 9 Aprile) troverete un po’ di dettagli riguardo la storia della prima traccia inedita del cd Piano Conversations su Igor Stravinsky (Dynamic) qui sotto una foto dell’ articolo:
ormai manca poco all’ uscita ufficiale (15 Aprile)…Vi ringrazio come sempre dell’ attenzione, buon weekend e a presto!
Un caro saluto
Luigi Palombi
 
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Ho il piacere di invitarVi all’ incontro “chiave” del nostro corso Arte – Musica tenuto al Circolo Filologico di Milano (via Clerici 10, MM Cordusio) in cui esamineremo i parallelismi tra 
l’ arte pittorica di Pablo Picasso e l’ arte musicale di Igor Stravinsky, due “geni” che hanno inevitabilmente influenzato con le loro lunghe carriere i movimenti artistici del Novecento.
Vi aspetto tutti martedì 22 marzo alle h. 18.30, in allegato troverete la locandina. Vi ringrazio come sempre della preziosa attenzione.
Un caro saluto
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♦•♦•♦•♦•♦

 

“Due autori, Anton Bruckner (1824 – 1896) e Richard Wagner (1813 –1883), due personalità differenti eppure associate in sede di concerto e nel mercato discografico. Il pianista Luigi Palombi attraversa in questo recital pagine rare della loro non vasta produzione pianistica, trascrizioni da concerto di movimenti sinfonici e parafrasi operistiche.

Cade in errore chi pensa pregiudizialmente di trovarsi una musica da ascoltare “con la testa tra le mani”, il recital è dedicato a tutti coloro che desiderano tornare semplicemente ad emozionarsi dopo l’ inverno dei sentimenti di questi due anni, senza bisogno di intermediazioni e discorsi “tra virgolette”.

 

la durata del recital sarà di un’ ora circa, il link del MaMu è https://magazzinomusica.it/index.php/eventi-in-programma/1028-love-desire-il-pianoforte-di-bruckner-e-wagner; dove si troverà anche   il form per prenotarsi, ma con adesione  direttamente al maestro (palombi.luigi@gmail.com) come “suoi amici” si potrà intervenire all’evento con un biglietto di soli 5 € (quota d’ iscrizione destinata all’ associazione del Magazzino Musica)

 

♦•♦•♦•♦•♦

 

 

TORNIAMO A CANTARE
CONCERTO DI SANTA CECILIA
Chiesa Parrocchiale San Biagio – Monza

 

 

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“Fake Bach”

E’appurato che in estate si ha più tempo nel riordinare i pensieri e le cose, e in questo flusso di notizie vere/false/verosimili si parla nuovamente di “Fake Bach” (Dynamic 2021): troverete in allegato la recensione comparsa sul numero di Musica di Luglio – Agosto con chiusa finale sul “tradimento inammissibile” nei confronti del “sommo Bach”.

Sempre in allegato troverete la recensione in breve comparsa sul BBC Music Magazine di Maggio dove si coglie subito l’ idea del suono “magniloquente” che potete immediatamente verificare all’ ascolto recuperando la doppia trascrizione del Concerto in la min. di Bach – Vivaldi fatta da August Stradal e selezionata nella rubrica Le Bach du dimanche del 28 Febbraio 2021 per France Musique, ecco il link (dal min. 7 circa):

https://www.francemusique.fr/emissions/le-bach-du-dimanche/le-bach-du-dimanche-28-fevrier-2021-92289

Se oltre all’ approccio “magniloquente” cercate il suono carezzevole e “scandalosamente” sensuale lo trovate nel Largo di Bach trascritto da Camille Saint -Saens e presentato nella rubrica Primo Movimento di Radio 3 Rai trasmessa ieri, 26 Agosto (dal min. 14′ 50”):

https://www.raiplayradio.it/audio/2021/08/PRIMO-MOVIMENTO-7b3ee63d-bc5d-4b5b-85c4-b5f10a7d0b1c.html

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Invito all’ ascolto di Beethoven

Una felice sorpresa dell’ ultim’ora: per la presentazione del libro di Guido Giannuzzi Invito all’ ascolto di Beethoven (Mursia, 2020) presso il Magazzino Musica (via Francesco Soave 3, Milano) venerdì 25 giugno alle h.19.00, oltre alla presenza del direttore d’ orchestra Roberto Abbado interverrò musicalmente con alcuni movimenti della Sinfonia n. 6 op.68 “Pastorale” nella trascrizione storica per pianoforte di Johann Nepomuk Hummel (1778-1837), compositore – “collega” contemporaneo del “Genio di Bonn”.

Ingresso libero con prenotazione obbligatoria al seguente form, ecco il link: https://forms.gle/AZzxvnExvH3fM7e16

Vi ringrazio molto dell’ attenzione e a presto.

 

 

♦•♦•♦•♦•♦

 

 

nell’ augurare una Buona Pasqua

Vi informo che martedì 6 aprile alle h. 19.00 presso il Magazzino Musica – MaMu (via Francesco Soave 3, Milano) si terrà in diretta streaming sul  canale

https://www.youtube.com/channel/UCH1omrnAAanYdCVvJui2F-Q il “focus” parlato e suonato Dialoghi per Stravinsky – A 50 anni dal giorno della scomparsa (6 aprile 1971) dove interverrò con la musicologa Valentina Bensi (Ludwig-Maximilians-Universität München), riporto il link del MaMu con maggiori informazioni:

https://magazzinomusica.it/index.php/eventi-in-programma/922-dialoghi-per-igor-stravinsky-con-l-palombi-e-v-bensi

 

 

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Trascrizione d’autore di Liszt …

Per chi volesse approfondire sulla “trascrizione d’ autore” di Franz Liszt della Nona Sinfonia di Ludwig van Beethoven e per ricordare la bella serata in Sala della Cultura a Vedano al Lambro troverete in allegato il mio intervento – parlato e suonato – per il programma “Rotoclassica” di Radio Popolare. 

Gli estratti pianistici del II e IV movimento e l’ intero III movimento provengono da quella “serata magica”…

Le rubriche di Lucia Perfetti

Ma cos’è l’Arteterapia? Quando è nata?
 
Arte e Terapia sono due fenomeni culturali distinti.
L’Arteterapia è una disciplina che utilizza i materiali e le tecniche dell’Arte e consente alla persona di esprimersi ed elaborare i propri vissuti interiori senza giudizio esterno attraverso l’attivazione della libera espressione artistica.
L’Arteterapia è un mezzo di sostegno dell’io e si avvale del linguaggio simbolico di forme e colori.
L’Arte terapia è nata nel secondo dopoguerra quando la necessità era di curare i soldati rimasti traumatizzati dalle brutture vissute in guerra alle quali non riuscivano più a dare un nome, un significato, un suono.
Solo l’uso dei colori e dei segni li aveva poi portati a riconquistare la realtà del qui e ora, a dare un senso, un nome alle cose.
Attraverso i colori e i segni, potevano raccontare gli orrori che avevano vissuto e che non riuscivano a urlare al mondo intero, se non attraverso le loro tracce, fatte di ricordi e sangue. Così il rosso poteva diventare un tramonto. Un segno, una porta da dove poter uscire. Un giallo, un sole, dove poter intravedere la luce.
Oggi l’Arteterapia è una professione non ancora storicizzata.
L’Arte del XXI suscita per le diverse espressioni non verbali uno studio particolare. Di questi tempi si sono succeduti e trasformati, con grande rapidità, molti più avvenimenti che in qualsiasi epoca precedente. Si sono verificati diversi mutamenti nella stessa espressione artistica dovuti a una Società in continua trasformazione di mode e di ideali.
In Italia, alla fine degli anni ’70 e agli inizi degli anni ’80, sono nati molti laboratori che hanno conquistato dignità e visibilità, incoraggiando gli operatori a divenire professionisti specializzati in un’attività svolta più in strutture private che pubbliche ma dalla fine degli anni ’90 l’arteterapia è stata riconosciuta nelle Strutture sanitarie pubbliche come attività riabilitativa vera e propria.
L’ esperienza personale mi ha portato a verificare come la libera espressione artistica possa dare al singolo gioia, libertà, presenza nel Qui e Ora, donando libertà di Essere, indipendentemente dallo stato psicofisico della persona.
Solitamente le persone che decidono di partecipare a un ciclo di laboratori di Arteterapia sono incuriosite, non sanno bene cosa succederà, poi, via via, si appassionano agli incontri, si mettono all’ascolto della propria traccia, degli altri, scoprono, attraverso il silenzio, i segni che gli appartengono, la possibilità di dialogare liberamente e darsi riposte in un ambito protetto, senza essere giudicate
Quando si decanta un segno, all’interno del Laboratorio, lo stato catartico che si crea nel lasciare la traccia, è un momento, Oltre, un Nirvana del tutto personale, riservato alla bellezza dell’Essere stesso.
E’ qui che nasce il Segno. Dal vero Sé. Dall’accettazione del proprio stato, dall’ascolto e dal coraggio di lasciare una traccia che arriva direttamente dal cuore. Nell’Arteterapia non esiste il bello o il brutto.
Gli incontri non servono per imparare a disegnare ma sono momenti per sostare a pensare, per comprendere dove si è, poter prendere coscienza e scegliere la propria rotta attraverso il Processo Creativo. Nei percorsi di arteterapia di gruppo si diventa “complici” e affiatati. Ogni singolo partecipante apporta al gruppo un contenuto inedito e prezioso da condividere.
Nel laboratorio di libera espressione artistica, il partecipante meno propenso al disegno sarà più spontaneo di un Artista che ha già strutturato un suo stile e un suo segno. Nulla vieta di organizzare un laboratorio con persone di età, interessi, sesso, professione, origini, differenti.
Ognuno porterà la propria storia e il suo personalissimo rapporto con i colori, le tecniche e lo spazio del foglio.
Nell’Arteterapia non sono contemplate esposizioni. Gli elaborati appartengono al singolo partecipante. A prescindere che l’importante è il processo, è a scelta di chi ha prodotto l’opera, decidere cosa farne del proprio elaborato, a meno che, all’inizio degli incontri, non si decida di fare una mostra perché parte dell’accordo terapeutico iniziale.
La mostra stessa può essere l’obiettivo del percorso, ma sarà sempre l’autore dell’opera a decidere se esporre o no. I disegni sono paragonati a cartelle cliniche.
 
 
 
 
 
 

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Ma cos’è l’Arteterapia? Quando è nata?

L’Arte terapia è nata nel secondo dopoguerra.
La necessità era di curare i soldati rimasti traumatizzati dalle brutture vissute in guerra alle quali non riuscivano più a dare un nome, un significato, un suono.
Solo l’uso dei colori e dei segni li aveva poi portati a riconquistare la realtà del qui e ora, a dare un senso, un nome alle cose.

Attraverso i colori e i segni, potevano raccontare gli orrori che avevano vissuto in guerra, e che non riuscivano a urlare al mondo intero, se non attraverso le loro tracce, fatte di ricordi e sangue.
Così il rosso poteva diventare un tramonto.
Un segno, una porta da dove poter uscire.

Un giallo, un sole, dove poter intravedere la luce.
I Love Arteterapia, da sempre. 

L’Arteterapia l’ho trovata un pomeriggio di autunno, nel lontano 1995.
Stavo tenendo un laboratorio artistico presso la UILDM di Monza con il Maestro Andrea Sala.
Mi è arrivata la scintilla, ho pensato che l’Arte avrebbe potuto salvare quei ragazzi!!
Così è iniziato il mio viaggio nell’Arte come Terapia, che non si è più fermato, e ringrazio quella Scintilla che mi ha aperto un Universo e permesso di conoscere tante bellissime Persone.
Il mio Viaggio nell’Arteterapia dura da ventisei anni, ed è appena iniziato. 

 

SULLA PAZIENZA 
“Bisogna, alle cose, lasciare la propria quieta, indisturbata evoluzione che viene dal loro interno e che da niente può essere forzata o accelerata.
Tutto è: portare a compimento la gestazione – e poi dare alla luce…
Maturare come un albero che non forza i suoi succhi e tranquillo se ne sta nelle tempeste di primavera, e non teme che non possa arrivare l’estate.
Eccome se arriva!
Ma arriva soltanto per chi è paziente e vive come se davanti avesse l’eternità, spensierato, tranquillo e aperto…
Bisogna avere pazienza verso le irresolutezze del cuore e cercare di amare le domande stesse come stanze chiuse a chiave e come libri che sono scritti in una lingua che proprio non sappiamo.
Si tratta di vivere ogni cosa.
Quando si vivono le domande, forse, piano piano, si finisce, senza accorgersene, col vivere dentro alle risposte celate in un giorno che non sappiamo”.
Rainer Maria Rilke

Le rubriche di Claudio Pollastri

Presentazione al corso sul giornalismo organizzato da ACU del nuovo romanzo di Federika Brivio sui trapianti in collaborazione con AIDO Brugherio

La forza della vita e il coraggio della donazione hanno coinvolto emotivamente il pubblico nell’incontro di sabato 28 gennaio alla Clerici Academy organizzato da Acu. L’occasione è stata la presentazione del nuovo romanzo “84 cm² di Noi” dell’attrice e scrittrice Federika Brivio ospite del Corso sul giornalismo tenuto da Claudio Pollastri. La figlia di quel Roberto Brivio fondatore dei Gufi che faceva “el mesté de fa ridd la gent“ ha spiegato con commovente lucidità il motivo profondamente personale che l’ha spinta a raccontare questa storia allo stesso tempo romantica e struggente dove due giovani Luca e Ludovica detta Ludo si trovano ad affrontare il problema del trapianto di un organo (il titolo si riferisce alla dimensione media di un rene).

“Dietro un storia di fantasia c’è una storia vera, la mia”, ha rivelato Federika che, nonostante la capacità di fingere da brava attrice qual è non  è riuscita a mascherare l’emozione di rivelare che si tratta della propria esperienza personale di donatrice di un rene al marito Massimiliano. “Questo libro vuole essere un messaggio diretto ai lettori di tutte le età, in particolare ai giovani per sensibilizzarli alla donazione di organi, a essere consapevoli che l’assenso a questo piccolo grande gesto cambia l’esistenza di tantissime persone. Non si deve necessariamente arrivare a compiere una scelta estrema e profondamente sofferta come la mia. Una decisione forte con momenti difficili che sono riuscita a superare grazie alla preghiera”.

”Solo l’amore con la A maiuscola può portare a un gesto di grande altruismo come quello di mia moglie – ha spiegato con la voce segnata da una commozione così intensa da bloccargli a tratti la parola Massimiliano Tarasconi, avvocato e testimonial della compagna a favore dei trapianti – un atto che mi ha salvato la vita e che ci ha uniti in un legame spirituale e umano che durerà per sempre. E’ il motivo che mi spinge a intervenire con una partecipazione speciale a questi incontri che promuovono il libro ma servono soprattutto a sensibilizzare la gente ad avere il coraggio di un gesto di intensa generosità verso il prossimo”.

L’incontro ha evidenziato il problema delle donazioni in Italia (11.500.000 nel 2022 con una forte differenza tra Nord e Sud) fornendo anche alcune curiosità (l’organo più trapiantato è il fegato) e importanti chiarimenti su procedure che hanno riservato sconvolgenti sorprese. Come l’assenso al trapianto al momento di richiedere la carta d’identità. “Pochissimi sanno – ha spiegato Guerrina Frezzato, Vice Presidente del Gruppo AIDO di Brugherio – che se anche si dà il proprio consenso sulla carta d’identità  basta che un figlio o il coniuge si opponga perché il trapianto venga bloccato”.

Entrando nello specifico di Brugherio dove i consensi nel 2022 sono stati circa 4.000 di cui 1.700 iscrivendosi all’Aido, 2.200 all’anagrafe e il rimanente compilando un modello all’Asl. “I risultati della nostra città sono incoraggianti – ha commentato la Vice Presidente – ma si deve continuare a sensibilizzare la gente verso un gesto che può salvare una vita destinata altrimenti a spegnersi. Spesso si tratta di una questione culturale perciò si deve portare il più possibile il messaggio nelle scuole. Ma non basta. Sarebbe molto utile che fosse ammessa, come avviene in molte città limitrofe, la presenza di un nostro rappresentante all’anagrafe per  illustrare le iniziative Aido. L’informazione aiuta a capire e quindi a decidere per il meglio. E cosa c’è di meglio che salvare una vita?”.

NELLA FOTO:
CLAUDIO POLLASTRI, FEDERICA BRIVIO, GUERRINA FREZZATO (vice presidente AIDO) MASSIMILIANO TARASCONI, MAURIZIO FANTINI  (presidente ACU)

 

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Il “mio” Papa Emerito

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“S dnem rozhdeniya, Mikhail”. Come ogni anno invio gli auguri di Buon Compleanno a Gorbaciov. Che come ogni anno mi risponde. Quest’anno spegne, se ce la fa, 91 candeline. E’ nato a Privol’noe, Russia, il 2 marzo 1931. Leggo “Spasibo”, grazie, e penso “chissà se anche Putin gli avrà fatto gli auguri?”. E poi “chissà cosa pensa l’Uomo della Glasnost e della Perestrojka di quello che sta succedendo in questi giorni?”. E ancora “come mai nessuno glielo chiede?”.

Ricordo l’incontro con Gorbaciov a Milano il 1° dicembre 1989 assieme alla moglie Raissa. Sorridente, disponibile con i fotografi. Aveva la pacata consapevolezza di chi è conscio, senza ostentarlo, di avere scritto una pagina fondamentale di storia mondiale. Anche lo sguardo era trasparente con la fierezza russa di avere fatto qualcosa per il suo popolo.

Portato alla battuta, anche se sempre filtrata dal cupo umorismo del Don, non incuteva soggezione anche se, standogli a due passi, si percepiva la grandezza delle sue imprese. Ma non doveva dimostrare nulla. La storia, quella con la S maiuscola, parlava per lui.

Più di vent’anni dopo, il 26 aprile 2010, avevo incontrato Vladimir Putin ospite dell’allora Premier Silvio Berlusconi a Lesmo, nella settecentesca Villa Gernetto sede della nascente Università della Libertà, dove era stato invitato a tenere la prima lezione. Allora, dodici anni fa ma sembra un‘era geologica, i due uomini di Stato erano amici e non lo nascondevano.

Berlusconi lo salutava con pacche aperte sulle spalle e Putin rispondeva con un sorriso chiuso dei suoi, lui che non sa sorridere e al massimo fa una smorfia stiracchiata.

Stare a tu per tu con Vladimir Putin era come vederlo in televisione. Se poi pensavo che avevamo la stessa età (è nato a San Pietroburgo il 7 ottobre 1952) cadevo in depressione. Soprattutto quando proclamava “Io, qui, sono la Russia”.

E riflettevo “e io, qui, chi sono?”. E poi precisava a fior di labbra sottili e allungate “io e Berlusconi siamo amici ma in politica e negli affari non basta l’amicizia”. Tutto con la voce metallica che suscitava qualche brivido come lo sguardo impenetrabile azzurro-acciaio.

Poco disponibile con i fotografi, si concedeva solo ai flash accanto a Berlusconi che ricambiava con sorrisi abbaglianti. Ma nessuna posa con i giornalisti. Anche davanti alle battute spiritose del Cavaliere (forse per difetto di traduzione) lasciava intuire un certo distacco. Lo stesso che manteneva durante la conferenza-stampa, nemmeno dopo il caloroso applauso per avere partecipato alla ricostruzione di Palazzo Ardighelli e della chiesa di San Gregorio Magno distrutti dal terremoto dell’Aquila del 2009.

Quando gli era stato chiesto se avrebbe assistito alla Messa di inaugurazione della chiesa come aveva dichiarato il Premier, aveva risposto con un sorriso dei suoi, lui che non sa sorridere e al massimo fa una smorfia stiracchiata.

Putin con Berlusconi nel vertice del 2010

 

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Il dialogo del cuore: George Clooney

 

Per George Clooney la beneficenza è più che mai una questione di cuore “ho conosciuto mia moglie a un evento di solidarietà”.

Dopo il sì all’avvocatessa Amal Alamuddin la coppia si è dedicata a opere umanitarie. Due cuori e una fondazione, la Clooney Foundation for Justice “per combattere ogni sopruso”. Una nobilissima causa che merita un weekend in sua compagnia: infatti ha messo all’asta un soggiorno nella sua villa di Laglio sul Lago di Como con la premessa autoironica “ma attenzione, non sono granché come padrone di casa!”.

Lo è invece in fatto di generosità: 250.000 dollari a The Motion Picture and Television FundSag-Aftra Fund e Los Angeles Mayors Fund “per aiutare chi ha bisogno”. E ancora: 100.000 dollari per gli sfollati dopo l’esplosione del porto di Beirut “un dramma”. Altri 300.000 dollari alla Banca del Cibo Libanese “c’è ancora chi muore di fame”. Si muore anche di pandemia: 1 milione di dollari alle associazioni che si occupano del Covid-19 “anche ad alcuni ospedali della Lombardia, dove vivo”.

La stessa profonda sensibilità che l’aveva spinto a partecipare alla maratona televisiva Hope for Haiti per raccogliere 56,4 milioni di dollari “il popolo di Haiti aveva bisogno di noi”.

L’amicizia non ha prezzo per Clooney, anzi ce l’ha: esattamente 1 milione di dollari che ha regalato ai suoi 14 amici più stretti “mi hanno aiutato quando ero al verde”.

Un posto speciale è riservato ai più piccoli e indifesi: 3 milioni di dollari raccolti assieme a Unicef, Hewlett Packard e Google per 3.000 bambini siriani “potranno andare a scuola”.

E siccome il bene è diffusivo, anche i due figli della coppia, i gemelli Ella e Alexander si stanno dimostrando attenti al prossimo. “A Natale – ha spiegato l’attore – ciascuno mi ha offerto il suo giocattolo più bello da regalare a chi non ha niente”.

Nella generosità dei Clooney c’è un angolino anche per gli animali. La coppia, che ha due cocker e una trovatella, ha risposto subito al SOS dell’associazione Camp Cocker Rescue per salvare 9 cuccioli abbandonati in una discarica di Los Angeles “come resistere a tanta tenerezza?”.

Certe risposte arrivano solo dal cuore.

 

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Il dialogo del cuore: Gianni Morandi

Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri

Apri tutte le porte ha cantato Gianni Morandi al Festival di Sanremo conquistando il 3° posto (ha vinto la serata-cover con Jovanotti). Ed è anche il sentiment che lo ha sempre guidato “me l’ha insegnato mio padre, soprattutto verso gli amici”. Lo sa bene Pupo al quale aveva prestato senza garanzie 100.000 euro, restituiti dopo anni, “li consideravo ormai regalati”.


Con l’entusiasmo dell’eterno ragazzo ama mettersi in gioco. E lo fa dal 1981 con la Nazionale italiana cantanti “la vera partita è contro le ingiustizie”.

Da calciatore a cameriere. Grembiule bianco e sorriso d’ordinanza ha servito gli invisibili al Pranzo di Natale alle Cucine popolari di Bologna “ho capito cos’è l’amore per il prossimo”. E poi, a cento all’ora, verso Assisi per partecipare alla maratona organizzata dai frati francescani “per le famiglie in difficoltà a causa della pandemia”.”

La beneficenza può avere il gusto di un gelato. Gianni ha distribuito coni solidali in via Galleria a Bologna per sostenere Ail e Ant, due associazioni che combattono il cancro “erano tutti sorpresi”. Com’era sorpreso il pubblico di Napoli vedendolo all’improvviso al concerto per aiutare il poliziotto in coma Fabio Graziano “un’emozione particolare”.

Erano particolari anche le emozioni vissute alla maratona “Corri la vita” di  Firenze per sostenere le associazioni contro il tumore “un traguardo di speranza”. La stessa che ha sentito visitando il centro storico di Camerino dopo il terremoto “penso a chi ha dovuto abbandonare tutto”.

E poi ancora e ancora. Un elenco di gesti generosi più lungo dei suoi numerosissimi successi “basta che uno su mille ce la fa per continuare a sperare in un mondo d’amore.

Il giorno di Natale, Gianni Morandi lo ha trascorso a servire alle Cucine popolari di Bologna

La beneficenza può avere il gusto di un gelato. Gianni ha distribuito coni solidali in via Galleria a Bologna per sostenere Ail e Ant, due associazioni che combattono il cancro “erano tutti sorpresi”. Com’era sorpreso il pubblico di Napoli vedendolo all’improvviso al concerto per aiutare il poliziotto in coma Fabio Graziano “un’emozione particolare”.

Erano particolari anche le emozioni vissute alla maratona “Corri la vita” di  Firenze per sostenere le associazioni contro il tumore “un traguardo di speranza”. La stessa che ha sentito visitando il centro storico di Camerino dopo il terremoto “penso a chi ha dovuto abbandonare tutto”.

 

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Gianni Agnelli, l’avvocato che non sapeva amare

  Il 24 gennaio 2003 moriva a Torino, dov’era nato il 23 marzo 1921, Gianni Agnelli. Aveva quasi 83 anni. Se ne andava una figura unica nel panorama imprenditoriale, sportivo e culturale italiano. Era un’icona di stile e molti “vestivano alla Agnelli” imitandone il vezzo di indossare, per esempio, l’orologio sopra il polsino della camicia. Ma l’Avvocato, come veniva chiamato anche se non era mai entrato in un’aula di tribunale, occupava una posizione glamour anche nel jet-set internazionale con le frequentazioni mondane di personaggi come Kissinger e i Kennedy, soprattutto Jaqueline.

Molti hanno scritto e scriveranno su di lui, specialmente oggi. Senza annoiare troppo vorrei aggiungere un ricordo personale che mi aveva profondamente colpito anche se non riuscirò a ricreare quell’atmosfera a tratti surreale perché – come cantava Celentano – le emozioni non hanno voce.

Era un sabato pomeriggio della metà di dicembre del 2000. Una luce lattiginosa riverberata dai piccoli cristalli della neve dipingeva Torino in una luce più fredda del solito. In un teatro cittadino si celebrava la funzione laica del trigesimo della morte, rimasta sempre avvolta dal mistero, di Edoardo Agnelli avvenuta il 15 novembre dal viadotto Generale Franco Romano dell’autostrada Torino-Savona dalle parti di Fossano. Un volo di ottanta metri metteva la parola fine alla vita controversa del primogenito dell’Avvocato che aveva fallito i numerosi tentativi di prendere il comando dell’Impero di famiglia. Gli organizzatori di quell’incontro volevano ricordare la sensibilità frastagliata di Edoardo con la lettura delle sue poesie dove riversava il proprio disagio esistenziale con strofe che riuscivano a scorticare l’anima.

Per un giro intricato che non vi sto a spiegare avevo un posto in prima fila a poche poltrone di distanza dall’Avvocato. Che aveva promesso di presenziare senza però darne la certezza. “Forse non se la sentirà psicologicamente”, commentavano in modo preventivo gli organizzatori temendo una defezione che col passare dei minuti diventava quasi certa.

Ma ecco il colpo di scena com’era nello stile dell’Avvocato. Che due minuti prima dell’inizio era entrato da solo nel teatro ed era venuto diretto verso la poltrona che gli era stata riservata con andatura claudicante per i numerosi infortuni sciistici ma non sofferta per l’atmosfera della ricorrenza. Il volto scavato dalle rughe che tutti avevano imparato a conoscere dalle copertine dei magazine internazionali non sembrava tradire suggestioni particolari. L’espressione impenetrabile dietro una maschera di marmo era la stessa di quando l’avevo intervistato in due occasioni per la Fiat e la Juventus. Una sfinge. E di quella sfinge volevo scoprire le sfumature, le ombre, le lacrime che avrebbero avuto la forza di scendere.  Osservavo il viso dal profilo antico dell’Avvocato mentre nel teatro riecheggiavano i versi disperanti del figlio che si era da poco tuffato in un destino drammatico verso il quale si sentiva intimamente chiamato da tempo.

Le angosce, le speranze subito trasformate in delusioni, l’anelito estremo che Edoardo aveva affidato a quelle strofe struggenti denunciavano il bisogno urlato di aiuto, di mancanza di affetto, di astinenza patologica d’amore paterno che un pacchetto di azioni quotate in borsa non potevano sostituire perché la borsa dei sentimenti non ha prezzo o è talmente alto da pagarlo con la vita.

Nei venti minuti della lettura rivelatrice di una tragedia intimista rimasta inascoltata l’Avvocato era rimasto immobile, senza l’ombra di una partecipazione apparente, né il gesto spontaneo di asciugare una lacrima. Una rigidità esteriore che probabilmente mascherava una tempesta di rimpianti trasformati col tempo in rimorsi verso un figlio così diverso da come l’avrebbe voluto ma così determinato ad andarsene in agghiacciante solitudine rovinando sulle sponde sassose del fiume Stura di Demonte per non continuare una vita che non sentiva sua e che non era più disposto a barattare con l’ipocrisia delle apparenze.

Alla fine del viaggio pubblico nell’animo privato di Edoardo, l’Avvocato si era alzato e sul suo volto non leggevo la sofferenza di avere assistito al testamento morale e all’accusa personale di suo figlio verso un mondo soprattutto familiare che non si era sforzato di capirlo e accettarlo.

Adesso padre e figlio riposano l’uno di fronte all’altro nella monumentale cappella di famiglia del cimitero di Villar Perosa.

 

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Il Dialogo del cuore:
Roberto Benigni

Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri

D’oro non ha solo il Leone alla Carriera che stringe orgoglioso tra le mani. Ha il cuore. Magari velato per pudore dalla risata dissacrante di eterno giullare. Roberto Benigni ha voluto dedicare la prestigiosa statuetta ricevuta alla 78^ Edizione della Mostra del cinema di Venezia alla moglie Nicoletta Braschi “questo premio è tuo. Io mi prendo la coda, le ali sono le tue”. E poi, senza spegnere il sorriso rubato a Pinocchio, ha aggiunto un romantico crono-complimento conosco solo una maniera di misurare il tempo, con o senza di te”.

Roberto Benigni ha dedicato alla moglie Nicoletta Braschi il Leone d’Oro alla Carriera “questo premio è tuo. Io mi prendo la coda, le ali sono le tue…”.

Binomio indissolubile nel privato e sul set conclamato in mondovisione durante la premiazione del doppio Oscar del 1999 per LA VITA E’ BELLA mia moglie non è solo la mia musa, ma è una grandissima attrice, per questo la scelgo. Un grazie planetario per avergli ispirato il film che più di ogni altro conferma la profonda sensibilità verso la sofferenza dei bambini.

Un’intensa partecipazione emotiva che si concretizza nel volontariato silenzioso verso alcuni ospedali pediatrici come l’istituto Meyer di Firenze “la vera beneficenza è silenziosa” o Villa Ognisanti dove da vero comico aveva salito gattoni la scalinata per strappare un tenue sorriso ai baby-pazienti “sono venuto per una visita”.

Visita simbolica ma con la donazione concreta di un manoscritto originale per contribuire all’asta benefica Batti un colpo se ci sei a favore della clinica pediatrica De Marchi di Milano organizzata dalla onlus Amici del bambino malato che sostiene l’attività pediatrica di diagnosi e cura in Italia e nei Paesi in via di sviluppo “il dolore dei bambini non ha confini”.

Un “ex ragazzo ancora ragazzo” capace di dare una scossa all’ipocrisia dei benpensanti pescando il senso della prossimità dalle proprie radici popolane “ringrazio di essere nato povero così capisco meglio chi soffre”. Lo capisce. E lo aiuta. Partecipando ad esempio alla mostra organizzata a Palazzo Piepoli di Bologna a favore dell’IRST, un istituto di ricerca sui tumori di Meldola, vicino a Forlì.

La beneficenza non conosce né orari né location. Anche partecipare a una cena può alimentare una causa umanitaria. Come a Torino, organizzata dalla Fondazione Piemontese per la Ricerca sul Cancro ONLUS “piatto forte? L’altruismo”.

 

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Quella Notte di Capodanno che volevo fare a pugni per difendere Fratel Ettore

La Notte di Capodanno, in qualsiasi posto mi trovi, penso a trent’anni fa quando avevo salutato il Nuovo Anno a Casa Betania delle Beatitudini di Seveso accanto a Fratel Ettore (al secolo Ettore Boschini). Accompagnare il “padre dei poveri” nel pellegrinaggio notturno in cerca di anime perse da riportare all’ovile, disperati da consolare, ammalati da aiutare, mi aveva fatto trovare la risposta ai dubbi che avevo sempre avuto su come sono i santi …

 

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Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri.

 

Il dialogo del cuore: Cecilia Strada

 

Un dolore composto. E doppio. “Soffro per mio padre e per l’Afghanistan”, commenta senza cedere al pianto Cecilia Strada, figlia di Luigi, detto Gino, il medico di Sesto San Giovanni fondatore di Emergency stroncato a 73 anni da problemi di cuore, dopo che per una vita era andato proprio dove lo portava il cuore, al di là delle leggi disumane oltre le barriere ideologiche “l’Afghanistan era una sua seconda patria, vi aveva fondato tre ospedali e mi dicono che sentono la sua mancanza”. E poi aggiunge col tono determinato di autentico marchio-Gino-Strada “non si fermano le guerre con altre guerre, mi ripeteva. I fatti di oggi gli danno drammaticamente ragione. Ma adesso basta lacrime, mi avrebbe spronato, bisogna ricominciare a costruire, salvare vite umane”.

La storia di Cecilia è legata a doppio filo (chirurgico) a Emergency “una specie di fratello minore”. Qualche anno fa ha sentito la necessità di staccarsi “seguendo sempre l’insegnamento umanitario”. Pronta a tendere una mano a chi chiede aiuto, Cecilia era su una nave (Resq People ndr) che aveva salvato centinaia di migranti quando le era giunta la notizia della morte del padre “sentivo di essere nel posto giusto dove lui mi avrebbe voluto vedere”.

S’affaccia un velo di tristezza nello sguardo rubato a Gino se accenna alle testimonianze di stima “se stava in ospedale erano tutti dalla sua parte. Ma se raccontava quello che vedeva nelle terre devastate dalle guerre diventava scomodo. Da emarginare”.

La voglia di tenerezza di una figlia devota affiora quando lo ricorda come viaggiatore instancabile e papà premuroso “al ritorno dalle missioni all’estero aveva la valigia piena di regali. Ma poi era irrequieto. Voleva ripartire. Subito”. Come lei, Cecilia. Che è pronta a ripartire per la sua nuova strada. “STRADA LUIGI… magari gli dedicassero una via!”. Lo dice col sorriso. Ma soprattutto col cuore.

Gino Strada, stroncato a 73 anni da problemi di cuore, dopo che per una vita era andato proprio dove lo portava il cuore

Gino Strada con la figlia Cecilia

Cecilia Strada era sulla nave Resq People che ha salvato centinaia di migranti quando le è giunta la notizia della morte del padre.

 

 

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Happy Birthday (ma anche Buon Compleanno) a Madonna, nome d’arte di Louise Veronica Ciccone che festeggia 63 anni. Di origini italiane (il padre, Silvio, era abruzzese di Pacentro) è nata a Bay City, Michigan, il 16 agosto 1958. Semisconosciuta, ha debuttato in Italia il 20 ottobre 1983 registrando in playback “Holiday” nella discoteca BIGGEST di Samassi, Cagliari, per lo show di Raiuno DISCORING.

 

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L’uomo più veloce del mondo

Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri

L’uomo più veloce del mondo (anche nella staffetta 4×100) desiderava solo volare dai suoi tre figli, Jeremy, Anthony ma soprattutto Megan l’ultima arrivata che gli ha dato la carica per arrivare primo alle olimpiadi di Tokyo “le ho dedicato questa impresa”.

Marcell Jacobs bacia la medaglia dei 100 metri, primo oro italiano in questa specialità

Già, perché quella di Marcell Jacobs è un’impresa mai riuscita a un italiano: salire sul podio più alto dei 100 metri piani che in realtà sono stati pieni di ostacoli. Affrontati con la determinazione di farcela e la capacita di cambiare specialità quando intuiva che la sua medaglia poteva essere altrove. Magari in una corsia olimpica dove conquistare l’oro. Che merita anche nella gara dell’altruismo, del donarsi agli altri. Non con cimeli. Ma con l’esempio. Infatti Marcell arriva di corsa in tutti i posti dove lo chiamano, oratori, scuole, campi sportivi, associazioni di volontariato per dimostrare che la sua grandezza è soprattutto dentro e dare ai ragazzi la possibilità di sfidarlo e magari batterlo “leggo nei loro occhi una gioia che non ho mai provato alla loro età”.

I 4 medaglia d’oro della staffetta 4×100: Lorenzo Patta, Marcell Jacobs, Eseosa Desalu, Filippo Tortu

Storie di tutti i giorni, a un amen dalle favole a lieto fine, che hanno conquistato UNICEF Brescia tanto da indicarlo come esempio per i ragazzi “una specie di padre sportivo”. Bella soddisfazione per uno che il padre non l’ha quasi conosciuto “avevo un mese quando mi ha lasciato per partire per una missione”. A Tokyo è tornato, almeno al telefono “non me l’aspettavo”, mi ha confidato il Figlio del Vento con un velo di commozione nello sguardo di chi ha sempre affrontato la vita a muso duro. Di tenero c’era il sorriso di mamma Viviana che l’ha cresciuto da sola “senza di lei non sarei qui”.

Una dedica che arriva direttamente dall’anima dove germogliano sentimenti che forse odorano d’antico ma che meritano il podio più alto dei valori umani. Dove Marcell è il numero uno. Un vero campione. Planetario.

 

 

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Mi sentivo persa per le vie di Roma quando ho incontrato Dio. Da quel giorno la mia vita è cambiata. Era come se fossi ritornata dal mondo delle tenebre e avessi rivisto la luce, quella che ti sa riempire la vita e dà un significato speciale a ogni giorno della tua esistenza”.

Inizia così il cammino di conversione di Claudia Koll, attrice lanciata da Tinto Brass, prima dell’incontro con la fede.

Era un periodo in cui mi alzavo la mattina e non avevo voglia di niente, la mia vita era vuota e cercavo un pretesto per andare avanti”. Una spinta per guardare a un futuro di speranza che non arriva nemmeno dalla carriera che stava toccando il vertice della popolarità. “la mia attività artistica aveva avuto un’impennata notevole, popolarità e soldi mi accompagnavano, tutti mi cercavano specialmente dopo il Festival di Sanremo accanto a Pippo Baudo. E poi fiction Rai con Nino Manfredi e film impegnati. Mi sentivo realizzata”.

Recitare era il suo sogno di bambina e per realizzarlo, contro il parere dei genitori, aveva cambiato cognome avventurandosi in un ambiente dove è facile lasciarsi affascinare dalle illusioni e dove pochi riescono a sfondare “dopo la solita gavetta che tutte le ragazze devono fare per entrare nel mondo del cinema, ecco l’occasione che ti toglie dall’anonimato per lanciarti nello star-system. Interviste sui giornali, servizi fotografici, trasmissioni televisive. Il gioco mi piaceva, in fondo era quello che avevo sempre sognato”.

Il successo artistico però non va di pari passo con la vita privata “mi ubriacavo di premi, applausi, interviste, ingaggi prestigiosi, tournée fortunate per riempire un vuoto interiore che si andava sempre più dilatando come una voragine e cercavo di capire perché. L’etichetta di attrice sexy legata a quel film era ormai ampiamente superata e non mi pesava parlarne, anzi avevo conquistato così tanti consensi di critica e di pubblico che potevo permettermi di riderci su. Eppure non mi sentivo mai a posto, non dico felice, ma nemmeno appagata o serena. Neanche l’amore delle persone che incontravo riusciva a rendermi felice, a distogliermi da un’ossessione che col tempo diventava angosciante”.

Un bisogno intimo di consigli per cambiare il corso stanco della propria vita ma non sa dove trovarli “passavo davanti alle chiese e, mentre prima quasi non ci facevo caso e tiravo avanti per la mia strada, sentivo una specie di richiamo, la necessità di entrare ma non volevo piegarmi a quella sensazione per me molto strana. La carriera procedeva con un successo sempre più crescente com’era crescente il vuoto dentro da non poterne più. Sentivo che avevo bisogno di un segno forte che scuotesse la mia vita, di un incontro che mi cambiasse l’esistenza”.

Era così lontana dalla fede da credere che l’incontro sarebbe stato esclusivamente umano “un uomo, un amore travolgente, una persona che sapesse riempirmi i giorni e le notti. Perché era la notte il momento più drammatico, quando rientravo a casa e cominciavano i bilanci di quello che avevo fatto durante la giornata e in che modo mi ero arricchita spiritualmente e umanamente”.

La conclusione era sempre la stessa: deprimente e desolante, piena di noia e disperazione “riuscivo a mascherare il vuoto che avevo dentro e l’angoscia di non sapere come riempirlo con grandi sorrisi, duro lavoro e impegno estenuante nella professione per colmare con gli applausi un vuoto dentro che mi raggelava il cuore”.

Il limite di guardia lo raggiunge quando si accorge di non riuscire a mascherare la noia dell’ambiente che la circonda e il senso di vuoto pneumatico delle feste a cui partecipa o gli incontri con le persone del suo ambiente che pure le piace “sentivo che stavo precipitando sempre di più in un buio assoluto dove mi sentivo sola e persa e dove nessuno riusciva o forse poteva tendermi una mano per salvarmi o per tirarmi fuori. Sentivo di non farcela da sola, di precipitare sempre di più verso un baratro che vedevo avvicinarsi in modo inarrestabile. Una notte credetti che il fondo fosse lì, a due passi, e mi stavo incamminando per raggiungerlo quando si era accesa la luce che mi indicava il cammino”.

Quella luce era Dio e attraverso la fede la spingeva verso la risalita, che non è stata facile “iniziare un percorso di fede provenendo da un mondo dove si vive di apparenze e tutto dev’essere superficiale e bruciato in pochi secondi comportava degli sforzi enormi che non credevo di riuscire a superare. Ero scettica perché non contavo sulla forza della fede, non potevo immaginare la carica che riesce a dare la fiducia in Dio, la forza propulsiva della preghiera che sa abbattere ogni timore e ogni ostacolo”.

L’incontro con Dio nello smarrimento del peccato è avvenuto con la forza devastante dell’innamoramento totalizzante che aveva messo per sfondare nel cinema “il mio non è un carattere di mezze misure, quando scelgo una strada la percorro con la determinazione compulsiva di chi deve arrivare al traguardo subito e in modo completo. Così è avvenuto con la fede, un incontro basato sull’amore coinvolgente che non ammette altre distrazioni, ti prende tutto per sé e ti costringe a scelte drastiche: o fuori o dentro. E io non ho potuto che dire di sì a una chiamata così forte, appagante, esclusiva”.

Si avvicina alla Chiesa, ai sacramenti, cambia completamente stile di vita, non rinunciando però al suo lavoro che le è sempre piaciuto svolto con altri parametri e con altre scelte di ruoli “ma sentivo che non era sufficiente, Dio voleva molto di più da me perché la forza con la quale mi aveva teso la amano verso il baratro non doveva restare soltanto dentro me e non poteva servire soltanto a salvare la mia anima. Dio mi chiedeva di testimoniare la mia gioia, coinvolgere più gente possibile nel mio percorso di fede, raccontare al mondo come si vive bene vicino a Dio e come non ha senso stargli lontano perché ogni successo umano non ha senso se non c’è la sua presenza”.

Capiva che dentro di sé stava maturando uno spirito missionario particolare, una scelta di proselitismo fatto di ribalta e di spettacoli per testimoniare anche tra gli attori come può cambiare l’incontro fatale della tua vita. Ha continuato a recitare scegliendo copioni che servissero a raccontare la presenza di Dio, intervenendo a convegni e incontri dove la sua partecipazione ha un significato apostolico “so benissimo che la gente viene agli incontri soprattutto per verificare come si è trasformata un’attrice senza censure in una donna serena e appagata nell’amore di Dio. Ma non importa perché quello che conta è che siano lì ad ascoltarmi. In quei momenti mi sento sicura perché so che Dio mi aiuta a trovare le parole giuste per arrivare al cuore della gente, la calma che trasmette a tutti serenità”.

Riesce anche a rispondere con serenità a certe domande – per la verità sempre meno – che le vengono rivolte sul suo passato “mi servono anzi per confermare che quando Dio ti vuole al suo fianco per diventare suo strumento di apostolato, ti dà la forza per continuare la missione di evangelizzazione che si manifesta in varie iniziative come il volontariato nei Paesi africani o la fondazione di un centro artistico finalizzato alla formazione di giovani di talento che abbiano il senso etico e morale nello svolgere una professione importante come quella di comunicare”.

Ancora più importante è trovare il modo di comunicare con Dio, di raccontargli con la preghiera della sera tutto quello che è successo nella giornata ed è stato fatto nel suo nome “lo ringrazio per il dono della fede e mi vengono i brividi ogni volta che penso a com’ero cieca nel voler cercare la felicità nelle cose terrene. Vedevo nel successo professionale l’unico motivo di appagamento interiore mentre l’unica gioia arriva dell’aiuto verso chi soffre, testimoniare la parola di Dio in un mondo sempre più materialista che ha smarrito la luce della verità”.

Una testimonianza personale che arriva direttamente dal passato proiettato in un futuro di speranza “camminavo al buio sul ciglio di un precipizio e non mi rendevo conto di quanto fosse inutile ostinarsi a cercare nelle cose terrene e nell’amore delle persone la soluzione della propria infelicità. La mia preghiera di ringraziamento a Dio si conclude sempre con la speranza che allunghi, come ha fatto con me, la sua mano verso coloro che non sanno come trovare la via della felicità e si perdono per le strade sbagliate del mondo. Io, nella mia umile persona, cerco di indicare a chi me lo chiede la via della preghiera per essere aiutati da Dio a tornare sulla via della salvezza”.

 

 

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IL DIALOGO DEL CUORE: Roberto Mancini

Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri.

Un campione d’umanità che dopo la conquista della Coppa agli Europei di calcio allo Wembley Stadium di Londra ha commentato con un velo di lacrime “dedico questa vittoria storica ai bambini che soffrono di tutto il mondo”. Sempre misurato durante i nostri incontri, sa essere riservato anche nei gesti di beneficenza. Come donare all’Ospedale Gaslini di Genova gli introiti del libro scritto con Gianluca Vialli La Bella Stagione o trasformare una serata di gala in aiuti per i bambini brasiliani o una cena ad Amatrice in solidarietà verso i terremotati. Che non ha mai dimenticato. Come non scorda di essere stato fortunato e un po’ di fortuna vuole regalarla ai bimbi dimenticati mettendo all’asta i suoi cimeli più significativi come la sciarpa della Sampdoria indossata a Wembley il 20 maggio 1992, la maglia del suo debutto, il 9 maggio 1982 in Bologna-Inter e quella della Nazionale del 1991.

Goodwill Ambassador UNICEF, ha spiegato che “per guidare una squadra ci vuole passione, per salvare la vita di un bambino ci vuole cuore”. E col cuore ha aderito alle campagne Vogliamo Zero contro la mortalità infantile, 100% Vacciniamoli Tutti, Aleppo Day sul dramma dei bambini siriani fuggiti dalla guerra. Dramma accomunato a quello dei minori stranieri non accompagnati che “il Mancio” denuncia come testimonial della campagna della Panini, quella delle figurine. Dove c’è anche la sua. Di campione. D’altruismo.

 

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IL DIALOGO DEL CUORE: Federica Pellegrini

Chi ha avuto fortuna nella vita si ricorda di coloro (e sono tanti) che stanno peggio? I cosiddetti big sono grandi anche in beneficenza? Le stelle brillano in solidarietà? Le risposte in questo viaggio alla scoperta del senso della prossimità dei personaggi famosi guidato dal giornalista-scrittore Claudio Pollastri

La Divina. Per i primati nel nuoto e le partecipazioni televisive. Ma la vera specialità di Federica Pellegrini è la beneficenza. Che fa in silenzio contrariamente al suo stile esuberante e comunicativo. Nulla di strano. Perché in lei galleggiano alcune contraddizioni come la paura di nuotare in mare nonostante abbia partecipato, unica donna al mondo, a cinque finali olimpiche nei 200 metri stile libero. Anche nell’ultima gara dove è uscita dall’agonismo per entrare nella leggenda ha salutato con la mano aperta com’è aperto il suo cuore regalando all’allenatore-fidanzato Matteo Giunta il merito di essere arrivata fin lì.

Per i fan è semplicemente Fede. E di di fede ne ha sempre avuta verso il prossimo tanto da organizzare un‘asta online con 59 cimeli sportivi a favore dell’ospedale Papa Giovanni XXIII di Bergamo “non è stato facile privarmi di pezzi importanti della mia carriera, pezzi del mio cuore”. Un altro pezzo di storia olimpica l’ha donato alla Fondazione Provinciale della Comunità Comasca per aiutare gli anziani durante la pandemia.

La beneficenza non è solo cimeli. E’ anche immagine. Presenza. Fede è scesa in vasca per sostenere Croce Rossa Italiana e Segretariato Sociale della Rai negli aiuti alla Sardegna colpita dall’alluvione ed è stata testimonial della campagna Mare Pulito. Sensibile al dramma dei femminicidi e del doping ha aderito ai progetti Ferma il Bastardo e I am doping free. Abbinando la passione per le foto e il set al profondo senso di altruismo ha partecipato a un cortometraggio Telethon per la lotta alla SM e ha posato per il calendario Aipi Masks 2014 e Masks 2016 per l’Associazione Ipertensione Polmonare Italiana Onlus.

Lo sguardo le si vela di lacrime quando parla dei bambini che soffrono. Per aiutarli collabora con la Casa di Nazareth dell’Associazione volontari del Fanciullo e con ADMO per donare il midollo osseo “il sorriso di un bimbo guarito brilla più di qualsiasi medaglia”. Lei lo sa bene. Di medaglie se ne intende. Soprattutto di volontariato.

 

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Augurissimi di cuore a Luigia, detta Gina, Lollobrigida che spegne 93 candeline. La “donna più bella del mondo” è nata a Subiaco il 4 luglio 1927. Conosciuta universalmente come “la Lollo”, è diventa popolare come “la Bersagliera” accanto a Vittorio De Sica. E’ stata la Fata Turchina del PINOCCHIO televisivo di Comencini. Ha recitato con tutti i più grandi attori internazionali come Hudson, Lancater, Delon, Curtis. Diventata fotografa ha immortalato divi hollywoodiani come Paul Newman. Non ha mai accantonato l’arte di dipingere per la quale aveva studiato. “A ogni compleanno – mi ha confidato – parlo di progetti non di bilanci!…”.

 

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Durante la serata del 3 Dicembre 2018 presso il nostro Centro Diurno Stellapolare (Via Montecassino 8, Monza) abbiamo avuto il piacere di intervistare il Dott. Claudio Pollastri, giornalista Rai, famoso per le sue interviste trasversali a diverse personalità di una certa importanza come Madre Teresa di Calcutta, Obama, Papa Francesco e molti altri appartenenti al mondo dello spettacolo, sport, politica, ecc…

Ascoltate l’intervista completa

 

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Happy Birthday a Bob Dylan, nome d’arte di Robert Allen Zimmerman, che festeggia 80 anni. E’ nato a Duluth, Minnesota, Usa, il 24 maggio 1941. Il 13 ottobre 2016 gli è stato assegnato il Premio Nobel per la Letteratura ritirato a suo nome dall’amica Patti Smith nella cerimonia ufficiale del 10 dicembre a Stoccolma. Dylan ritira il Premio in una cerimonia privata e blindatissima nell’aprile del 2017.

 

 

Buon Compleanno ad Al Bano, nome d’arte di Albano Carrisi, che festeggia 78 anni. E’ nato a Cellino San Marco, Brindisi, il 20 maggio 1943. “Gli

auguri che mi commuovono di più sono quelli di Pippo Baudo che mi ha lanciato…”, mi ha detto.

 

 

Happy Birthday a Cher, nome d’arte di Cherilyn Sarkisian LaPierre, che festeggia 75 anni. E’ nata a El Centro, California, Usa, il 20 maggio 1946. “Mi sento un po’ italiana perché sono stata sposata con Salvatore, detto Sonny, Bono…”, mi aveva spiegato il 4 novembre 1999 al Mediolanum Forum di Milano.

 

 

Auguri

“fichissimi” per un Compleanno “eccezzziunale veramenteeee” a Diego Abatantuono che festeggia 66 anni. E’ nato a Milano il 20 maggio 1955. Un augurio speciale al “terrunciello milanese i cento pe cento” da Stefania Sandrelli.

 

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Ci ha lasciato Franco Battiato. Aveva 76 anni. Era nato a Ionia, Catania, il 23 marzo 1945. Le condoglianze del Dalai Lama attraverso il suo portavoce in Italia, Chodup Lama.

 

 

 

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Happy Birthday a George Timothy Clooney che festeggia 60 anni. E’ nato a Lexington, Kentucky, Usa, il 6 maggio 1961. “Mi sento quasi italiano anche se non parlo la vostra-nostra lingua…”, mi ha spiegato a Venezia il 31 agosto 2017 dov’era ospite della 74^ Edizione della Mostra del Cinema.

 

 

 

 

 

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Happy Birthday ad Anthony Charles Lynton, detto Tony, Blair che festeggia 68 anni. E’ nato a Edimburgo, Regno Unito, il 6 maggio 1953. E’ stato Primo Ministro del Regno Unito dal 2 maggio 1997 al 27 giugno 2007.

 

 

 

 

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Happy Birthday

a David Robert Joseph Beckham che festeggia 46 anni. E’ nato a Londra il 2 maggio 1975. Fuoriclasse del Manchester United e del Real Madrid, ha sposato nel 1999 Victoria Adams, ex Spiece Girl, dalla quale ha avuto 4 figli. “Mi piacerebbe moltissimo giocare nel Milan…”, mi aveva confidato il 17 giugno 2006 ospite di Giorgio Armani. Aveva indossato la maglia rossonera nel 2009 e nel 2010.

 

 

 

 

 

 

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Buon Compleanno a Giovanni, detto Nino,

Benvenuti che festeggia 83 anni. E’ nato a Isola d’Istria il 26 aprile 1938. Medaglia d’oro alle Olimpiadi di Roma del 1960, è stato Campione del mondo WBC nel 1965-66 e 1967-70. Smesso il pugilato ha fatto il giornalista e interpretato 3 film. Nel 1996 è stato volontario a Calcutta da Madre Teresa.

 

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Buon Compleanno alla Principessa Bianca Irene, Olga, Elena, isabella, Fiorenza, Maria D’Aosta Savoia che festeggia 55 anni. La figlia di Amedeo d’Aosta e Claudia d’Orleans è nata a Firenze il 2 aprile 1966. L’11 settembre 1988 ha sposato il conte Gilberto Arrivabene Valenti Gonzaga dal quale ha avuto 5 figli.

 

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Buon Compleanno
a Elena Sofia Ricci, nome d’arte di Elena Sofia Barucchieri che festeggia 59 anni. E’ nata a Firenze il 29 marzo 1962. Un augurio particolare a Suor Angela da Stefania Sandrelli con la quale ha girato nel 2011 il film TUTTA COLPA DELLA MUSICA e dal 1996 al 1997 la fiction di Canale 5 CARO MAESTRO.

 

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Happy Birthday
a Lady Gaga, nome d’arte di Stefani Joanne Angelina Germanotta che festeggia 35 anni. Di origini italiane è nata a New York il 28 marzo 1986. E’ molto amica di Donatella Versace. Ha cantato l’Inno Nazionale in diretta tv nella cerimonia d’insediamento del 46° Presidente degli Stati Uniti d’America Joe Biden il 20 gennaio 2021. “Mi sento molto legata alle mie radici italiane…”, mi aveva spiegato il 4 novembre 2014 al Mediolanum Forum di Assago, Milano.

 

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Augurissimi di cuore 25 MARZO
a Mina, nome d’arte di Anna Maria Mazzini, che festeggia 81 anni. E’ nata a Busto Arsizio, Varese, il 25 marzo 1940. Il 28 agosto 1978 ha tenuto il suo ultimo concerto dal vivo alla Bussola di Viareggio. Il 10 gennaio 2006 ha sposato il cardiochirurgo Eugenio Quaini.

 

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IL FESTIVAL DI SANREMO …

Questa sera prenderà il via la 71.ma edizione del Festival di Sanremo che, pur in modalità del tutto particolare, non mancherà di assolvere alla sua funzione di  condizionamento sociale, creando nuove mode e nuovi comportamenti, ma non solo…
“La storia del Festival di San Remo non è scritta soltanto dalla grande evasione di tv, Sorrisi e Canzoni. E tanto meno da quello che, davanti agli occhi di tutti, accade sul palcoscenico. Esiste infatti una storia segreta che attraversa tutto il dopoguerra italiano e le cui premesse nascono da una sorta di Progetto Sanremo ideato alla fine dell’Ottocento: un paradiso terrestre dove il gioco d’azzardo è il termine medio tra spionaggio internazionale e …”
Approfondimenti su questo argomento nel testo “IL LIBRO NERO DEL FESTIVAL DI SANREMO” che ci hanno presentato i due autori Romano Lupi e Riccardo Mandelli

 

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LIETI CALICI: UN VIAGGIO NELLA MUSICA DAL LAMBRUSCO ALLO CHAMPAGNE

DANIELE RUBBOLI

Giornalista professionista e musicologo modenese, membro dell’Accademia italiana della cucina, affronta l’argomento del connubio musica vino, assunto come testimonial. Lo scorrere del vino e la musica sono da sempre presenti nella storia, popolare e non, trovando rappresentazione nel teatro lirico, nel melodramma ma anche nella musica leggera come nelle canzoni d’autore. Ovunque c’è musica le persone non solo ballano, ma sognano e … brindano!

In una parrocchia è stato ritrovato un inno al vino che così si esprime:

“Già si dice nel Vangelo che chi non beve non va i cielo, come disse il Padre Eterno chi non beve va all’inferno, lassù in ciel Gesù Bambino beve sempre e solo vino ed il vecchio Abramo gran patriarca con il vino andava in barca, San Giuseppe il putativo se beveva era giulivo e Giovanni il Battista era sempre il primo in lista, e quell’altro San Giovanni lo bevette per cent’anni; San Gregorio detto il Magno con il vin faceva il bagno e nel vino San Tommaso ci metteva pure il naso, l’immortale Celestino sol beveva il Grignolino e da piccolo San Lucio lo succhiava con il ciuccio, Sant’Ambrogio di Milano predicò col fiasco in mano e con un sol bicchier di vino convertì Sant’Agostino, Sant’Antonio del porcello lo beveva dal mastello, San Giacomo il maggiore lo beveva a tutte le ore, e a quell’altro Giacomino piaceva tanto tanto il vino; Anna e le suore di clausura avean il fiasco alla cintura, mentre le cottolenghine se la fan con le cantine… ma anche noi un quartiletto lo beviam al divin banchetto perché inebria tutti quanti e ci fa diventar santi ed in cielo tra i beati noi berremo vino chianti andando a spasso in compagnia con Gesù e con Maria”.

Il libro “LIETI CALICI” è una documentata esposizione storica di quanto unisce il grande piacere della musica a quello altrettanto piacevole della musica. Si dice che il vino ben fatto sia una “poesia” ma si potrà scoprire come in realtà abbia influenzato intere generazioni di musicisti di ogni dove ed appartenenti ai più svariati generi.

 

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Giulio Andreotti

Serena e Stefano, due dei quattro figli (gli altri sono Marilena e Lamberto) di Giulio Andreotti hanno presentato in questa incontro l’ultimo libro dell’ex senatore “Il buono cattivo” pubblicato postumo in occasione del centenario dalla nascita. Il libro – come ricorda Serena – è stato da lei ritrovato mentre stava sistemando le carte del famoso e documentatissimo archivio del padre. Tra i documenti aveva trovato gli appunti scritti nel 1973 e che facevano parte di un libro impostato sullo stile narrativo, non saggistico e nemmeno politico, ma che tuttavia contiene i commenti su persone e fatti di quel periodo, trattati con l’abituale arguzia e ironia che lo avevano caratterizzato nella vita pubblica.
L’incontro con i due figli di Andreotti è stata l’occasione per scoprire alcuni particolari inediti della vita privata dell’uomo politico più temuto, celebrato, controverso del secolo scorso, alcuni aspetti conosciuti da tutti come la fede che lo portava ad andare a Messa tutte le mattine e l’altra incrollabile fede, quella calcistica per la Roma. Meno nota la passione per le corse dei cavalli sui quali scommetteva regolarmente e per il cinema americano in particolare, quand’era studente, per l’attrice Carol Lombard perché “gli uomini, anche politici, preferiscono le bionde”. Un occasione da parte del pubblico per farsi raccontare dai due figli anche i retroscena familiari dei drammi che hanno segnato la vita italiana e quella di Andreotti in particolare come l’assassinio di Aldo Moro.

 

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SCOPRIAMO ADRIANO CELENTANO

BRUNO PERINI, giornalista economista e giudiziario, interviene come ospite in  occasione degli 80 anni di Celentano quale nipote intellettuale, figlio della sorella Maria, e presenta il suo libro “Memorie di zio Adriano” di cui ne racconta la vita dopo averla vissuta di persona. Non la solita biografia centrata solo sul personaggio, ma svolta in parallelo con il contesto socio politico, come per esempio il riferimento iniziale al 1938 con emissione delle leggi razziali in coincidenza con l’anno della sua nascita. Gli episodi sono notizie inedite con episodi sconosciuti, tratti alcuni dal racconto diretto della madre ed altri dallo stesso Adriano, visto come artista ma anche come zio giocherellone. Emerge la figura di una generosità totale e senza interessi nei confronti della famiglia, con un grande senso dell’amicizia, anche se talvolta non ricambiata e anzi proprio tradita utilizzando il suo nome e la sua carriera per interessi personali. Caratteristica delle sue apparizioni in televisione nei vari spettacoli è sempre stata la regola di una massima libertà di espressione e assenza di un copione prestabilito autorizzato. La sua storia, raccontata così da vicino, diventa così la nostra storia e l’ eccezionale grandiosità di questo mostro sacro della musica italiana assume un gusto piacevolmente familiare, così come con la stessa familiarità lo abbiamo conosciuto meglio grazie alla descrizione in diretta di questo amato, anche se talvolta contestato, nipote.

 

Le rubriche di Christian Alberto Polli

1861, s’è fatta l’Italia,
ma non ancora Brugherio:
da frazioni a unico paese

Come già ricordato nello scorso articolo, gli austriaci furono scacciati dalla Lombardia nel 1859 dalla coalizione franco-piemontese di Napoleone III. La regione era finalmente libera ed entrava a far parte del regno sardo-piemontese e, il 17 marzo 1861, del neonato Regno d’Italia. Se lo Stato nazionale era finalmente nato, questo non lo si poteva dire per Brugherio, sempre diviso tra i suoi Comuni agricoli, Monza, la Martesana e la Brianza. Cambiato definitivamente il regime, i possidenti terrieri e il parroco don Gian Andrea Nova indirizzarono una missiva al governo sabaudo per poter formare un unico Comune sotto il nome di “Brugherio”. Il parroco e i vari possidenti terrieri di estrazione meneghina, a capo dei quali vi era Giovanni Noseda, industriale e sindaco di Cassina Baraggia, strinsero una sorta di alleanza fra di loro per poter unificare le varie realtà amministrative: non ci sarebbero stati intoppi come nel 1719 ad opera dei Dubini di Monza, né freni all’unità come un secolo dopo ad opera degli austriaci. Questa volta l’energico parroco, che fu pastore della parrocchia di San Bartolomeo dal 1838 fino alla morte avvenuta nel 1878, trovò in Noseda, in Alessandro SormaniAndreani, in Paolo e Michele Veladini e in Carlo Ghirlanda-Silva dei validi alleati per promuovere l’unità, oltreché religiosa, anche politica del territorio. Se i Comuni di Moncucco, guidato dal conte Alessandro Sormani-Andreani, e Cassina Baraggia erano d’accordo sull’iniziativa unionista, restava però il problema di San Damiano. Quel Comune, infatti, nutriva vincoli più campanilistici rispetto agli altri e buona parte della popolazione (dove per popolazione si intende chi poteva votare, ossia una ristrettissima cerchia di persone arroccata sui suoi diritti censitari) preferiva passare sotto Monza (basti ricordare la separazione dalla nuova parrocchia di San Bartolomeo nel 1582 per tornare sotto quella del Duomo).
Ci vollero intensi mesi di “campagna elettorale” per convincere i sandamianesi ad entrare a far parte della nuova realtà amministrativa. Il 1865 fu l’ultimo anno di San Damiano come Comune autonomo e ultimo sindaco fu Giuseppe Pasta: i sandamianesi accettarono alla fine la via “unionista” nel nuovo Comune. Si giunse infine al decreto che istituiva la nuova realtà amministrativa: il 9 dicembre 1866 il ministro guardasigilli Bettino Ricasoli e il re Vittorio Emanuele II decretarono, dalla capitale d’Italia Firenze, la nascita del Comune di ‘’Brugherio ed Uniti’’, che comprendeva la parte di Brugherio sotto Monza, il Comune di Baraggia (con le rispettive cascine Pareana e Sant’Ambrogio), quello di Moncucco (con la Pobbia e le cascine Torazza, Casecca, Moia, San Cristoforo e Occhiate) e quello di San Damiano. Il “risorgimento brugherese” era finalmente terminato: diviso per secoli e secoli, il nostro territorio poteva finalmente trovare un’espressione politica e geografica oltreché religiosa, sancendo un nuovo cambiamento di rotta nella storia della nostra comunità civile.

 

 

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Gli austriaci mai amati e le prime idee liberali
con gli arresti di Veladini e del fratello del parroco

Gli austriaci non furono mai amati dalla classe borghese e da quella aristocratica: la pesante censura intellettuale, i posti di comando affidati esclusivamente agli uomini di Vienna e le alte tasse rendevano il Regno Lombardo-Veneto un vero e proprio stato fantoccio. Questo stato di cose peggiorò notevolmente nel corso degli anni ’30 e ’40 del XIX secolo, allorché in Italia si diffusero le prime idee liberali, le associazioni carbonare e, grazie al movimento romantico, l’idea di un’Italia unita e libera dallo straniero. Quest’insofferenza per il governo austriaco si palesò in tutta la sua forza nel 1848 allorché, durante le gloriose cinque giornate di Milano, i milanesi riuscirono ad allontanare dalla città l’esercito guidato dal feldmaresciallo Radetzky, permettendo così di accogliere l’esercito sabaudo di Carlo Alberto. Brugherio ebbe una sua parte nel grande palcoscenico del Risorgimento: nobili quali Gaspare Ghirlanda e Piero Cornaglia parteciparono, insieme ad un buon numero di contadini, alla rivolta scoppiata a Milano, dando prova di grande coraggio. La rivoluzione liberale terminò, come si sa, con la sconfitta di Carlo Alberto e il ritorno degli austriaci. Un ruolo più decisivo, però, i notabili brugheresi lo ebbero in occasione del moto mazziniano del 6 febbraio 1853, allorché un gruppo di patrioti avrebbe dovuto occupare il Castello Sforzesco compiendo un vero colpo di Stato. Tra i cospiratori vi erano due personalità importanti: Giuseppe Nova, fratello del parroco di Brugherio Gian Andrea, e Paolo Veladini, fratello del futuro sindaco Michele. Il moto fallì e ai ribelli fu comminata o la pena di morte o la detenzione in qualche prigione: Gian Andrea Nova, uomo dal forte carattere, supplicò le autorità austriache di risparmiare il fratello. Paolo Veladini, che risiedeva nel capoluogo lombardo per esercitare la sua professione di medico-chirurgo, fu arrestato nella notte tra il 28 e il 29 marzo di quell’anno. L’estratto dell’interrogatorio, conservato nei fondi dell’Archivio di Stato di Milano e presente, sotto forma di copia, anche nel Fondo Meani della Sezione di Storia Locale della Biblioteca Civica, riporta precisamente le parole del Veladini, il quale fu però condannato alla pena capitale in quanto mostrò titubanza nel riportare quanto fece la sera prima dell’attentato. Graziato dall’imperatore Francesco Giuseppe nel 1856, tornò in libertà in seguito alla liberazione della Lombardia ad opera delle truppe franco-piemontesi durante la seconda guerra d’indipendenza (1859). Un’ultima curiosità: nelle fila dell’esercito franco-piemontese v’era arruolato anche il conte milanese Giulio Venino che, nel 1857, aveva osato fischiare all’imperatore austriaco e per questo dovette darsi alla macchia. In seguito divenne uno dei più grandi possidenti terrieri a Brugherio acquisendo, come dote della moglie, la Cascina Guzzina e quella denominata Cavarossa nel territorio di Cologno Monzese.

 

 

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La Restaurazione e il tempietto di Moncucco

Ritornati gli austriaci nel 1815, la Lombardia venne inquadrata nella nuova entità politica del Regno Lombardo-Veneto. Il territorio brugherese, nonostante il ritorno all’ordine e alla legittimità voluto dal Congresso di Vienna, non subì modifiche dal punto di vista sociale ed economico: i grandi proprietari terrieri “laici” nati sotto l’epopea napoleonica mantennero infatti le loro proprietà. Per quanto riguarda l’aspetto invece strettamente amministrativo, la nostra comunità rimase frazionata sempre tra le comunità di Cernusco sul Naviglio (al cui territorio apparteneva la Cascina Increa), quella di Monza e quella di Vimercate. Erano inoltre sorti dei Comuni gestiti dai notabili, quali per esempio quello di Moncucco, quello di Cassina Baraggia e quello di San Damiano. Il fatto più rilevante però per la prima metà del XIX secolo risultò il tentativo, da parte dei proprietari terrieri, di formare un solo Comune unitario a partire da quelli già esistenti, segnando l’inizio del Risorgimento brugherese. Paradossalmente, il tentativo questa volta fu bocciato dal governo austriaco nel 1819, in quanto «dovrebbero essere alterati il compartimento territoriale e le tavole del censo e lo stato di attività e passività di diversi comuni» (Brugherio, storia sociale ed economica, p. 90). A fianco di questi travagli istituzionali, è fondamentale segnalare una delle iniziative che porteranno alla nascita di uno dei simboli della nostra città, ossia la “ricostruzione” di quello che comunemente è chiamato il Tempietto di Moncucco, rivestito di patina neoclassica all’esterno e all’interno arricchito dai suoi preziosi medaglioni. Delineato in modo ineccepibile da Laura Valli e da Calogero Cannella nei suoi sviluppi storici e nell’analisi artistica, in questa sede se ne ricorderanno succintamente le vicende. L’architetto milanese Giocondo Albertolli intervenne immediatamente per salvare la chiesa del convento francescano di Lugano dalla distruzione cercando un “patrono” che permettesse il trasferimento di quella chiesa in territorio lombardo. Il conte Gianmario Andreani accettò di sobbarcarsi le spese, chiedendo all’Albertolli di adattare la chiesa, di ispirazione rinascimentale con influssi bramanteschi e leonardeschi, ad uso privato come cappella gentilizia e di porla sul terreno dove sorgeva precedentemente un oratorio dedicato a San Lucio Papa: da qui il perché si chiama ufficialmente chiesa di San Lucio. Pertanto nel 1816 iniziarono i complessi lavori di “trasporto” del materiale che da Lugano sarebbe giunto via terra fino a Como, poi via lago fino a Lecco e da lì, imboccato prima l’Adda e poi il Naviglio della Martesana, sarebbe approdato finalmente al porto del “Mattalino”, situato al confine tra Milano e Cologno. Da lì il materiale sarebbe giunto fino alla Villa di Moncucco. Gianmario non vide la fine dell’opera di ricostruzione, che sarebbe terminata solo nel 1832.

 
 
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La morte di Dante

 

Sotto: La morte di Dante, di Eugenio Moretti Larese
Cino da Pistoia fu l’ultimo esponente, in ordine cronologico, del dolce stilnovo. Giurista, amico di Dante e poi del giovane Petrarca, Cino compose nel 1321, in occasione della morte di Dante che si ricorda nella notte tra il 13 e il 14 settembre, questa canzone in cui dichiara morta la poesia, l’acme che la lingua volgare toccò con il poeta fiorentino e prega per l’anima di Dante perché possa ricongiungersi con l’amata Beatrice.

“Su per la costa, Amor, dell’alto monte,
Drieto allo stil del nostro ragionare,
Or chi potrìa montare,
Poi che son rotte l’ale d’ogni ingegno?
I’ penso ch’egli è secca quella fonte,
Nella cui acqua si potea specchiare
Ciascun del suo errare,
Se ben volem guardar nel dritto segno.
Ah vero Dio, che a perdonar benegno
Sei a ciascun che col pentir si colca,
Quest’anima, bivolca
Sempre stata e d’amor coltivatrice,
Ricovera nel grembo di Beatrice.
Quale oggi mai degli amorosi dubi
Sarà a’ nostri intelletti secur passo,
Poi che caduto, ahi lasso!,
È ’l ponte ove passava i peregrini?
Ma ’l veggio sotto nubi:
Del suo aspetto si copre ognun basso;
Sì come ’l duro sasso
Si copre d’erba e tal’ora di spini.
Ah dolce lingua che con tuoi latini
Facei contento ciascun che t’udìa,
Quanto dolor si dia
Ciascun che verso Amor la mente ha vôlta.
Poi che fortuna dal mondo t’ha tolta!
Canzone mia, alla nuda Fiorenza
Oggi ma’ di speranza, te n’andrai:
Di’ che ben può trar guai,
Ch’omai ha ben di lungi al becco l’erba.
Ecco: la profezia che ciò sentenza
Or è compiuta, Fiorenza; e tu ’l sai.
Se tu conoscerai
Il tuo gran danno, piangi, che t’acerba:
E quella savia Ravenna, che serba
Il tuo tesoro, allegra se ne goda,
Che è degna per gran loda.
Così volesse Dio, che per vendetta
Fosse deserta l’iniqua tua setta.”

 

 

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Brugherio e la parentesi  franco-napoleonica

Il tranquillo e calmo ambiente arcadico-illuminista fu letteralmente spazzato via con l’arrivo di Napoleone Bonaparte nel 1796 e l’instaurazione della Repubblica Cisalpina, una delle cosiddette “Repubbliche sorelle” di quella rivoluzionaria francese. Scacciati gli austriaci, i francesi provvidero a mettere in atto una radicale riorganizzazione amministrativa del territorio amministrativo da un lato e, dall’altro, ad esportare gli ideali di uguaglianza, fraternità e libertà propri della rivoluzione d’oltralpe. In primo luogo, la creazione dei dipartimenti: l’attuale territorio brugherese fu posto sotto l’egida del Dipartimento dell’Olona, con capitale Monza la quale, quando fu creato il Regno d’Italia (1805-1814), divenne sede di villeggiatura e della mondanità grazie alla presenza del Viceré Eugenio de Beauharnais e della moglie Augusta di Baviera. In secondo luogo, i francesi continuarono in modo più radicale l’opera di Giuseppe II d’Asburgo dell’espropriazione dei beni ecclesiastici disseminati sul territorio.

Per quanto riguarda Brugherio, o meglio “Brugherio di Sant’Ambrogio delle Monache” (con riferimento alle monache di Santa Caterina alla Chiusa di Milano che avevano in gestione la chiesetta e il cascinale), la situazione non fu differente da Milano o da Monza. I beni di queste religiose, che erano tra le maggiori proprietarie fondiarie del nostro territorio, furono espropriati, permettendo così alla nuova classe borghese e alla vecchia aristocrazia di “spartirsi” i beni ecclesiastici e di poter così affermare nuovi poteri locali all’interno della comunità: saranno i “vecchi notabili” del Risorgimento e dell’Italia liberale, come i Veladini, i Sormani-Andreani, gli Ottolini, i Napollion, i Noseda e molti altri. In particolar modo, chi si arricchì di nuovi terreni fu Gianmario Andreani (il fratello dell’esploratore Paolo) il quale annesse ai suoi possedimenti i beni delle cascine Moia, Torazza, Casecca, San Cristoforo, San Bernardo, la Cassinazza e altro ancora.

Per quanto riguarda invece le notizie di “cronaca”, queste sono scarse e frammentate. Si sa che i francesi, nel 1799, saccheggiarono le cascine della zona requisendo i beni di prima necessità ai contadini. Questi ultimi, già gravati dalle tasse, furono costretti a pagare una nuova tassa, quella del “millione Tornese”, andando così a gravare ulteriormente sullo stato di miseria della povera gente. D’altro canto, però, ci furono delle novità nel campo dell’istruzione: come ha raccontato la memoria storica locale, ossia la signora Anna Sangalli Beretta, nel 1809 a Baraggia aprì una scuola con una sola classe maschile che doveva frenare il dilagare dell’analfabetismo. È il primo accenno all’istruzione del nostro territorio che verrà portato avanti al ritorno degli austriaci nel 1815.B

 

 

 

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Il volo dell’avventuriero esploratore Paolo Andreani

La magia del volo, il piacere della scoperta, la razionalità propria dell’Illuminismo e al contempo la voglia di infinito tipica del Romanticismo si sono incarnati in un nobiluomo milanese del ‘700 che ha solcato i cancelli del XIX secolo entrandovi a pieno diritto: sto parlando del conte Paolo Andreani (1763-1823). La sua figura, magistralmente raccontata dal ricercatore locale Giuseppe Sardi, verrà qui succintamente rievocata, talmente è vasta la portata storica delle sue iniziative. Orfano in tenerissima età, Paolo crebbe insieme al fratello maggiore Gianmario il quale, nel 1779, comprò da Giuseppe Bolaños la tenuta di Moncucco. Già dalla giovinezza, però, Paolo non si limitò ad alternare la sua residenza tra Milano e la villa di campagna: Francia e Austria furono alcune delle sue mete, ove spese grandi somme al gioco. Dotato di mente vivacissima, il “contino” si appassionò alle ricerche scientifiche proprie del secolo dei Lumi, in particolare alla neonata scienza aerostatica avviata in Francia dai fratelli Montgolfier nel 1783. Desideroso di emulare anche lui l’impresa, si mise d’accordo con due ingegneri, i fratelli Gerli di Milano, perché realizzassero anche loro un pallone aerostatico. La voce si diffuse per tutta Milano e giunse anche agli orecchi dell’imperatore Giuseppe II che, in quei mesi, si trovava nel capoluogo lombardo. Quando seppe dell’intenzione del giovane conte di innalzarsi in volo e di essere stato invitato all’evento pubblico, però, l’imperatore ordinò al conte Wilczek di evitare che quest’evento accadesse, temendo il peggio. I fratelli Gerli, all’ultimo, diedero infatti forfait e l’Andreani dovette chiedere aiuto a due brugheresi, Giuseppe Rossi e Gaetano Barzago, di aiutarlo nell’ascesa verso il cielo. La prova avvenne con successo dal giardino della villa di Moncucco il 13 marzo 1784, alla presenza di tutta l’aristocrazia di Milano (vi era presente anche Pietro Verri) e del parroco di Brugherio don Paolo Antonio De Petri. La mongolfiera si elevò sopra i campi della Martesana fino ad atterrare, in modo un po’ spericolato, su di un gelso nella Cascina Seregna di Caponago. Quello che raccolse alla Scala l’Andreani fu un trionfo e anche Giuseppe Parini esaltò il coraggio del giovane “Icaro”. Le sue imprese, però, non si conclusero con il volo “brugherese”. Nel corso degli anni successivi, infatti, si aprì per l’argonauta dei cieli il sipario americano, dove entrò in contatto con Thomas Jefferson e con l’élite politica della giovane repubblica statunitense. Dalla east coast esplorò, per primo, l’interno del continente americano, studiando e riportando gli usi e i costumi dei nativi che gravitavano intorno alla regione dei Grandi Laghi. Dopo una vita di avventure (visitò anche i Caraibi tra il 1810 e il 1812), Paolo si stabilì a Nizza nel 1817 ove morì, in condizioni di povertà, l’11 maggio 1823.

 

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‘700: Monza un cappellificio e Brugherio per villeggiatura

 

Siamo giunti nel ‘700. Gli spagnoli, con il trattato di Utrecht del 1714, persero la Lombardia a favore degli austriaci che la detennero fino al 1796, anno dell’arrivo di Napoleone. In questo lasso di tempo Carlo VI e, soprattutto, la figlia Maria Teresa poi, operarono per il bene della provincia lombarda, che divenne il teatro delle riforme illuministiche adottate, in primo luogo la revisione del codice legislativo e la promozione delle arti e delle scienze. Anche Monza cambiò padrone: i De Leyva nel 1648 vendettero il feudo per una grossa somma alla famiglia di imprenditori dei Durini i quali, nel corso del secolo dei Lumi, diedero respiro all’economia monzese rendendola un centro di cappellificio. E Brugherio? Brugherio nel ‘700 e per buona parte dell’800 fu un ricercato centro di villeggiatura da parte delle famiglie nobili milanesi le quali, per ricercare riparo dalla calura cittadina, si spostavano verso la campagna: gli Andreani e i Cornalia erano solo alcune di queste famiglie che possedevano delle ville destinate non soltanto agli ozi dell’aristocrazia ma, come ricorda Indro Montanelli, anche alla produzione agricola e quindi all’economia di mercato. Si cominciò dunque a profilare una più chiara stratificazione sociale all’interno del nostro territorio: non solo contadini, ma anche aristocratici. Un quadro ben dettagliato della zona ce lo dà, sul finire del secolo, don Antonio De Petri, parroco di Brugherio dal 1778 al 1819. Questi, volendo emulare l’opera storiografica del canonico monzese Francesco Frisi, cercò anche lui di delineare le ville, le cascine e il piccolissimo cuore di quella che sarebbe diventata la nostra città nel tentativo di “fotografare” in un’istantanea quasi impressionista la sua parrocchia per i secoli a venire. Ed è un racconto prezioso e ricco di informazioni che attesta la presenza della bella società milanese che, durante i mesi autunnali, si riuniva nella nostra città. Così infatti riporta il parroco nell’introduzione: «Vi abbondano […] nobili abitazioni in cui villeggiano li molti possessori, tra i quali è diviso quel territorio, onde nella stagione autunnale vi si unisce una società assai maggiore di quella che da un sì piccolo paese si dovrebbe aspettare». Nel frattempo, questa aristocrazia così illuminata favorì anche un mecenatismo di tipo religioso: il nostro campanile, così particolare tra quelli della Brianza e della Martesana, fu realizzato per volontà del conte Carlo Bolaños, importante uomo di Stato di origini spagnole, e del marchese Pallavicini tra il 1751 e il 1771. Nonostante ciò, l’aristocrazia non si dimostrò sempre lungimirante: il governo austriaco, nel 1721, tentò di unificare amministrativamente il territorio in un’unica entità locale, ma vi si opposero i Durini i quali, avendo numerosi possedimenti sul lato confinante con Monza, non volevano perdere gli introiti che questi possedimenti garantivano loro.

 

 

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La giovinezza di Dante

Dante, come sappiamo, nacque a Firenze nel 1265 da Alighiero di Bellincione, una specie di commerciante/usuraio che dovette morire nella prima giovinezza del poeta, e da Bella degli Abati, morta sicuramente quando Dante era molto piccolo se non addirittura nel darlo alla luce.

Si sa che nacque in quell’anno grazie alla testimonianza di Giovanni Boccaccio che, saputolo da un amico ravennate del poeta, lo trascrisse nel suo “Trattatello in laude di Dante”: una vera miniera d’oro per avere informazioni sul nostro poeta. Ma quando nel 1265? Questo ce lo dice direttamente il nostro poeta nel canto XXII del Paradiso: nella costellazione dei gemelli, costellazione che genera uomini dotti e di alte virtù (e qui Dante un po’ se la tira, diciamocelo…).

Fu battezzato nel suo “bel battistero di San Giovanni”, come lo ebbe a definire, il 27 marzo del 1266 insieme a tutti i nati dell’anno precedente (ricordiamoci che per i fiorentini l’anno iniziava il nostro 25 marzo, per cui fu battezzato quasi il giorno di capodanno della città toscana).

Educato secondo lo status proprio di un rampollo di una famiglia agiata, il piccolo Dante fu mandato a studiare presso un grammatico (che gli insegnava a leggere, scrivere e far di calcolo) e poi, quando fu adolescente, presso il celebre letterato e giurista ser Brunetto Latini, che gli insegnò l’ars dictaminis, ovvero l’arte di esprimersi in pubblico e di scrivere lettere pubbliche, ovvero d’ambito politico-diplomatico. Ma Dante non si limitò a studiare quelle materie: la Divina Commedia e le altre sue opere sono pregne dei grandi classici latini (non conoscevano ancora direttamente quelli greci, per questo bisognerà aspettare il XV secolo), di filosofia aristotelica (sulla base della quale modellerà il mondo della Commedia), di astrologia, di matematica, cosmologia e dei più recenti modelli letterari allora in voga (verrebbe da dire “anni di studio matto e disperatissimo”, vero Leopardi?).

Difatti Dante cominciò a scrivere poesie d’amore secondo lo “stilo della loda” per lodare, appunto, una giovane di casa Portinari di poco più piccola di lei, Beatrice, la quale sarà di ispirazione per la nascita di un libro il cui titolo è tutto un programma: “La Vita nova”, ossia una vita rinnovata dall’amore tutto spirituale per la giovane donna presentata come un angelo disceso dal Cielo a portare beatitudine. “Lo stilo della loda” non fu però un’invenzione dantesca, quanto semmai una sua perfezione di un modello già originario. Alcuni giovani fiorentini quali Lapo Gianni e Guido Cavalcanti avevano forgiato un nuovo modo di fare poesia, basato sulla dolcezza delle parole e sulla musicalità, sulla presentazione della donna amata come signora sovrannaturale. Ecco la genesi di quello che verrà chiamato dagli storici della letteratura, basandosi su quanto un poeta toscano precedente, Bonaggiunta Orbicciani, ebbe a definire “dolce stil novo”, proprio perché differente rispetto alle rime “aspre” dei compositori precedenti.

Ma Dante non fu soltanto un intellettuale e un giovane innamorato: fu anche un soldato. Nella guerra contro Arezzo (ricordiamoci che i toscani e più in generale gli italiani sono molto “campanilistici”) Dante fu chiamato a prendere le armi (era abbastanza ricco per permettersi armatura e cavallo) per partecipare alla battaglia di Campaldino del 1289: aveva 24 anni, e probabilmente già sposato con Gemma di ser Manetto Donati. Secondo quanto attesta una lettera perduta ma letta dal cancelliera della Repubblica Fiorentina Leonardo Bruni nel XV secolo, Dante ebbe grande paura ma non si comportò da vigliacco: fece la sua parte e coi fiorentini vinse la ghibellina Arezzo.

Insomma, non poco per un giovane fiorentino, orfano molto giovane, profondamente studioso che, già nel fiore della giovinezza, scrisse quel piccolo capolavoro che è la Vita Nova. Il seguito lo vedremo in una prossima puntata. A presto, amici.

 

 
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“Siete voi qui, ser Brunetto?”: Dante e l’omosessualità nel Medioevo

Siamo ormai sul sabbione ardente, rigato soltanto dal fiume Flegetonte, dove vengono puniti i violenti contro Dio, nel VII cerchio. Nello specifico, il canto XV si occupa dei violenti contro natura, ovvero coloro che si macchiarono in vita del peccato di Sodoma e Gomorra: i sodomiti. Gli omosessuali, in sostanza, sono posti da Dante in questo sabbione ardente dove sono costretti a correre per l’eternità puniti dal fuoco che cade loro sulla testa e dalla temperatura elevatissima del terreno che calpestano. Una piaga davvero terribile. Se qualcuno di loro, come spiegherà il protagonista di questo canto, si fosse fermato, sarebbe stato costretto a rimanere fermo per un secolo in quel luogo, subendo ancor di più la già tremenda tortura.

I due poeti Dante e Virgilio stanno camminando lungo gli argini del Flegetonte, unica area risparmiata dalla terribile calura quando, all’improvviso, un’anima si rivolge a Dante in modo meravigliato per la presenza di quello che fu suo pupillo a Firenze: è il politico e letterato Brunetto Latini. Dante, faticando inizialmente nel riconoscere l’antico maestro a causa dell’arsura del volto, rimane anch’egli stupito di trovarsi davanti colui che gli insegnò l’ars dictaminis (ovvero l’arte di scrivere e tenere discorsi politici) proprio nel girone dei sodomiti. Il tono del colloquio è affabile e incentrato sul rispetto da parte dell’ex allievo nei confronti dell’antico maestro, disposto ancora a dispensare dei consigli quali il tenersi lontano dall’invidia dei fiorentini ma prevedendogli anche lui la futura via dell’esilio, esattamente come fecero Ciacco e Farinata. Un altro canto “politico”, insomma, in cui Dante, vero discendente dei romani che fondarono Firenze dopo aver distrutto la vicina Fiesole, rischia di ritrovarsi fagocitato tra i guelfi bianchi e i guelfi neri, discendenti invece dei fiesolani inurbatisi successivamente nella colonia romana, che vogliono fargli del male. Insomma, un’altra batosta per il povero Dante “personaggio” cui verrà svelato il significato ultimo di queste profezie “post eventum” soltanto dall’amata Beatrice.

Che cosa ci insegna questo canto, forse non tra i più conosciuti dell’Inferno? In primo luogo, l’atteggiamento di Dante. Brunetto Latini non è il primo dannato a mostrarsi gentile nei confronti del poeta (ricordiamoci di Francesca da Rimini), ma Dante, davanti ad un “crimine” così nefando come l’atto omosessuale, si mostra e si mostrerà (nel successivo canto) estremamente benevolo e pietoso verso la condizione di queste anime. Il velato rimprovero espresso dalla domanda “Siete voi qui, ser Brunetto?” esprime piuttosto la meraviglia di trovare un’anima così nobile in un luogo come l’inferno: non si sa come Dante abbia saputo dell’omosessualità del Latini, ma probabilmente giravano delle voci riguardo al suo conto già quando il poeta era un adolescente. Un atteggiamento benevolo che susciterà la costernazione dei primi commentatori della Commedia quando, nel corso del XIV secolo, le punizioni e l’ostracismo nei confronti dei sodomiti aumentarono notevolmente.

Ne consegue un altro spunto di riflessione: l’atteggiamento di noi moderni davanti alla punizione della pratica omosessuale. Lo spazio è troppo poco per riflettere attentamente riguardo a questa tematica ma, di sicuro, chiunque non abbia delle basi di medievistica e di dottrina cristiana di quel periodo potrebbe insorgere in nome dei diritti degli omosessuali. Oggi la Chiesa ha posizioni più morbide nei confronti di queste persone (se si pensa che nel Medioevo e nel primo rinascimento v’erano inquisizioni, torture e roghi nei confronti degli omosessuali) e, a mio giudizio, sembra che Dante in questo dimostri grande modernità, per l’ambiente in cui s’è trovato a crescere. Durante il discorso con Brunetto dimostra di dividere sapientemente il peccato dal valore della persona che ha dinnanzi, ossia di dividere, come insegna il Vaticano II, il peccato dal peccatore. E questo è un atteggiamento straordinariamente moderno da parte del nostro Dante che si rivela ancora una volta sempre più vicino a noi.

 

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La peste, San Carlo e la quota di Sant’Albino

Cari lettori, siamo giunti ormai nel pieno del XVI secolo. L’Italia è ormai preda dei conquistatori spagnoli che, con la pace di Cateau-Cambresis del 1559, sancirono il loro predominio sulla penisola italiana. Il Ducato di Milano toccò al diretto governo degli spagnoli che vi rimasero a lungo, dal 1559 appunto al 1714. La loro amministrazione fu deleteria per una ricca regione quale era la Lombardia: si rileggano a tal proposito le pagine de “I promessi sposi” del Manzoni.                                                           Il nostro territorio, d’altro canto, nel corso della seconda metà del ‘500, fu legato alla figura del grande arcivescovo riformatore Carlo Borromeo (1564-1584). Da un lato il suo nome è collegato nella memoria alla triste epidemia di peste che colpì Milano e il territorio circostante nel 1576-1577, durante la quale cercò di portare sollievo alla popolazione; dall’altro fu lui, nel 1578, a gettare le fondamenta per la nascita di una parrocchia e di una prima appartenenza della popolazione locale ad un ente che la riunisse in un’unica comunità. Per quanto riguardo la peste, in uno dei due volumi editi per il centenario del Comune nel 1966 intitolato “Brugherio: il suo territorio, 2000 anni di storia” (la cui autrice è stata identificata nella maestra Tina Magni), si narra di come essa sia arrivata nella nostra zona per colpa di una mercantessa mantovana che nascondeva delle piaghe che aveva sul collo. Da qui un bambino, di nome Riccardo, l’avrebbe poi portata a Brugherio: le vittime furono sicuramente numerose, ma non ci sono dati statistici che ne rivelino esattamente il tasso di mortalità.

Dopo la morte, però, la rinascita.  Nel corso delle sue numerose visite pastorali, il Borromeo giunse tra il 15 e il 16 giugno del 1578 a Brugherio dove poté constatare le difficoltà “pratiche” che la popolazione delle cascine e del nostro piccolo borgo vivevano: per ricevere o partecipare ai sacramenti, dovevano recarsi fino alla chiesa di San Giovanni Battista di Monza e ciò risultava scomodo soprattutto se si trattava di partecipare alla messa domenicale o alla somministrazione dell’unzione degli infermi.

Pertanto, su richiesta della popolazione locale, il cardinal Borromeo creò la parrocchia dedicata a San Bartolomeo agglomerandovi: Cascina de’ Bastoni, quella di Baraggia, Moncucco, Dorderio, la Guzzina, Torrazza, Ca’Secca, la Moia, San Cristoforo, Occhiate, San Damiano, la Cascina “detta di San Donato”, Bettolino, Sant’Albino e Sant’Ambrogio “delle Monache”. Soltanto nel 1582 l’arcivescovo, dietro richiesta della comunità di San Damiano, che non intendeva pagare l’annua prestazione per il parroco della piccola e povera parrocchia, diede il permesso a questa comunità di restare sotto la giurisdizione della chiesa di San Giovanni di Monza, estremamente più ricca.

La popolazione, secondo quanto ricavato dal libro “Brugherio: una città nel segno dei magi” di Luciana Tribuzio Zotti e di Giuseppe Magni, ammontava nel 1582 a 900 “anime”, ossia persone.

 
 
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Canto III “secondo round”: l’incontro con Caronte
«Ed ecco verso noi venir per nave
un vecchio, bianco per antico pelo,
gridando: “Guai a voi, anime prave!» […]
(Inferno III, vv. 82-84)

La scena, dopo quella dell’Antinferno con gli ignavi, ora cambia repentinamente. La congiunzione “ed” apre un nuovo scenario sul palco della vicenda dantesca e si presenta, in tutta la sua crudezza, Caronte, il primo dei traghettatori della Commedia.

Già personaggio della mitologia classica deputato al trasporto delle anime nell’Ade pagano, qui Caronte, come molti altri personaggi e/o eroi mitologici, viene trasfigurato in un essere demoniaco al servizio eterno della volontà divina nell’adempiere ai suoi voleri («Caron dimonio, con occhi di bragia», ossia di “fuoco”, v. 109).

Ed infatti quel grido che non lascia alcuna speranza nella salvezza dell’anima doveva essere qualcosa di terribile, di terrificante non solo nell’animo dei dannati, ma anche in quello di Dante:

«Non isperate mai veder lo cielo:
i’ vegno per menarvi a l’altra riva
ne le tenebre etterne, in caldo e ’n gelo».
(Inferno III, 85-87)

Si nega la Salvezza («mai veder lo cielo»); Caronte ribadisce la volontà cui è preposto di condurre quella turba di anime dannate «a l’altra riva / ne le tenebre etterne», sia dove si soffre il caldo quanto il gelo – in quest’ultimo caso si riferisce all’ultimo cerchio dell’inferno, nel luogo ove regna direttamente Lucifero. L’allusione è chiara: dopo la morte corporale, a costoro non può aspettare che la morte spirituale.

La reazione delle anime? Dante sembra che dipinga, piuttosto che descrivere, la reazione di costoro alle parole di Caronte: «cangiar colore e dibattero i denti» (v. 101), prese quasi da un attacco di panico.  Poi, ormai non più “timorose” del giudizio divino «bestemmiavano Dio e lor parenti» (v.103), cioè i loro genitori e anche tutti i loro antenati per averli generati e destinati alla dannazione. Come se fosse colpa di questi ultimi se l’uomo si danna: quest’ultimo si nega la salvezza per il suo voler allontanarsi volontariamente da Dio, dalla carità e dalla fede, non pentendosi dei suoi peccati. Un ultimo barlume di peccato prima che queste anime verranno gettate nei cerchi a loro preposti.

Un quadro che duecento anni dopo Dante un altro fiorentino, il pittore Michelangelo, inquadrerà benissimo nel suo Giudizio universale nella Cappella Sistina, come potete osservare dalla foto.

E Dante? Il dialogo tra lui e Caronte avviene prima della reazione delle anime, che ho posticipato per una questione di maggiore ergonomicità. Caronte, davanti a Dante, non sembra stupito nel vedere un’anima viva tra le anime dei defunti. Il traghettatore, piuttosto, continua a parlare per autorità e gli intima di andarsene, dicendo che per un’altra strada, per un altro porto giungerà alla spiaggia («per altra via, per altri porti / verrai a piaggia», vv. 91-92), in allusione a quella del Purgatorio e non a quella dell’Inferno, come riscontrato anche da un autorevole della Commedia quali furono Umberto Bosco e Giovanni Reggio. Solo l’intervento di Virgilio, l’amata guida e il duca che lo condurrà tra i meandri dell’Inferno e tra le ripide ascese del Purgatorio, farà calmare dai suoi propositi Caronte, quasi pronto ad usare la violenza contro Dante perché si allontani dal quel luogo, con la celebre terzina:

«E ’l duca lui: “Caron, non ti crucciare:
vuolsi così colà dove si puote
ciò che si vuole, e più non dimandare”».
(Inferno III, vv. 94-96)

Grazie a Virgilio, così, Dante può salire sulla zattera di Caronte, ragguardato dal volere divino ai suoi propositi, e passare all’altra riva senza problemi. Le anime dannate, giuntevi, si sparpagliano quasi come gli uccelli per l’aria tutte pronte per andare, come vedremo, dal giudice infernale Minosse.

Non hanno più paura del giudizio come prima, in quanto «pronti sono a trapassar lo rio, / ché la divina giustizia li sprona, / sì che la tema si volve in disio». (vv. 124-126), tanto è forte la volontà giudicante divina.

Il canto si chiude con lo svenimento di Dante: preso da una grandissima paura per un terremoto insorto nelle cavità infernali il poeta, non ancora abituato ai drammi e al terrore dell’Inferno, finisce per perdere conoscenza:

«Finito questo, la buia campagna
tremò sì forte […]
La terra lagrimosa diede vento,
che balenò una luce vermiglia
la qual mi vinse ciascun sentimento;
e caddi come l’uom cui sonno piglia».
(Inferno, III, vv. 130-131; 133-136)

 

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Il volto di Dante

Nel 2015, quando stavo redigendo la voce wikipedia su Dante Alighieri (https://it.wikipedia.org/wiki/Dante_Alighieri), volli dedicarmi ad una ricerca riguardante alle fattezze del Sommo Poeta. “A che pro”, direte voi? Semplicemente per avvicinarci a colui che ci ha donato quel monumento alla letteratura universale che è la Commedia, perché possa essere ancora “Dante con Noi”.

Innanzitutto, bisogna premettere che di Dante si conosce poco in modo preciso: non si ha addirittura alcun suo manoscritto in cui si possa leggere la sua grafia! E di questo ce ne ha parlato lo storico Alessandro Barbero in una recente puntata da lui diretta. Ma di questo ne parleremo un’altra volta. Se abbiamo un’idea vaga di come potesse essere l’aspetto di Dante, lo dobbiamo all’autore del Decameron, ossia a Giovanni Boccaccio (1313-1375) che del Nostro aveva un culto a dir poco sfegatato. Scrisse, sul modello dei libelli agiografici della sua epoca, un trattato, chiamato appunto Trattatello in laude di Dante ove, al capitolo XX, Boccaccio scrive così:

«Fu adunque questo nostro poeta di mediocre statura […] Il suo volto fu lungo, e il naso aquilino, e gli occhi anzi grossi che piccioli, le mascelle grandi, e dal labbro di sotto era quel di sopra avanzato; e il colore era bruno, e i capelli e la barba spessi, neri e crespi, e sempre nella faccia malinconico e pensoso».

Il naso aquilino, il carattere malinconico e pensoso…e chi non ha in mente i ritratti di Botticelli, di Raffaello Sanzio e di Domenico Peterlini? Il primo, un Dante di profilo, dal volto anonimo, in cui spicca il suo bel nasone; il secondo, raffigurato nella Stanza della Segnatura in Vaticano, rispettivamente negli affreschi Il monte Parnaso e La disputa del Sacramento (tanto per intenderci, il Dante di quest’ultimo affresco diverrà il modello da conio per la moneta da due euro); il terzo, invece, disteso su una spiaggia con lo sguardo malinconico, corrucciato, di chi è “exul immeritus”, ossia esule immeritato dall’amata Firenze.

Questo volto di Dante ha dominato e domina tutt’ora la nostra immaginazione. Recentemente, però, Giorgio Gruppioni, antropologo dell’Università di Bologna, ha saputo ricostruire quello che doveva essere al 95% il vero volto dell’Alighieri partendo dalla ricostruzione effettuata, con metodi certamente più antichi, nel 1921. Si è scoperto che il volto di Dante, oltre ad essere diverso, mostrava quella dicotomia tra “volto fisico” e “volto psicologico” cui i vari artisti hanno attribuito al Sommo Poeta risultando (e mi cito) «privo di quel naso aquilino così accentuato dagli artisti di età rinascimentale e molto più vicino a quello, risalente pochi anni dopo la morte del poeta, di scuola giottesca».

Mi riferisco, infatti, ad un ritratto di Dante giovane situato nel Palazzo dell’Arte dei Giudici e dei Notai di Firenze (nella raccolta di immagini è l’affresco danneggiato) e realizzato, come detto prima, da Giotto o da uno dei suoi collaboratori. Il ritratto, certamente meno enfatizzato rispetto a quello dei suoi più celebri epigoni, dev’essere anche più veritiero per il presunto incontro avvenuto tra Giotto Di Bondone e Dante Alighieri, entrambi a Roma nel 1300.

 
 
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(Dalla pagina Facebook “Dante con noi”)
DANTE CON NOI

Farinata e il cerchio degli eretici

Nei “canti” precedenti…Dante e Virgilio, lasciato Ciacco e attraversato il cerchio degli avari e prodighi, si dirigono verso la palude Stigia dove li attende un altro

Disegno di William Blake (1757-1827)

traghettatore, Flegiàs. Quest’ultimo li accompagna, non senza qualche disavventura, fino alle mura della città di Dite dove una gran folla di diavoli e le tre Erinni non intendono far passare Dante dal cancello di quella città. Virgilio, vista l’inutilità della sua retorica davanti all’immobilismo delle creature infernali, viene giunto in soccorso da un angelo

che, rigido esecutore della volontà divina, fa scappare i demoni permettendo ai due pellegrini di entrare in Dite…una città popolata da sepolcri aperti e arroventati dalle fiamme.

Il canto X dell’Inferno si apre così su una landa desolata costellata da queste tombe. Sono le tombe degli eretici, dei seguaci del filosofo greco Epicuro che non credevano nell’immortalità dell’anima e che quindi sono destinati a subire questa pena. La natura strutturale del canto è basata sulla struttura bipartitica tra l’incontro di Dante con Farinata e “l’intermezzo” pseudo-ludico di Cavalcante de’ Cavalcanti, padre del grande amico di Dante, il poeta Guido. Tale struttura serve soprattutto per “raffreddare gli animi” tra il guelfo Dante e il ghibellino Farinata e quindi di alleggerire un tono soprattutto drammatico dal punto di vista politico con uno pseudo-ludico come quello di Cavalcante.

Ma chi era Farinata, colui che invoca Dante perché, dalla parlata, sembra essere della sua stessa città, Firenze? Ancora una volta, come Ciacco, un fiorentino, col quale discutere di politica. Farinata, ossia Manente di Jacopo degli Uberti, era nato all’inizio del XIII secolo e per due volte, nel corso dei travagliati anni a metà di quel secolo, rientrò nella città natale per due volte, dopo essere stato scacciato dai guelfi. Presentatosi come sdegnoso, altero e “magnanimo” (ossia che ha lottato per i suoi ideali fino alla fine senza compromessi), Farinata chiede a Dante chi fossero i suoi avi e, avendo saputo che erano guelfi, disse che per ben due volte li scacciò dalla città. Dante, però, in un moto di orgoglio, ribadì che se i suoi avi furono capaci di rientrare a Firenze, quelli di Farinata invece non ne furono capaci. Materiale per arrivare a toni ben più severi da ambo le parti, come sono capaci di fare solo i toscani.

Ecco allora che il Dante “autore”, per raffreddare la scena, mette in mezzo lo spirito di Cavalcante de’ Cavalcanti, anche lui accusato di eresia e per questo finito nel VI° cerchio. Ho definito scena “pseudo-ludica” in quanto il povero Cavalcante, in tutto opposto al fiero Farinata, riconosce Dante e chiede come mai Guido, suo figlio, non è con lui in questo viaggio. Dante fa per rispondergli ma suscita il dolore e la costernazione del padre quando Dante, al verso 63, utilizza il passato remoto, facendo intendere che Guido fosse già passato a miglior vita (cosa non vera nella finzione storica, in quanto Guido Cavalcanti morirà di lì a poco). Il passato remoto è dovuto al fatto che Guido Cavalcanti, noto seguace dell’averroismo e quindi non seguace del tomismo che coniuga la filosofia aristotelica con la teologia (e quindi, allegoricamente, Beatrice), non poté intraprendere il viaggio insieme a lui perché non seguace della teologia. Frainteso il senso, Cavalcante si lascia cadere nuovamente nella tomba che condivide con Farinata, facendo così riaprire il dialogo prima interrotto tra i due.

Nella seconda parte del colloquio si ha la prima, esplicita profezia post eventum. Rimasto imperturbato per il dolore di Cavalcante, Farinata dichiara che “la faccia della luna non si riaccenderà cinquanta volte che «tu [Dante] saprai quanto quell’arte pesa» (v. 81). È una caratteristica infatti dei dannati prevedere il futuro più lontano questo è possibile, per poi svanire dalla loro memoria quando diventa presente. Questa dichiarazione susciterà la paura e la costernazione di Dante, ma Virgilio lo rassicura dicendogli di attendere da Beatrice, quando la incontrerà, di sapere tutti gli eventi futuri della sua vita.

L’accusa di Farinata, però, si rivolge ancora contro Firenze: Dante riconosce che, nonostante le opposte fazioni politiche, Farinata fu l’unico, nell’esilio ad Empoli, ad opporsi alla distruzione di Firenze rispetto a tutti gli altri capi ghibellini e che per questo motivo si acquistò il titolo meritorio di “magnanimo”, nell’accezione prima spiegata. E allora come mai la sua famiglia è ancora bandita da Firenze e i fiorentini ce l’hanno ancora così in odio? Non sembra di sentire il dolore del Dante autore per la recente condanna all’esilio, dopo tutto il bene che il Nostro ebbe compiuto per la sua città d’appartenenza? La colpa di Farinata e degli Uberti? La troppo violenta vittoria da loro ottenuta nella battaglia di Montaperti del 1260 ai danni della città: poco importa che Farinata poi si spendesse per la salvezza di Firenze. Agli esiliati e ai giusti non è riconosciuta alcuna vittoria in vita e, forse, neanche dopo la morte.

 
 
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(Dalla pagina Facebook “Dante con noi”)
DANTE CON NOI
 

Il “primo” canto politico: l’incontro con Ciacco
“Giusti son due, e non vi sono intesi;
superbia, invidia e avarizia sono
le tre faville c’ hanno i cuori accesi.”
(Inferno, Canto VI, vv. 73-75)

Ormai Dante, incosciente, ha lasciato Paolo e Francesca al loro tormento per scendere ulteriormente giù nelle viscere infernali. L’aspetto del terzo cerchio è più terribile che mai: non solo la terra è putrida e dal cielo, sempre oscuro, scende «de la piova etterna, maladetta, fredda e greve» che rende il tutto estremamente nauseabondo, ma questo cerchio è affidato alla custodia del «demonio Cerbero», cane a tre teste appartenente alla mitologia pagana e anch’essa reso da Dante creatura demoniaca al servizio della volontà divina.

Superato il mostro grazie all’intervento di Virgilio (che gli lancia in bocca un po’ del putridume trovato sul suolo), Dante si ritrova circondato da una marea di dannati accasciati a terra, avviluppati nel terreno fangoso. Sono i golosi e, come loro si cibarono in modo indegno infischiandosene del grido dei poveri, così ora sono costretti a giacere quali porci in questo disgustoso ambiente. Ecco il contrappasso che Dante sceglie per questa categoria di dannati ed un monito sempre nei confronti di chi mette la gola al primo posto nella propria vita.

Sembra un cerchio tranquillo: nessuno si muove per chiedere di Dante e Virgilio finché, ai vv. 38-39, «una ch’a seder si levò, ratto / ch’ella ci vide passarsi davante». L’anima, che si dichiara implicitamente fiorentina, non si presenta subito, vuole che Dante la indovini in quanto lui nacque prima che quel personaggio spirasse. Davanti alla difficoltà di Dante, l’anima si presenta finalmente: è quella del fiorentino Ciacco. Chi fosse costui, non è dato saperlo. Ciacco, poi, è un soprannome o il vero nome di battesimo? Come rivendicava il Boccaccio nel suo commento alla Commedia, era un uomo di corte e quindi esperto di questioni politiche? Ai dantisti l’ardua sentenza. A noi interessa il discorso che Dante intesse con quest’anima.

Il Dante “autore”, ormai esiliato da Firenze, fa finta che il suo Dante “personaggio” chieda all’informato Ciacco del decadere di Firenze e a quale punto giungeranno le parti in lotta, ai vv. 60-63:

«“ […] ma dimmi, se tu sai, a che verranno
li cittadin de la città partita;
s’alcun v’è giusto; e dimmi la cagione
per che l’ ha tanta discordia assalita.”»

Fondamentalmente, Ciacco riassume la vicenda politica interna di Firenze, dilaniata dai due gruppi magnatizi (ossia dei ricchi) dei Cerchi (ai quali Dante apparteneva) e dei Donati. Per chi li ha studiati a scuola, erano rispettivamente i guelfi bianchi e i guelfi neri: i primi pretendevano l’autonomia dal papato, mentre i secondi accettavano una maggiore interferenza della Santa Sede nelle vicende interne del Comune di Firenze. Qui Dante rievoca, per bocca di Ciacco, l’iniziale supremazia dei bianchi sui neri e l’esilio di questi ultimi; poi, nel giro di tre anni (Dante utilizza la metonimia “tre soli”), la parte nera prenderà il sopravvento, scacciando i bianchi dalla città e decretando l’esilio di Dante. Ci troviamo, in parole povere, davanti ad una profezia post eventum: il Dante autore sapeva quello era già successo perché vi era passato per quelle vicende, ma il Dante personaggio invece, fermo ancora al 1300 (quindi un anno prima dell’esilio), era ancora ignaro di ciò che sarebbe successo.

Interessante poi la risposta che Dante/Ciacco fornisce al Dante personaggio: ossia che le cagioni che hanno spinto i fiorentini ad odiarsi tanto sono dovute alla superbia, all’invidia e all’avarizia. Vi ricorda qualcosa? Deve, perché le tre fiere che Dante incontrò nel I canto dell’Inferno erano l’allegoria esatta di questi tre mali. Tre mali che tutt’oggi, all’interno dei consigli, delle commissioni e dei rapporti dialettici tra politici purtroppo non si sono ancora estinte, ma che invece rappresentano talvolta l’unica valvola di sfogo tramite cui i politicanti esercitano il loro mandato.

Altro spunto importante che Dante, esperto politico, ci fornisce: se la morale civile è vittoriosa sui peccati dei singoli uomini. Dante infatti chiede se varie personalità che si sono rese distinte per il loro servizio nei confronti della patria fiorentina si trovano anch’esse all’Inferno. Ciacco ribadisce che esse si trovano «son tra l’anime più nere»: alcuni di essi infatti si troveranno tra i sodomiti e altri invece tra gli scismatici. Insomma, anche qui: è inutile il servizio alla patria, il riconoscimento delle qualità retoriche e l’intuito politico se la persona che le possiede non persegue la virtù morale. E anche qui è un invito agli uomini politici odierni a perseguire, forse, prima una vita moralmente degna e incline al bene piuttosto che una vita politica sfolgorante ma intrisa dei peccati più neri.

Ormai il tempo di Ciacco è finito: come ogni anima dannata, privo della luce divina, non riesce più a sostenere un discorso compiuto e finisce per entrare in uno stato di coma dal quale solo il Giudizio Universale lo sveglierà. Il compito del “canto politico” è finito: ma vedrete che Dante, su questo tema, ritornerà ancora parecchie volte e sempre in modo più duro.

 
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DANTE CON NOI

Canto III “primo round”:

Per me si va ne la città dolente,
per me si va ne l’etterno dolore,
per me si va tra la perduta gente.
(Inferno III, vv. 1-3)

Ormai Dante, accompagnato da Virgilio, deve accingersi ad attraversare ciò che ogni uomo sulla terra non oserebbe fare: attraversare l’Inferno. Dante, per far calare progressivamente il lettore nelle tenebre infernali, s’idea la porta dell’Inferno sulla quale vi è inciso un forte messaggio minaccioso che termina con Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate (v. 9). Un’annotazione importante: ricordatevi sempre che ci sono due Dante nella Divina Commedia: il Dante “auctor”, cioè l’autore, colui che racconta ciò che dichiara di aver visto; e il Dante “personaggio”, nel quale si cala tutta la tensione drammatica degli eventi da lui vissuti.

Ricominciamo. Superata la porta dell’Inferno, l’ambiente circostante cambia radicalmente: la luce, fonte della saggezza divina e della ragione, scompaiono per lasciar luogo ai tristi lamenti e ai dolori dei primi dannati che riecheggiano per la vallata dannata: «Quivi sospiri, pianti e alti guai / risonavan per l’aere sanza stelle…» (vv. 22-23). Chi sono i primi dannati che Dante nel III canto incontra? Non sono propriamente dei dannati nel senso stretto della parola: sono persone che, in vita, hanno manifestato solamente la propria incapacità di prendere una decisione tanto che il nostro poeta li definisce «…sciaurati, che mai non fur vivi» (v. 64) e che per questo motivo non potevano essere accolti in Paradiso né tantomeno nell’Inferno, in quanto non avevano compiuto né opere buone né malvagie. Un giudizio durissimo che denota l’indignazione da parte del poeta e di Virgilio verso coloro che non seppero usare il libero arbitrio e non dimostrarono fermezza nel prendere quindi una decisione stabile nel corso della vita. Un ammonimento anche per i giorni nostri: guai lasciare che le cose vadano secondo il flusso della storia senza che noi non operiamo in qualche modo, senza lasciare una traccia nostra perché, come dirà più avanti nell’Inferno Ulisse: «non foste fatti per viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza».

Mentre i due poeti si stavano allontanando sdegnati da quella turba, continuamente molestata da vespe e calabroni e costretta a seguire una bandiera – ecco qui il primo esempio di “contrappasso”, ovvero di una determinata pena contraria o simile al comportamento peccaminoso che i dannati e le anime del purgatorio devono subire come punizione – Dante «vid[e] e conobb[e] l’ombra di colui / che fece per viltade il gran rifiuto» (vv. 59 – 60). Chi poteva essere costui? Certamente qualcuno che Dante ebbe modo di conoscere direttamente o indirettamente, ma su cui nessun commentatore – fin dai tempi più antichi – si è trovato d’accordo: Romolo Augustolo, Ponzio Pilato? Se fossero loro, Dante non avrebbe usato l’endiadi “vide e conobbe”. Oppure Celestino V, papa nel 1294? La maggioranza propone per il papa eremita che, conscio della propria incapacità di gestire il governo della Chiesa, abdicò aprendo le porte all’arcinemico di Dante, ossia Bonifacio VIII. Forse la rabbia che Dante nutrì per Celestino non fu dovuta solamente al fatto che questo papa non confidò abbastanza nello Spirito Santo come aiuto alle proprie manchevolezze: di sicuro, la “colpa” (se così vogliamo definirla) di Celestino fu quella di aver favorito l’ascesa di un papa corrotto e mondano mentre su di lui si riponevano le speranze per il rinnovamento in senso francescano della Chiesa di Roma.

Ma Celestino, a mio parere, prese una decisione ben definita, non fu un ignavo: come poteva continuare a rimanere pontefice se era quasi illetterato e non conoscitore della macchina della curia romana? Era soltanto un eremita dedito costantemente alla preghiera e al digiuno, non un politico. È come se qualcuno oggi accusasse Benedetto XVI di ignavia perché rinunciò al magistero petrino nel 2013: chi siamo noi per valutare e condannare la coscienza di qualcuno, se per di più ispirata dallo Spirito Santo? Troppo duro insomma il giudizio di Dante, a mio avviso, ma comprensibile, se desiderava una riforma morale della Chiesa. Decisamente più vicino al nostro è invece il giudizio che ne darà Francesco Petrarca molti anni dopo nel De Vita solitaria, dichiarando ammirazione per il coraggio che papa Celestino ebbe nel lasciare il trono di Pietro. Vedete, insomma, la differenza tra il “medievale” Dante e il “moderno” Petrarca nel valutare le scelte della vita.

Lasciamo ora in pace l’anima di questo pontefice bistrattato da due dei più grandi poeti che la nostra letteratura produsse e dirigiamoci verso l’incontro con Caronte…ma questo è un altro episodio.

 

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Brucia di petali d’alba…

 

Brucia di petali d’alba
bagnati da brina vespertina
Monza, sorgente di nuda
torre tibaldea,
incastonata nella corona alpina,

Sbocciante, un tempo,
di ville e monasteri;
forgiata di porte e castra
che sono ceneri
ormai di un addio
che è per sempre;
cancello di quella Brianza,
ove la labo
fiera teca di paesi
affrescati d’incanto
e specchianti in placide colline.
Monza, dove sei?

I rintocchi dei sacri battacchi
si mesciano agli echi
dei treni fiacchi;
e i sussurri misterici
delle selve reali
s’infrangono
nell’informe traffico
crogiolante
di stressate anime.

Il Lambro scivola
imperituro,
nelle sue secolari acque
ancora
sotto gli sguardi del Carrobiolo e dei Leoni;
ma infognate di veleni e scarti,
portano alla foce
delle industrie un’oscura voce.

E più vale un like o un sms
del campionese duomo irrorato
di pizzo marmoreo: ignorato è
il san Giovanni scultoreo;
e gli Zavattari si perdono lontani

nel gotico vuoto e stentoreo
dai più incompreso.

Ma Monza continua
a bruciare ancora petali d’alba,
e a perdersi tra la Grigna e il cielo;
libera così dal volgare velo
ritorna a nascere
per chi la sa sempre amare.

Tratta da Aritmie Spirituali – edizioni Convalle 2019

 

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  DANTE CON NOI

 

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura
ché la diritta via era smarrita…
(Inferno I, vv. 1-3)

 

Chi non conosce questi famosissimi versi? Ormai sono entrati nell’immaginario collettivo di tutti noi: Dante, ormai esule politico, si ritrova nella selva dei suoi pensieri, della sua ira, delle sue delusioni.

Scacciato ingiustamente dalla sua Firenze (e ricordiamocelo: per un uomo del Medioevo la città era come il grembo della propria madre), Dante viaggia ora nel silenzio di un mondo che ancora non conosce, quello dell’Italia delle Signorie. È come se noi fossimo letteralmente gettati in una realtà nuova, priva di sbocchi per l’anima, insicura e ostile.

Con questa terzina Dante ci sta mostrando la sua fragilità anche di cristiano: vittima del peccato, cerca soltanto conforto e redenzione da quella «selva selvaggia e aspra e forte / che nel pensier rinova la paura!» (vv. 5-6) in cui gli uomini medievali vedevano la fine della civiltà, l’oscurità dell’anima, l’assenza della ragione.

Quante volte anche noi ci ritroviamo nelle nostre selve oscure? Quante volte aspiriamo «a riveder le stelle» (Inferno XXXIV, v. 139), ma ci ritroviamo immersi nel circuito delle nostre preoccupazioni, delle nostre angosce, delle nostre colpe? Quasi sempre. Dante è immortale perché continua a parlare agli uomini di ogni tempo in quanto si mostra sempre (e ricalco l’avverbio) un uomo. Non è più di tanto l’uomo accigliato e burbero dal naso aquilino che l’iconografia tradizionale ci ha tramandato: è l’espressione di un’umanità che mai tramonta e che si rinnova insieme a lui nel suo lungo viaggio ultraterreno.

Per fortuna sua e nostra, non siamo mai soli: qualcuno ci tende sempre la mano davanti a dei nemici quasi sempre invalicabili. Dante si ritrova, uscito dalla selva oscura, davanti al colle della Grazia e quindi della Salvezza: purtroppo gli si stagliano davanti una lupa, un leone e una lonza, simboli del peccato. Quando tutto sembrava perduto, Dante viene soccorso da Virgilio e da quell’incontro inizierà l’immortale viaggio.

E noi? Dobbiamo sempre affidarci ai nostri amici, ai nostri famigliari: nessuno è una roccia compatta. Dobbiamo sempre sentirci una comunità viva e forte, ma soprattutto legata dall’amore. Tutti noi abbiamo un Virgilio e una Beatrice, insomma: basta cercarli nella profondità dei nostri affetti e di chi si dimostra, sempre per citare Dante, «tanto gentile e tanto onesta pare»
(Vita Nova, capitolo XXVI).

 

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E’ UN GIRONE ERMETICO
E’ un girone ermetico,
il reparto di psichiatria,
di viva e lucida follia
si tinge l’oscura mente
di chi crede il nulla, assente.
E’ un vagare salmodiante,
che puzza di EN,
ciondolante in un perenne
meriggio, cinereo:
la scarsa luce filtra,
opaca divinità,
sui visi smunti
di chi vagheggia, falsità.
E’ un riso di chimera,
il delirio sonnolente
di chi barcolla, demente
avanti indietro-indietro avanti:
urlano alle coscienze,
e sono così nitide
a loro stessi,
moderni reietti!
Ma a loro si negano
le segrete sinapsi,
criptici rapsòdi
ai più ignoti;
è un inferno scostumato,
timido e celato,
bagnato d’asciutti
silenzi, stremati.
E’ un ermetismo
(si può dire) falso;
vociano dolori a noi
noti, carnosi di vita;
solo agli altri paion ignoti,
queste maschere d’infermità
afone blasfemie:
ma parliamo di vita.

 

tratto da ARITMIE SPIRITUALI
Edizioni Convalle 2019

 

 

 

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BRUGHERIO …

Brugherio, 9 dicembre 1866. La nascita di un Comune, la fine di un risorgimento locale che ha comportato numerosi sacrifici da parte dei possidenti terrieri, in primo luogo Giovanni Noseda, e da parte del parroco del paese, il reverendo don Gian Andrea Nova. Eh sì, perché Brugherio doveva già nascere nel 1721, quando il governo austriaco intendeva, sulla base del catasto censitario, fondare una nuova comunità. Questo però avrebbe comportato per la famiglia Dubini di Monza, che aveva numerose pertiche di terreno sul nostro territorio, la perdita di grossi possedimenti. E non si fece nulla.

Non si fece nulla neanche nel 1819 quando questa volta furono gli austriaci, ritornati dopo l’epopea napoleonica in Lombardia, che decisero di non complicare ulteriormente il frammentatissimo territorio amministrativo, politico e finanziario che divideva le varie comunità, ossia le cascine e i primi nuclei territoriali di case che si stavano lentamente formando intorno alla parrocchiale di San Bartolomeo.

Questa rimaneva l’unico punto fisso, l’unico riferimento per Brughé. Soltanto con l’arrivo dei piemontesi nel 1859 e la nascita del Regno d’Italia, le cose cominciarono a cambiare anche per la nostra futura città. I proprietari terrieri (i Sormani Andreani, i Noseda, i Pestagalli, i Tizzoni) e il parroco Nova scrissero più volte al governo centrale la richiesta di fondare un’unica comunità che permettesse ai brugheresi di sentirsi “legalmente” tali. Era interesse dei grandi proprietari terrieri, infatti, avere un Comune con un proprio consiglio comunale dove sedersi e poter gestire le realtà locali senza far riferimento a Monza, a Cernusco o a Vimercate per le decisioni politiche. Alla fine, grazie alle insistenze, il governo sabaudo decise di dare il proprio placet, da tenersi dietro ad un referendum. La parte forte la face il sindaco di Cassina Baraggia Giovanni Noseda, il quale non ebbe grosse difficoltà a far accettare alla cittadinanza questa scelta se non alla comunità di San Damiano, corteggiata da Monza che non aveva intenzione di vedere quel territorio unito al futuro Comune.

Gli scontri non si fecero attendere da ambo le parti ma alla fine il Consiglio Comunale sandamianese, allettato dalle promesse elettorale del Noseda, decise di scegliere per la via unionista. Si giunse così al fatidico 9 dicembre, data in cui fu eletto come sindaco Giovanni Noseda. La storia di Brugherio come entità politica ebbe finalmente inizio ..

 

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UN RE MATTO IN INGHILTERRA: GEORGE III

Riprendo, con questo titolo (il primo di una trilogia di biografie) quello elaborato da Dario Fo nel 2015 per il suo romanzo “C’è un re pazzo in Danimarca”. Eh sì, perché il XVIII secolo fu un secolo abbastanza nefasto per i reali d’Europa. Oltre al povero “re di Danimarca” Christian VII (1766-1808) e alla regina di Portogallo Maria I (1777-1816), l’uno schizofrenico e l’altra affetta da porfiria – una malattia genetica del sangue che procura sintomi psichiatrici – v’era nel Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda un sovrano che fu ben più famoso dei suoi due colleghi danesi e portoghesi: George III di Hannover. Il primo motivo era dovuto all’importanza dell’Inghilterra nel panorama politico, militare ed economico del Secolo dei Lumi; il secondo motivo per il gran numero di saggi e di film (ricordo in questa sede La pazzia di Re Giorgio, lungometraggio del 1994 con Nigel Hawtorne e Helen Mirren che ottenne un’ottima critica da parte dei giudici al Festival di Cannes).

Ma torniamo a Giorgio III. Sovrano per ben sessant’anni dal 1760 al 1820, padre di quindici figli e sovrano attento alle novità culturali, industriali e sociali del proprio Paese, George III fu il sovrano “delle rivoluzioni”: quella americana, quella industriale e quella francese. Fu durante il suo regno, quindi, che la Gran Bretagna vide sconfitte decisive (la nascita degli USA), ma anche vittorie strabilianti, come quelle su Napoleone e l’estensione del dominio marittimo, industriale e commerciale di Londra su tutto il mondo, anticipando la gloria del regno della nipote, la famosa regina Vittoria. Ma torniamo al nostro re “matto”: non era una malattia propriamente psichiatrica ma, come nel caso di Maria I del Portogallo, di una malattia genetica, la porfiria.

I sintomi? Psichiatrici (allucinazioni, deliri, incapacità di stare in silenzio, aggressività, etc…), neurologici, gastrointestinali e…urinari (le urine, durante il periodo di infermità, erano di colore blu). Insomma, un vero calvario, specialmente per la moglie del sovrano, la buona regina Charlotte, che soffriva terribilmente nel vedere il marito in quelle condizioni. La prima crisi avvenne nel 1763, ma si risolse nell’arco di poche settimane; ben più grave fu quella del 1788-89, crisi che determinò lo stallo del governo (guidato dall’abilissimo primo ministro William Pitt il Giovane) e la possibilità di una reggenza da parte del pigro e ambizioso principe di Galles George.

A curare il malato sovrano fu chiamato un “prototipo” di psicoterapeuta, un membro della Chiesa Anglicana che lasciò la cura d’anime per dedicarsi alle malattie mentali: il dr. Francis Willis. Le sue terapie (lavoro nei campi, il controllo del malato tramite il fissarlo negli occhi costantemente, una rudimentale sedia a cui il paziente veniva legato durante le manifestazioni psicotiche) furono determinanti nell’arginare le manifestazioni psicotiche del sovrano, ma non a risolverne la causa, visto che la porfiria era allora sconosciuta. Infatti, il sovrano ebbe delle altre recidive del suo male nel corso degli anni a venire fino al tracollo totale che avvenne nel 1810 quando seppe della morte della sua figlia preferita, la principessa Amelia. Da quel momento non recuperò più la lucidità mentale e (finalmente) il principe di Galles George divenne principe reggente per i restanti anni di vita del padre, che morì nel castello di Windsor dieci anni dopo. Gli succederà al trono col nome di George IV.

 

Le rubriche di Elisabetta Sangalli

La Chiesa di S. Tomè ad Almenno San Bartolomeo (BG)
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MARK ROTHKO

La pittura come luogo di riflessione e ricerca dell’Assoluto

“Giallo su viola” (1956)

“Giallo su viola” (1956)

Mark Rothko rappresenta il versante riflessivo della corrente dell’Espressionismo astratto americano. Nato nella Russia zarista, a Daugavpils (attuale Lettonia) nel 1903, emigra presto negli USA, dove inizia l’attività didattica in scuole d’arte e università.

La pittura di Rothko si evolve via via come riflessione, come luogo della riflessione e ricerca di assoluto, come luogo dove prevale l’aspetto meditativo della componente orientale.
Pienamente immerso nella pittura sintetizzata a puro colore, Rothko all’azione sostituisce la meditazione, all’aggressività

gestuale un pensiero interiorizzato, calato nel colore. L’attenzione è per la superficie come dilatazione del colore in quanto tale, armonizzato al silenzio e a lunghi periodi sulla tela, costruita lentamente.

La pittura è portata agli elementi riducibili – al colore in quanto tale, la forma resta in 2° piano, il colore prevale, ma la forma si noterà sempre, perché deriva dalle stesse necessità di espandersi del colore sulla tela, che di fatto è rettangolare. Pertanto il colore assume la forma della tela che lo contiene, raggiungendo la massima espressività: un colore denso e pregnante, concentrato in poche tinte cariche di potenzialità, capaci di trasmettere sensazioni diverse, di scatenare diverse reazioni. Il soggetto osservatore acquisisce un suo spazio nell’ambiente cromatico della tela, dove la fisicità del colore, allo stato puro, si impone in tutta la sua fisicità.

Un colore che chiede di essere percepito nella sua tragicità, perché tocca la nostra stessa fisicità, così portato a una concezione estrema.

Rothko fa proprio l’aspetto affascinante dell’Assoluto, che è la tensione che l’artista stesso impiega per raggiungerlo, ben oltre la meta.

L’Infinito si pone dunque come continua ricerca umana, aspirazione, tensione, indipendentemente dall’effettivo raggiungimento. Ed è nella vibrazione del colore che l’artista, sublimato dalla spiritualità orientale, ricerca l’Oltre esprimendo il suo “non-io”: un io purgato, purificato da quell’auto-affermazione urlata con violenza gestuale dall’espressionismo astratto di Jackson Pollock.

Per Rothko la pittura è altra cosa. È innanzitutto la possibilità di esprimersi attraverso l’“esserci”. Nella vibrazione del colore, ricerca un valore eterno e tragico che supera il confine stesso dell’opera, rimandando al cammino, infinito, e mai raggiunto, verso se stessi. Forse, anche per questo il suo atelier di New York diverrà il luogo della morte, il santuario dove l’artista ha percepito l’infinita vicinanza tra la tragedia e l’estasi.

 

 

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Commenti d’Arte
“Nè pinger, né scolpir…”

Michelangelo
L’”Oltre” nel non finito della Pietà Rondanini


Per la maggior parte di noi, pensare al tema della “Pietà” significa identificare immediatamente una precisa iconografia, celeberrima: la Pietà di Michelangelo conservata nella Basilica Vaticana. In realtà, nel corso della sua vita l’artista scolpì ben quattro opere dedicate al Cristo morto …

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ARTE E SACRA SCRITTURA
INCONTRI CON LA BELLEZZA (3° incontro)

Un’iconografia assai diffusa nell’arte cristiana orientale è la Visita della Madonna alla cugina Elisabetta. La scena della Visitazione è narrata solo nel Vangelo di Luca.

L’evangelista vuole radicare le origini di Gesù e del Battista, vuole caratterizzare l’identità dei due personaggi, che costituiscono i punti d’incontro tra i due Testamenti.

I due racconti si sviluppano paralleli: all’annuncio a Zaccaria corrisponde quello a Maria; alla nascita di Giovanni, all’imposizione del nome, e alla circoncisione 8 giorni dopo, corrispondono la nascita di Gesù, l’imposizione del nome a Gesù e la sua circoncisione.

Luca inizia il Vangelo partendo dall’inizio, sia perché, scrivendo a Teofilo, vuole raccontare “accuratamente dal principio i fatti” (1,3); sia perché così facendo, potrà presentare Giovanni e la sua missione, in rapporto con la figura e la missione di Gesù. Luca vuole sciogliere i difficili rapporti della Chiesa nascente col gruppo dei giovanniti, che vedevano il loro maestro superiore a Gesù, in quanto Gesù era stato suo discepolo (Gv 3,22-27; 4,1-3).

Vangelo di luca, 1,29-56.
“In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda. Entrata nella casa di Zaccaria, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo. Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» Allora Maria disse: «L’anima mia magnifica il Signore e il mio spirito esulta in Dio, mio salvatore, perché ha guardato l’umiltà della sua serva. D’ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata. Grandi cose ha fatto per me l’Onnipotente e Santo è il suo nome; di generazione in generazione la sua misericordia per quelli che lo temono. Ha spiegato la potenza del suo braccio, ha disperso i superbi nei pensieri del loro cuore; ha rovesciato i potenti dai troni,ha innalzato gli umili; ha ricolmato di beni gli affamati, ha rimandato i ricchi a mani vuote. Ha soccorso Israele, suo servo, ricordandosi della sua misericordia, come aveva detto ai nostri padri, per Abramo e la sua discendenza, per sempre». Maria rimase con lei circa tre mesi, poi tornò a casa sua”.

L‘episodio della Visitazione, momento di incontro tra l’Antico e il Nuovo Testamento, è illustrato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. La scena fa da ponte tra le “Storie di Maria” e quelle di Cristo (1303). L’incontro tra Maria ed Elisabetta avviene fuori il portico di un edificio gotico. Elisabetta dà il benvenuto abbassandosi verso Maria per abbracciarla e renderle omaggio.

Due donne accompagnano Maria: quella più a sinistra tiene un telo chiaro che le ricade dalla spalla destra, quale simbolo dei due bimbi che dovranno essere fasciati. La donna sull’uscio, a destra, appoggia invece una mano sul grembo, a indicare lo stato interessante delle due cugine.

Giotto propone un ritmo di narrazione che si esplica nella gestualità lenta e carica di affetti. Le due cugine sanno una cosa: la loro gravidanza, è opera di Dio.

Questo duplice annuncio dell’angelo di maternità (a Maria e a Zaccaria, marito di Elisabetta) è esaltato dai colori pieni di luce, mentre il valore plastico delle figure è dato da una linea capace di sintetizzare le forme in volumi pieni, di quella pienezza che è anche interiore.

Giotto ha finalmente liberato l’arte dallo schematismo bizantino, quella serietà che impediva ai volti e ai corpi di parlare, di relazionarsi, di esprimersi. Rifiuta il fondo oro ereditato dalla tradizione bizantina, che impreziosiva l’opera e donava ieraticità alle figure, ma cristallizzava i personaggi su un piano incomunicabile.

Giotto, invece, sceglie di inserire i personaggi in quella storia che si chiama “quotidianità”. Così la quotidianità umana può diventare storia divina e sacra. Con Giotto, l’umano è restituito al divino, perché il divino si incontra e si incarna nell’umano.

Luca racconta l’incontro tra 2 donne incinte: Elisabetta, al 6° mese, e Maria da pochi giorni. Quando Maria saluta la cugina, Giovanni sussulta nel grembo della madre, che loda Maria, “Beata perché ha creduto”.

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La Natività L’Adorazione dei pastori(Luca 2,1-20)

1 In quei giorni un decreto di Cesare Augusto ordinò che si facesse il censimento di tutta la terra. 2 Questo primo censimento fu fatto quando era governatore della Siria Quirinio. 3 Andavano tutti a farsi registrare, ciascuno nella sua città. Anche Giuseppe, che era della casa e della famiglia di Davide, dalla città di Nazaret e dalla Galilea salì in Giudea alla città di Davide, chiamata Betlemme, 5 per farsi registrare insieme con Maria sua sposa, che era incinta. 6 Ora, mentre si trovavano in quel luogo, si compirono per lei i giorni del parto. 7 Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo depose in una mangiatoia, perché non c’era posto per loro nell’albergo. 8 C’erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge. 9 Un angelo del Signore si presentò davanti a loro e la gloria del Signore li avvolse di luce. Essi furono presi da grande spavento, 10 ma l’angelo disse loro: «Non temete, ecco vi annunzio una grande gioia, che sarà di tutto il popolo: 11 oggi vi è nato nella città di Davide un salvatore, che è il Cristo Signore. 12 Questo per voi il segno: troverete un bambino avvolto in fasce, che giace in una mangiatoia». 13 E subito apparve con l’angelo una moltitudine dell’esercito celeste che lodava Dio e diceva: 14 «Gloria a Dio nel più alto dei cieli e pace in terra agli uomini che egli ama». 15 Appena gli angeli si furono allontanati per tornare al cielo, i pastori dicevano fra loro: «Andiamo fino a Betlemme, vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere». 16 Andarono dunque senz’indugio e trovarono Maria e Giuseppe e il bambino, che giaceva nella mangiatoia. 17 E dopo averlo visto, riferirono ciò che del bambino era stato detto loro. 18 Tutti quelli che udirono, si stupirono delle cose che i pastori dicevano. 19 Maria, da parte sua, serbava tutte queste cose meditandole nel suo cuore. 20 I pastori poi se ne tornarono, glorificando e lodando Dio per tutto quello che avevano udito e visto, com’era stato detto loro”.

Nelle rappresentazioni artistiche a tema sacro uno dei soggetti più rappresentati da sempre è la “Natività”, sia nelle raffigurazioni cattoliche, sia nell’arte orientale.

Come mai è un tema tanto caro agli artisti? Perché illustra l’incarnazione di Dio nel Cristo, il Verbo.

San Giovanni, nel Prologo al suo Vangelo scrive: “In principio era il Verbo, e il verbo era Dio, e il Verbo era presso Dio”.

L’iconografia dell’Adorazione dei pastori inizia a comparire nel ‘400 e sarà comune nel ’600. La tavola in considerazione è opera di George De la Tour, un pittore francese del ‘600.

L’artista era apprezzato nei circoli più colti del tempo; era un pittore della corte reale francese. E’ uno dei primi pittori francesi a seguire il rinnovamento apportato nell’arte da Caravaggio.

L’immagine presenta al centro un neonato che sta dormendo, stretto nelle fasce, disteso immobile su un giaciglio di paglia. Intorno al sono raccolti in silenzio cinque personaggi a semicerchio. Maria, a sinistra, è la figura più luminosa.

La candela che Giuseppe ha in mano illumina il neonato al punto tale che ci pare sia proprio il Bambino Gesù a illuminare i volti, i corpi, i cuori. Ogni figura sembra brillare della luce riflessa del Bambino, luminosissimo. Il realismo di Caravaggio permette a De La Tour grandi effetti evocativi. Illumina i soggetti con piccole fonti di luce che ravvivano tutta la stanza interiore.

Luca racconta l’entrata di Dio nella storia umana; ma il concetto di “storia” allora era diverso dal nostro. Lo storico antico, pur non trascurando questi aspetti, ritiene prioritario il significato dell’evento per l’umanità.

Al versetto 21 Luca però ci dice un dato importante: “Gli fu messo nome Gesù, com’era stato chiamato dall’angelo prima che fosse concepito nel grembo”. Abbiamo tutti ricevuto un nome alla nostra nascita, un nome pensato da chi ci ha generato, un nome che sarà legato per sempre alla nostra identità.

All’ottavo giorno Gesù riceve il suo Nome, “Jeshua”, “Dio salva” Nel nome c’è il suo scopo nel venire alla vita, nel prendere un corpo. Nome e missione sono inscindibili, appartengono all’esserci della persona, non solo come soggetto fisico, ma come identità.

Quindi i pochi cenni di Luca mostrano come Luca voglia dare rilievo alla presenza di un Dio che interviene nella storia umana, per farne una storia sacra. Il Sacro nel quotidiano. In quest’ottica va esaminata l’opera di De La Tour, che colloca gli episodi del Vangelo in ambienti quotidiani, perché vuole attualizzare il messaggio della Salvezza, l’entrata di Dio nella realtà umana.

Vuole raffigurare un Dio che entra in casa, in casa mia, in casa vostra. Il Dio rivelato da Cristo è un Dio che entra. La Tour è un pittore dell’anima, la sua pittura diventa Parola e rivelazione.

Il semicerchio con cui i 5 personaggi si dispongono, e il 5 è un numero biblico, simboleggia Israele, notiamo che è aperto verso noi. L’artista ci invita a percorrere lo stesso cammino dei pastori, perché con essi anche noi «andiamo e vediamo questo avvenimento che il Signore ci ha fatto conoscere» (Luca 2,15).

San Giovanni, nel suo Vangelo, dopo averci detto che “il Verbo era sin dal Principio”, ossia dalla eternità, e che “era Dio, che lui era la vita e la vera luce degli uomini”; ci dice che “i suoi non lo hanno accolto. Ma a quanti l’hanno accolto, ha dato potere di diventare figli di Dio: a quelli che credono nel suo nome, i quali non da carne, né da volere di uomo, ma da Dio sono stati generati”.

Il “credere” ci rigenera come figli spirituali, nella misura in cui accogliamo il Verbo, la Parola, Cristo-Logos, che ci ricrea nell’uomo interiore.

Un Dio fatto carne: De la Tour dipinge un bimbo vulnerabile come altri, ma segno della presenza divina, Egli è il «Dio con noi».

I Pastori sono persone semplici, ma dignitose, De La Tour li raffigura vestiti a festa, le pettinature sono curate: hanno intuito sul volto del Bambino una presenza divina, e la accolgono.

L’artista ha educato lo sguardo, sa distinguere nella povertà del quotidiano lo splendore della presenza di Dio, e con quest’opera invita l’osservatore a cogliere nella nostra e altrui umanità la presenza divina.

Maria veglia rivolta a suo figlio, ma guarda più avanti, senza aureola, ma consapevole del mistero, prega per il Bambino, lo affida al Padre, arde nel suo abito rosso il fuoco dell’amore.

Giuseppe protegge con le mani la fiamma della candela, come poi proteggerà il bambino. La candela accesa nella mano è simbolo del cero acceso nella Messa della notte di pasqua.

L’agnello pasquale e le spighe sono simbolo dell’eucaristia. L’agnellino è l’essere più vicino al Bambino Gesù, l’agnello di Dio. Ecco il messaggio che De La Tour cela nell’opera: acquisendo la consapevolezza della presenza divina nel fragile e nel quotidiano, il nostro sguardo può cambiare. La fede non cambia la realtà, ma il nostro modo di guardarla. Allora l’oscurità può essere superata.

Questa gloria divina ci appartiene, essa è già in noi, e deve crescere. Se impariamo a contemplare, sotto le umili apparenze del Piccino possiamo cogliere la Bellezza divina che prefigura la nostra trasfigurazione definitiva, a immagine del Figlio.

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ARTE E SACRA SCRITTURA

Nelle rappresentazioni artistiche di matrice cristiana uno dei soggetti che più ha attratto gli artisti nei secoli è stata l’annunciazione alla Beata Vergine, come la splendida ”Annunciata” di Antonello da Messina. L’Annunciazione rappresenta uno dei momenti più gioiosi del Vangelo, ci racconta di un “Sì” che ha cambiato la storia, il si di una giovane generosa. E’ l’incontro tra Dio che chiama, e la creatura che risponde, e nella libertà si mette a disposizione:

L’annunciazione – Vangelo di Luca 1,26-38                    Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret,  a una vergine, promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: «Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te». A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: «Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato Figlio dell’Altissimo; il Signore Dio gli darà il trono di Davide suo padre e regnerà per sempre sulla casa di Giacobbe e il suo regno non avrà fine». Allora Maria disse all’angelo: «Come è possibile? Non conosco uomo». Le rispose l’angelo: «Lo Spirito Santo scenderà su di te, su te stenderà la sua ombra la potenza dell’Altissimo. Colui che nascerà sarà dunque santo e chiamato Figlio di Dio. Vedi: anche Elisabetta, tua parente, nella sua vecchiaia, ha concepito un figlio e questo è il sesto mese per lei, che tutti dicevano sterile: nulla è impossibile a Dio». Allora Maria disse: «Eccomi, sono la serva del Signore, avvenga di me quello che hai detto». E l’angelo partì da lei.

L’angelo è inviato a Nazareth, luogo ignorato dall’AT e dalla letteratura successiva. Un luogo della disprezzata Galilea, (“territorio di pagani”), divenuto insediamento di assiri dopo la conquista del Regno del Nord da parte di Salmanassàr V (726-722 a.C.). Una regione imbastardita religiosamente. Il messia non era atteso dalla Galilea; Gesù stesso era chiamato in modo dispregiativo il “Galileo” (Mt 26,69). Gli stessi Cristiani, alle loro origini, venivano chiamati in modo sprezzante “Galilei”. Il testo ci dice che la ragazza si chiamava Maria, nome quasi certamente egiziano, Marye, e significa “prediletta”, “amata”.

Antonello da Messina ha espresso questo gioioso incontro nella Vergine Annunciata (1477, olio su tavola, 37x 35, Palermo, Galleria Regionale di Sicilia). La Madonna viene ritratta mentre sta ricevendo l’annuncio, si direbbe che l’Angelo le sia appena apparso, perché la mano sinistra chiude il manto, a significare riservatezza del corpo e dello Spirito. Maria ha di fronte a sé l’angelo; non lo vediamo, ma c’é. La dipinge su fondo nero, per ottenere profondità: il fondo scuro azzittisce tutto, crea il silenzio attorno a Maria, e risalta la sua figura, posta in un isolamento totale. La conversazione che sta iniziando è tra lei, e l’angelo portatore del messaggio divino. L’artista ci restituisce l’intimità dell’incontro, un momento sacro, come il cuore di Maria, il luogo che accoglie l’annuncio.

L’Artista sa che l’annunciazione è un fatto concreto, reale, ci parla di un amore che si fa carne, perciò conferisce a Maria un modellato intenso, che restituisce alla figura volume e consistenza, anche perché il punto di osservazione risulta abbassato all’altezza del leggio. Ed è proprio nella parte bassa del dipinto, a livello di mani e leggio, che l’artista concentra la nostra attenzione. Le mani e il leggio, esprimono da un lato la capacità conservare la Parola nella mente e nel cuore (la mano sx.); mentre la destra si protende verso di noi, per dirci di fare attenzione, di fidarci e accogliere Dio nella nostra vita. Maria ci dice che più ci fidiamo di Dio e più entriamo nella pace, siamo rassicurati da queste mani e da questo volto; per il suo sì, Dio si è fatto uno di noi. Ciò rassicura il cuore: Dio si è fatto uno di noi.

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INCONTRI CON LA BELLEZZA

 

Iconografia di “Annuncio dell’angelo a Zaccaria”

L‘episodio   evangelico   dell’apparizione   dell’angelo   a   Zaccaria   è illustrato in un affresco nel ciclo di S. Maria dei Ghirli a Campione d’Italia, che conserva cicli di affreschi dal ‘300 al ‘600. Documentata già dall’anno 874 quale chiesa dedicata alla Madonna, venne ricostruita tra XIII – XIV secolo.  La narrativa lucana ci parla di personaggi reali, che hanno un ruolo nella narrazione e sono protagonisti di una storia divina che si attua attraverso loro.   neo-testamentari, attinge dalla Tradizione.

Luca  ci  dà una  notizia  interessante:  quando anch’egli  decise  di intraprendere un racconto, nella 2a metà del I° secolo, erano già in atto tentativi da parte dei primi seguaci di Cristo di riportare in modo ordinato racconti, parabole, detti di Gesù, perché il tutto non andasse perduto. I Vangeli sono infatti un assemblaggio di brevi unità narrative raccolte nelle prime comunità (es. il Vangelo di Matteo e di Luca sono i primi tentativi di dare forma ordinata alla narrazione sulla storia di Gesù). I Vangeli non furono i primi scritti su Gesù, ma fecero riferimento a scritti   sparsi   presso   le prime   comunità di credenti, o  elaborati   da predicatori itineranti, che si appuntavano ciò che dovevano annunciare. Probabilmente la predicazione non era soltanto il  kerigma,   cioè l’annuncio degli eventi della passione, morte e risurrezione di Gesù, ma anche racconti di miracoli, di riporto di suoi detti.

La fede, pertanto, non si è fondata su di una qualche ideologia, ma ha avuto origine in un evento saldamente radicato alla storia, da cui si è poi originato l’annuncio, e con l’annuncio la fede. Quanto Luca scrive è una ricerca eseguita con grande accuratezza, andando all’origine dei fatti e accertandosi  della loro veridicità tramite testimoni diretti, quelli che Luca definisce come “autóptai”. Di questi, all’epoca   di   Luca,   con   certezza   ve   ne   era   ancora   uno:   Giovanni,   il discepolo prediletto.

I temi dell’infanzia di Gesù e del suo concepimento non destarono particolare interesse nella chiesa nascente, che preferì il periodo tra il battesimo di Giovanni e l’ascensione di Gesù (At 1,22).

Tuttavia, Matteo e Luca dedicano agli episodi dell’infanzia di Cristo molta   attenzione.    posizione altolocata,   che   finanziava   la   sua   missione,   considerata   la   posizione sociale di Luca, medico e conoscitore di diritto.

 

Vangelo di Luca 1,5-25

Al tempio di Erode, re della Giudea, c’era un sacerdote chiamato Zaccaria, appartenente alla classe di Abia; la sua sposa, una discendente di Aronne, si chiamava Elisabetta. *Dal punto di vista religioso, erano ambedue  fedeli, perché in modo integerrimo praticavano tutti comandamenti e i

precetti del Signore. *Ma non avevano figli, perché Elisabetta era sterile  ed entrambi erano avanti negli anni. *Per Zaccaria venne il turno,  assegnato alla sua classe, di servire nel tempio di Dio. *Secondo l’usanza  del servizio sacerdotale, egli fu scelto a sorte per offrire l’incenso dentro il

santuario del Signore. *Durante l’ora dell’offerta dell’incenso tutta l’assemblea del popolo pregava all’esterno. *Allora gli apparve un angelo  del Signore, in piedi alla destra dell’altare dell’incenso. *A quella vista  Zaccaria fu sconvolto e un religioso timore si impossessò di lui. *Ma l’angelo gli disse: Non temere, Zaccaria, la tua preghiera è stata ascoltata; la tua sposa Elisabetta ti darà un figlio e gli metterai nome Giovanni.  *Questo sarà per te motivo di gioia e di letizia e molti si rallegreranno per la sua nascita. *Egli infatti avrà un grande compito da parte del Signore; per questo non berrà né vino, né altre bevande inebrianti e sarà  consacrato dallo Spirito Santo fin dal seno di sua madre. *Suo compito  sarà di convertire al Signore, loro Dio, molti del popolo d’Israele, *preparando la sua venuta con lo spirito e la forza di Elia, in modo da  realizzare una tale conversione che i padri si compiaceranno nei figli e i ribelli torneranno a sentimenti di vera giustizia, e così presentare al

Signore un popolo ben disposto. *Zaccaria disse all’angelo: Quale prova ho per sapere se questo è vero? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni.*L’angelo gli rispose: io sono Gabriele, uno di

quelli che stanno direttamente agli ordini del Signore, e sono stato inviato per comunicarti

questa buona notizia. *Ebbene, poiché tu non hai voluto credere alle mie parole che si compiranno al momento stabilito, ecco che sarai ridotto al silenzio e non potrai più parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno. *Intanto il popolo stava in attesa di Zaccaria e si meravigliava per il suo indugiare nel santuario. *Ma quando uscì egli non riusciva a parlare; allora compresero che nel santuario aveva avuto una visione. Egli tentava di farsi capire con cenni, ma restava muto. *Quando

terminò il periodo del suo servizio al tempio, ritornò a casa. *Qualche tempo dopo Elisabetta, sua moglie, rimase incinta e non si fece vedere per cinque mesi, mentre andava pensando tra sé: * Ecco come ha agito con me il Signore, ora che si è degnato di porre termine a quella che era la mia vergogna in mezzo alla gente.

I primi personaggi introdotti da Luca sono Zaccaria ed Elisabetta.Entrambi   appartengono   alla   classe  sacerdotale, Zaccaria quale sacerdote ed Elisabetta, sua moglie, in quanto “discendente dalle figlie di Aronne”. Al sacerdozio ebraico non si accedeva per consacrazione, né aveva la sua sacralità. Era solo una funzione di servizio al Tempio, e si ereditava per nascita, per la semplice appartenenza alla tribù di Levi, che Jhwh aveva scelto per il suo servizio, per la fedeltà che questa tribù aveva dimostrato al vero culto di Dio durante l’episodio del “vitello d’oro”(Es 32,25-29).

Al   tempo   in   cui   Luca   scrive   vi   era   un   numero   esorbitante   di sacerdoti: circa 20.000, addetti al servizio del Tempio, suddivisi in 24 classi sacerdotali. Zaccaria faceva parte dell’8° classe, quella di Abia Luca 1:11-13

La gravità della situazione viene rilevata dal tempo all’imperfetto, indicante  un’irreversibile situazione:   “non   avevano   un   figlio”.   Tutto sarebbe finito con la loro morte.

 

Veniamo al dipinto: la scena di Zaccaria con l’angelo nel tempio, rara nell’arte occidentale, in quella orientale è stata spesso raffigurata, sia negli affreschi, che nelle icone.

L’episodio è illustrato in un affresco nel ciclo di S. Maria dei Ghirli a Campione d’Italia. La chiesa conserva un ciclo di affreschi trecenteschi.

Nella scena compaiono l’arcangelo Gabriele e Zaccaria, ambientati in un’edicola   poligonale,  simbolo del tempio di Gerusalemme.  L’artista dipinge strutture filiformi, esili, secondo il gusto gotico. Le esili strutture gotiche ben si prestano a illustrare  un’apparizione angelica.

L ‘arte tardo-gotica è un’arte raffinata, compare nelle corti europee, efa grande impiego di argenti e ori, anche negli affreschi; e l’angelo è vestito di luce.  L’architettura gotica   incornicia   l’incontro,   contestualizzato dall’edificio. L’artista è stato in grado di rendere bene la reazione di Zaccaria alle parole dell’angelo.

​L’evento era di enorme importanza, perché secondo la mentalità giudaica   non   si   potevano   coniugare   tra  loro  santità  e  sterilità;   la mentalità giudaica valutava la sterilità una punizione divina. Per questo, per rassicurare Zaccaria, l’apparizione avviene nella parte antistante il “Sancta Sanctorum”, in quello spazio sacro che favorisce il rapporto uomo-Dio. Zaccaria aveva dubitato delle parole dell’angelo: Come potrò mai conoscere questo? Come posso fidarmi? Io sono vecchio e mia moglie è avanti negli anni, dubita, non crede che l’onnipotenza divina, che lo ha tratto all’esistenza dal nulla, possa creare di nuovo e fecondare il grembo della moglie ormai senza più capacità di generare. Infatti l’angelo gli dice: «Io sono Gabriele, che sto dinanzi a Dio” hai davanti a te un essere celeste, l’annuncio è divino. Ed ecco, tu sarai muto e non potrai parlare fino al giorno in cui queste cose avverranno, perché non hai creduto alle mie parole, che si compiranno a loro tempo». Ossia, “Poiché non hai creduto alla Parola di Dio, la Parola ti verrà tolta”. Non è una punizione, questo gesto divino va interpretato come un segno, che in seguito Zaccaria saprà interpretare, quando la Parola gli verrà ridonata.  L’artista ha ben reso la reazione di Zaccaria all’annuncio angelico: la sua figura si incurva in avanti, ma non in atto di riverenza verso l’angelo divino, bensì per contestare le sue parole, e lacontestazione è evidente nella gestualità delle  mani, contraddette dal movimento della mano destra dell’Arcangelo Gabriele, un gesto che è un monito:  “Ecco, resterai muto, perché non hai creduto alla mia parola”.

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LEONARDO – TECNICA PITTORICA 011.

La prospettiva consente al corpo di essere presente nella realtà bidimensionale della superficie pittorica. proprio il passaggio dalla figura al corpo é la chiave di volta della Scienza della pittura. Alla conoscenza prospettica di Leonardo concorrono numerose osservazioni naturali, studi di ottica e di geometria, testimoniati in innumerevoli fogli dei codici. Egli conduce numerosi studi relativi alla prospettiva lineare, vuole capire come la realtà si presenta allo sguardo e come è possibile rappresentare una realtà che appaia come vera. Considera le classiche teorie dell’estromissione o intromissione dei raggi luminosi e predilige quella dell’intromissione.

Come appare in un codice della fine del secolo XV, queste indagini ottiche sono da leggere nel quadro della “Scienza della pittura”; in modo particolare, Leonardo è cosciente della discrepanza tra il passaggio dalla realtà, alla sua rappresentazione e conduce su questo tema degli interessanti studi.

L’artista-scienziato riprende la tradizione brunelleschiana dello specchio come strumento prospettico, e ritrova nelle superfici specchianti la condizione migliore per studiare il passaggio dal corpo reale, alla superficie rappresentativa. In questi termini, lo specchio diventa il migliore punto di riferimento per verificare l’efficacia realistica dell’opera pittorica.

Scrive Leonardo: “Soprattutto lo specchio si deve pigliare più a suo maestro, c’è lo specchio piano, imperocché sulla sua superficie le cose hanno similitudine con la pittura in molte parti. Cioè lo specchio richiama la prospettiva come un guardare attraverso”.

Ecco che allora che è come se lo specchio fosse il riflesso della finestra di vetro di cui parla Leon Battista Alberti, o il piano di taglio della piramide visiva.

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LEONARDO – TECNICA PITTORICA 010.

Nella caverna della Vergine delle Rocce la luce illumina, ma i corpi proiettano ombre potenti, tutte d’un medesimo colore. Nella caverna della Vergine delle Rocce l’ombra più scura e quella più vicina alla luce. Così le ombre assumono i colori dei corpi come ad esempio nella Dama con l’ermellino, dove la mano e la manica del braccio che regge l’ermellino stesso si scambiano i colori delle ombre.

Data l’importanza attribuita al rilievo dei corpi, la prospettiva aerea riveste un ruolo fondamentale che articola la figura, il colore,  l’ombra. La prospettiva è lo strumento principale per una rappresentazione pittorica conforme alla realtà.

Leonardo Propone anche un percorso di formazione per il pittore che parte dall’ apprendimento della prospettiva. L’artista parla di tre tipi di prospettive, cioè “Diminuzione delle figure dei corpi, diminuzione delle magnitudini loro e diminuzione dei loro colori”. Esistono dunque, la prospettiva lineare, la prospettiva di definizione dei dettagli e la prospettiva dei colori.

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LEONARDO – TECNICA PITTORICA 009.

Nela suo “Trattato della Pittura”, Leonardo propone anche alcuni consigli sul pigmento pittorico in quanto materia. Leggendo i suoi scritti, pare quasi di vedere il Genio di Vinci al lavoro, mentre impasta le materie, spalma i colori, effettua le velature. Soprattutto, la tecnica della velatura a olio, con la sovrapposizione di strati trasparenti di colore, consente di rappresentare l’atmosfera.

Minuscole gocce di luce si interpongono tra l’Osservatore e gli oggetti via via più lontani, fino all’orizzonte. Mediante la velatura, Leonardo può dipingere l’effetto del rilievo: la velatura materializza il pigmento rendendolo colore.

Per questo i paesaggi di Leonardo sono profondi e le montagne acquistano rilievo. Ciò si evince, in modo esemplare, nel paesaggio alle spalle di Monna Lisa, dove l’atmosfera è data da piani graduati in lontananza, a evidenziare ricordi e stati d’animo in perenne divenire.

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LEONARDO – TECNICA PITTORICA 008

Secondo Leonardo si trova “il vero colore nel caso di un cielo terso. Questo non accade mai potersi vedere se non nel colore Turchino posto per piano in verso il cielo sopra un altissimo monte, a ciò che in tal Loco non possa vedere altro obietto, è che il sole sia occupato, nel morire, da bassi nuvoli, è che il piano sia del colore dell’aria”.

Il cielo come pura luce appare forse anche nelle finestre che si aprono nel fondo della Madonna Benois. Per Leonardo, il vero colore non esiste in natura, se non in un cielo turchino. Infatti, l’artista sottolinea che vi è sempre un concorso di colori che si sovrappongono fino a stabilire la tinta finale.

Scrive:

“Il Rosato anche gli cresce di bellezza quando il sole che la Lumina nell’occidente rosseggia e insieme con le nuvole che se gli interpongono, benché in questo caso si potrebbe ancora accettare per vero, perché se il Rosato alluminato di Allume rosseggiante mostra più che altrove bellezza, gli è segno che lumi da altri colori che Rossi gli toglieranno la sua bellezza naturale”.

Spesso infatti le finestre si aprono su paesaggi in cui montagne e cielo dialogano cromaticamente, come nelle tre finestre che si aprono alle spalle di Gesù nel Cenacolo. L’aria in se stessa non avrebbe colore, ma prende la luce del sole. Per questo Leonardo dipinge l’azzurro dell’aria nel paesaggio di fondo.

 
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LEONARDO – TECNICA PITTORICA 007.
 
Leonardo distingue i colori fondamentali che cita nei suoi studi: rosso, verde, azzurro e giallo, come cerca di motivare in alcuni fogli del Codice Atlantico.
Scrive l’artista: “l’azzurro si sparge sopra il giallo e lo fa verde, e si sparge sopra il rosso e fassi paonazzo”.
Nel Libro di Pittura troviamo varie classificazioni e Leonardo con grande originalità parla della composizione pittorica rispetto a luce ed ombra.
E’ particolarmente interessante lo scritto in cui elenca 8 colori naturali. I colori sono dunque per Leonardo presenza o assenza di luce, e spiega il legame tra colore e luce, perché da questi 8 colori derivano per composizioni tutti gli altri.
La composizione dei colori naturali permette infinite sfumature e passaggi di tono. Nel libro della pittura Leonardo indica anche i colori semplici in numero di 6, e precisa che “l’azzurro e il verde non è per sé semplice, perché l’azzurro è composto di luce e di tenebre, come è quel dell’aria, cioè nero perfettissimo e bianco candidissimo”. Il verde è composto d’un semplice e di un composto, cioè si compone d’azzurro e di giallo.
Leonardo, Ultima Cena, part. (Milano, Santa Maria delle Grazie)
 
 
 
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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 006

Leonardo, Studio di Ottica (Disegno, Royal Collection)

Vasari ricorda come il giovane Raffaello si lasciò influenzare dall’arte di Leonardo: guardando “l’Adorazione dei magi” del Maestro di Vinci, imparò a disegnare col pennello, tanto da adottare la modalità anche in alcuni disegni preparatori per le Stanze Vaticane. Per Leonardo, il fine del disegno consiste nella capacità di disegnare la realtà dalla stessa realtà (copia dal vero) quindi il disegno è una scuola per conoscere la realtà.

La seconda parte della Scienza della pittura parla del colore e della luce. Tra i due vi è una relazione strettissima, non esiste l’uno, senza l’altra.

Leonardo è stato il primo a lavorare sperimentalmente sul colore delle luci e delle ombre, a lui risalgono i primi esperimenti che si conoscano sia con le ombre colorate, sia con le sorgenti di luce di diversa colorazione.

Nel colore, ombra e luce si incontrano, perché, scrive Leonardo, “La pittura è imitatrice de’ colori per li quali el pittore s’affatica a trovare che le ombre sieno compagne de’ lumi”. Tuttavia, l’approccio vinciano presenta una novità, rispetto alle pratiche del tempo, per gli attenti studi della variabilità dei colori stessi con il variare della luce. 

L’ombra appare dipinta come parte del colore, in quanto l’ombra è privazione di luce.

Leonardo distingue il lume in 4 tipi fondamentali: l’universale, il particolare, il riflesso e infine quello che passa attraverso mezzi parzialmente trasparenti, come la tela e la carta.

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Gentilissimi,

sono lieta di informarvi che su “IL GIORNO” di Sabato 13 Marzo è uscito un articolo interamente dedicato al mio caro papà, Pier Luigi Sangalli, fumettista da una vita.

A cura del giornalista Andrea Bonzi. Buona lettura!

Elisabetta Sangalli

 

“Dal mio Braccio di Ferro al diavolo Geppo I fumetti
di una volta sono tornati di moda”

 

Il decano italiano della matita, 82 anni, è un vero recordman: in carriera ha realizzato circa 70mila tavole

Pubblicato il 13 marzo 2021, di ANDREA BONZI

 

Pierluigi Sangalli, 82 anni, con alcuni dei suoi disegni di Braccio di Ferro

MILANO – Braccio di Ferro, mangiatore di spinaci e raddrizzatore di torti. Il diavolo Geppo, sempre pronto a una buona azione anche all’Inferno. E ancora Provolino e Topo Gigio, beniamini della tv per bambini. La matita di Pierluigi Sangalli, 82 anni, ha dato vita su carta a moltissimi personaggi dei fumetti, divertendo e insegnando a leggere intere generazioni di italiani. Colonna portante del fumetto umoristico italiano, Sangalli è un vero recordman: nella sua carriera ha realizzato poco meno di 70mila tavole (!), di cui la metà del forzuto marinaio ideato da Segar. Questi personaggi, a parte quelli in licenza (da Popeye a Felix il Gatto), non hanno goduto del traino di trasposizioni cinematografiche o animazioni recenti in stile Disney-Pixar, eppure, da Nonna Abelarda a Soldino, hanno caratterizzato un’epoca se si vuole ’ingenua’ (anche se non mancavano le notazioni di costume), insegnando a leggere generazioni di italiani. E oggi c’è una riscoperta di questi albi dal tratto e dalle storie semplici ma riconoscibilissime. Un revival dovuto, spiega l’autore, “proprio al sapore di artigianalità di queste pubblicazioni. Credo sia l’elemento che interessa i collezionisti”.

Sangalli, come ha intrapreso il mestiere di disegnatore? Negli anni Cinquanta era tutt’altro che scontato…

“Ho completato gli studi di ragioneria, ma quello del contabile – realizzai dopo un paio di tentativi – non era il mestiere che faceva per me. Un mio amico dell’oratorio aveva trovato un posto di lavoro alla casa editrice Alpe, che stampava fumetti per ragazzi, e mi mostrò i suoi disegni. Gli dissi quanto mi sarebbe piaciuto fare quel mestiere: allora non esistevano scuole di fumetto, ma questo amico fu ben felice di insegnarmi tutto ciò che conosceva. Cominciò a farmi lezioni a casa, finché mi suggerì di fare il giro degli editori di Milano con una mia breve storia da mostrare. Quell’amico era Alberico Motta, disegnatore e sceneggiatore di fumetti”.

Fu facile trovare posto?

“Dopo un primo giro a vuoto, Motta si ricordò delle Edizioni Il Ponte, che si chiamavano così perchè avevano la sede a pochi passi da un ponte ferroviario. Salii al primo piano e mi accolse un omone, che lesse la mia breve storia: ’Mica male – osservò – ho giusto bisogno di un ripassatore’. Quell’editore, come può immaginare, era Renato Bianconi. Iniziò tutto così”.

Passiamo ai personaggi, quali sono i suoi preferiti?

“Difficile dirlo. Ne ho disegnati almeno una cinquantina, tra quelli creati da me, quelli creati da altri autori e quelli di copyright. Parlando di questi ultimi, al primo posto sicuramente Braccio di Ferro. Poi Geppo, che ho cominciato a disegnare dal 1961, fino a quando l’impegno per il marinaio me lo permise, pur continuando sulle copertine”.

Ecco, come mai l’idea di un Diavolo buono – un ossimoro – fu così vincente?

“L’idea si deve a un amico di Giovan Battista Carpi, Giulio Chierchini, il quale disegnò la prima storia di ’Gep’. Carpi ne intuì il valore, lo modificò e lo propose a Bianconi. Apparvero una dozzina di storie, perché poi Carpi iniziò a collaborare con Mondadori. Quando iniziai la mia collaborazione, mi affidò subito di disegnarne le storie. Nel 1961 nasceva l’albo di Geppo, che durò fino al 2000”.

Un po’ come è successo con i Disney italiani, anche il Braccio di Ferro disegnato da lei e dai suoi colleghi è considerato il vero erede di quello di Segar. Come nacque l’idea di realizzare ’in proprio’ le avventure del marinaio?

“Quando l’agenzia che deteneva il copyright propose a Bianconi di fare un albo con Braccio di Ferro, lui non era convinto. Il personaggio era già apparso in Italia ma non aveva raccolto gradimento, perché le strisce in America erano stampate a piè di pagina sui giornali e le storie si sviluppavano con lentezza. Negli albi non avrebbe mai funzionato. Fui io a convincerlo che bastava conferire ai personaggi un aspetto più ’italiano’ e far interpretare al marinaio guercio storie più movimentate, adatte ai nostri lettori con meno di 14 anni. La scelta ha funzionato per quasi quattro decenni e l’editore restò sempre quello principale nella pubblicazione del Popeye americano”.

Lo sa che Braccio di Ferro era il personaggio preferito di Lucio Dalla e Monica Vitti, che ne parlano a lungo in un’intervista del 1980?

“Sapevo della Vitti e della cantante Mina, lo avevo sentito dire da loro in un programma alla radio. Mentre lavoravo, la tenevo sempre accesa. Proprio a Mina ho fatto pervenire un disegno di Braccio di Ferro, alcuni anni fa”.

C’era differenza nel disegnare storie per personaggi nati in tv, e già famosi, come Provolino e Topo Gigio?

“I creatori dei personaggi nati per la tv tenevano molto all’immagine dei loro pupazzi, ma capivano che l’impiego nel fumetto era un’altra cosa. Mi ricordo quando Maria Perego, creatrice di Topo Gigio, radunò negli studi dell’editore noi fumettisti per vedere come sarebbe stato trattato il suo personaggio, soprattutto nel volto. Diede l’ok e fu favorevole”.

Ha realizzato anche una parodia del western, in particolare Dormy West. Ce la racconta?

“Dormy West era uno sceriffo dormiglione. I suoi concittadini lo vedevano spesso sonnecchiare fuori dal suo ufficio ma riusciva sempre a catturare il bandito di turno, grazie a enormi starnuti che travolgevano l’avversario”.

Ha trascorso quasi 40 anni alle edizioni Bianconi, vivendone quasi tutta la parabola: una fucina di talenti dove, però, si lavorava senza sosta. Che tipo di clima di respirava?

“L’aria che si respirava era stata quasi sempre determinata dalla moglie, addetta ai regolamenti dei conti. Bianconi non voleva saperne di pagamenti e lasciava fare tutto a lei. Era difficile che concedesse aumenti, anche nei periodi più duri. Molti autori che avevano varcato il suo ufficio, avevano poi trovato lavoro altrove. Quelli che erano rimasti, invece, si adattavano, studiando sistemi per accelerare i tempi di produzione delle tavole. Mi ero organizzato trovando amici e parenti che mi aiutassero a individuare soggetti per le storie e idee per le copertine. Il risultato fu sempre ottimo”.

Ma quante tavole disegnava al mese?

“Nei momenti migliori riuscivo a produrre 200 tavole al mese. Le matite che passavo all’inchiostratrice dovevano essere solo seguite dall’unica traccia che ottenevo al tavolo da ricalco di bozzetti preparati in precedenza. Ho calcolato di aver realizzato, tra storie e copertine, poco meno di 70mila tavole, di cui la metà di Braccio di Ferro”.

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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 005

“Paesaggio della vallata dell’Arno” (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi)

Per la formazione artistica, Leonardo indica un percorso preciso:

“Precetti del pittore. Il pittore debbe prima suefare la mano con ritrarre disegni di mano di boni maestri, e fatto detta suefazione col giudizio col suo precettore, diebbe di poi suefarsi co ritrarre cose di rilievo bone, con quelle regole che del ritrar si dirà”.

Anche la formazione di Leonardo ha avuto il disegno come elemento centrale, e il primo disegno autografo di Leonardo consiste nel “Paesaggio della vallata dell’Arno” (Gabinetto disegni e stampe degli Uffizi), datato 5 agosto 1473. Leonardo aveva 21 anni, i disegni degli anni di apprendistato sono andati perduti.

Sappiamo però del lungo periodo di tempo trascorso da Leonardo presso l’affermata Bottega del Verrocchio, in cui studiarono numerosi artisti.

Le prime opere mostrano grande autonomia, conquistata però a partire dallo studio, a partire da un maestro. Non solo infatti si nota la mano di Leonardo come collaboratore di dipinti, e l’esempio più significativo è il Battesimo di Cristo, ma si nota anche nei disegni di Leonardo la presenza di elementi desunti da opere scultoree di Verrocchio.

Leonardo stesso è subito maestro per tanti giovani artisti che cercano di imparare da lui, anche imitando le sue opere, lavorando in gruppo.

Se Leonardo spesso nei suoi scritti parla della positività del dipingere in solitudine, sa bene però che il confronto con gli altri provoca un miglioramento; scrive: “disegnare in compagnia è molto meglio che solo, per molte ragioni… la invidia buona ti stimolerà ad essere nel numero dei più Laudati di te, l’altra è che tu piglierai di chi farà meglio di te”.

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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 004

Leonardo, Ritratto di Ginevra Benci (Washington, National Gallery)

Per la resa realistica della pittura, Leonardo evita che il profilo dei corpi sia marcato, se non in particolari condizioni di luce e ombra.

Scrive l’artista: “Li termini e figura di qualunque parte de’ corpi ombrosi ma si conoscono nelle ombre e ne’ lumi loro, ma nelle parti Interposte in fra li lumi e le ombre le parti d’essi corpi sono in primo grado di notizia”.

In particolare, il pittore non deve mai segnare il profilo dell’ombra.

Scrive infatti: “l’ombra, le quali tu discerni con difficultà e i loro termini non puoi conoscere, anzi, con confuso giudizio lo pigli e trasferisci nella tua opera, non le farai finite, ovvero terminate, chè la tua Opera fia di legnosa risultazione”. Infatti, per Leonardo segnare un contorno preciso all’ombra significa cancellarla, annullarla.

Leonardo tende a sovrapporre linea e colore lungo i profili delle forme. Consiglia di fare “i termini colorati”, cioè di colorare il contorno, espandendo il colore: il termine del corpo, sebbene non appaia alla fine come un contorno segnato, è un contorno disegnato che risulta mediante il colore. Questo appare ad esempio nel ritratto di Ginevra Benci (Washington – National Gallery) dove il contorno del volto è segnato dal colore scuro su cui si definisce.

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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 003

Leonardo, Vergine delle Rocce (Louvre)

Leonardo rappresenta nei suoi disegni e nei dipinti tutti gli elementi: l’acqua (es. lo Studio del diluvio conservato alla Windsor Royal Library); la terra (es. nella Sant’Anna  e Madonna con Bambino del Louvre); l’aria e il fuoco (disegni conservati alla Royal Library). Raffigura il corpo nei suoi vari atteggiamenti, posizioni e il volto nei stati d’animo, raffigura paesaggi, flora e fauna. Ogni aspetto della realtà attira il Genio universale.

Nelle opere pittoriche il suo processo di conoscenza è affidato alla capacità della sua mano esperta. L’opera pittorica ci restituisce la sua conoscenza della realtà, perché per Leonardo la pittura non solo raffigurazione, ma anche via alla conoscenza. Pertanto, il pittore manifesta la sua discendenza da Dio. Scrive il Genio di Vinci: la pittura è nipote della natura, che è parente di Dio, i pittori sono nipoti a Dio”.

La pittura è per l’artista-scienziato un bene universale, ed è composta essenzialmente di due parti articolate: disegno e prospettiva; colore e ombra.

La prospettiva appare intermedia tra queste due parti, essendo la propsettiva lineare propria del disegno, mentre la prospettiva cromatica appartiene al colore e all’ombra.

 

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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 002

Nel libro di pittura di Leonardo leggiamo più volte la necessità di combinare la teoria e la pratica: “Studia prima la scienza e poi seguita la pratica nata da essa scienza” e anche quelli che s’innamorano di pratica senza scienza, sono come  quelli che entrano in Naviglio senza timone o bussola che mai hanno certezza dove si vadano. Sempre la pratica dev’essere edificata sopra la bona teorica”.

Per Leonardo La conoscenza e la rappresentazione della realtà costituiscono un binomio indissolubile; questo rapporto tra teoria e tecnica permette alla pittura di conformarsi alla realtà:

“La pittura è capace di considerare sia le opere umane che quelle divine, purché siano corporee. Ma la deità della Scienzia della pittura considera l’opere così umane come divine, le quali sono terminate dalle loro superfizie, cioè linee de’ termini de’ corpi”.

Il pittore deve essere in grado di dipingere ogni cosa e “Non può essere un bravo pittore se si limita alla rappresentazione di un solo genere di realtà: quello pittore non fia universale che non ama equamente tutte le cose che si contengono nella pittura” e conoscendo noi che la pittura braccia e contiene in sé tutte le cose che produce la natura, e che conduce l’accidentale operazione degli omini, et in ultimo ciò che si può comprendere con gli occhi, mi pare un tristo maestro quello che con solo una figura fa bene”.

 

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LEONARDO DA VINCI: TECNICA PITTORICA 001
Il pittore con grand’agio siede dinanzi alla sua opera ben vestito, e move il levissimo pennello con li vaghi colori, et ornato di vestimenti come a lui piace; e l’abitazione sua piena di vaghe pitture, et pulita, et accompagnata spesse volte di musiche, o lettori di varie e belle opere, a quale, senza strepito di martelli od altri rumori misto, sono con gran piacere udite”. (Leonardo da Vinci, Libro di pittura cap. I, 36).

Per Leonardo la “Scienza della pittura”, come ogni tecnica, implica una profonda conoscenza e poi una conseguente applicazione in una conoscenza virtuosa di rappresentazione dove sono costantemente coinvolti mente-occhi-mani.
Lo stretto legame tra teoria e pratica è, infatti, l’aspetto ricorrente dell’attività artistica leonardiana, riscontrabile nella trattatistica, nei disegni, nell’opera pittorica, e nella stessa immagine che egli ama dare del pittore mentre dipinge “elegantemente vestito, nell’armonia della musica”.

Per analizzare la tecnica pittorica di Leonardo occorre pertanto tener sempre insieme la teoria e la pratica, analizzando le sue opere alla luce di quella miniera di conoscenza che è il Genio di Vinci.
La vera scienza secondo Leonardo, coinvolge sia la teoria che la pratica; implica sia le dimostrazioni matematiche che l’esperienza; “la vera scienza si identifica proprio con la scienza della pittura la quale è prima nella mente del suo speculatore, e non poter venire alla sua perfezione senza la manuale operazione”.
Scrive inoltre Leonardo: “La scelta della pittura con l’invenzione della prospettiva, rende vedente la geometria:
perché il pittore quello che per necessità della sua arte ha partorito essa prospettiva, e non si può fare per sè sanza linee, dentro alle quali linee si chiude tutte le varie figure dei corpi generati dalla natura, è sanza di quale l’arte del geometra è orba”.
Dunque la scienza della pittura è per Leonardo “vera” scienza, coinvolgendo il discorso mentale, la razionalità matematica. L’esperienza e l’operazione manuale coinvolge occhi, mente, mani.
Come la scienza, così anche la pittura, è universale.
Il pittore può, e deve, conoscere e rappresentare tutto, “ed in effetti ciò che nell’universo per essenzia, presenzia o immaginazione, ecco il pittore l’ha prima nella mente, e poi nelle mani. L’occhio che si dice finestra dell’anima è la principale via donde il comune senso po’ più copiosa e magnificamente considerare le infinite opere de natura” e ancora “l’opere che l’occhio comanda alle mani sono infinite”.

Le rubriche di Luigi Sangalli

DANTE CON  SIMPATICA  IRONIA ….

 

Nel 700mo anniversario della nascita del nostro Sommo Poeta voglio aggiungermi al coro dei celebranti con alcune osservazioni particolari.

In primo luogo, occorre rilevare che il polso del Poeta era degno di un Rafa Nadal in forma, poiché, avendo scritto, a mano, i tre canti, penso che qualche problema di tendinite l’abbia avuto.

L’inchiostro usato è certamente indelebile, in quanto lo scritto si è tramandato per oltre cento anni, prima dell’avvento della stampa del 1455 (Wikipedia). Se noi vediamo che l’inchiostro degli scontrini fiscali di oggi sbiadisce dopo qualche mese…

La questione femminile non è un argomento molto sentito, infatti la presenza di donne nei tre canti è molto limitata, vediamo in questi giorni il clamore per portare due capigruppo donne nel PD.

Beatrice, per certi versi è come Livia di Montalbano, alla fine della storia scompare, forse lasciata con un bello  scritto, perché a scrivere era proprio bravo.

Brunetto Latini, maestro di Dante, lo troviamo fra i sodomiti. Anche qui c’è poca sensibilità verso la diversità, oggi non so che cosa gli avrebbero detto. Mi sorge un dubbio però, se il suo maestro è stato  messo tra i sodomiti, qualcosa doveva aver provato anche Lui, o no? Anche il trattamento che riserva al buon Brunetto,  non lo aiuta, abbassa lo sguardo ed indica una serie di prelati, figure importanti con lo stesso “vizietto”. Come oggi….

Faccio fatica ad accettare che per ogni categoria di peccatori sia prevista una pena. Di Paolo e Francesca sono piene le cronache di tutti i giorni. E poi perché punire i lussuriosi, sarà mica stata invidia. (ved. Brunetto Latini)

Per una questione personale, non posso accettare la pena riservata ai golosi (mangiare escrementi) e che diamine, non bastava dare loro una bella dieta, che a volte è altrettanto punitiva? E se una dieta era poca dargliene due!

E per finire mi chiedo, quanti, fra coloro che oggi  celebrano Dante, ai tempi della scuola, erano altrettanto estimatori? La paura dell’interrogazione, di commentare dei passi non lo rendevano certo gradito agli studenti.

Con un sorriso …

Rubriche di Sergio Santilli

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Telescopi spaziali
Il James Webb Space Telescope

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Increspature negli anelli rivelano la
natura del nucleo di Saturno

Un mastodontico frappè
di elementi diversi

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Un mistero del cosmo

La Materia Oscura (Dark Matter)
Esiste, ma non si vede.
Tiene insieme miliardi di stelle nelle galassie.

 

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Il 2020: SOLO UN ANNO DI GUAI? 

Anche se la maggior parte di noi lo vede come “fumo negli occhi”, quest’anno ha portato qualche gradevole sorpresa in ambito scientifico.
La più interessante è la scoperta di acqua sulla luna annunciata lo scorso ottobre dalla NASA, che gestisce SOFIA (Osservatorio Stratosferico per l’Astronomia Infrarossa), un telescopio montato su un jumbo jet.
Proprio questo peculiare strumento ha rilevato la presenza della radiofrequenza tipica delle molecole d’acqua sulla superficie lunare all’interno del cratere Clavius.
Caso vuole che Clavius sia il luogo scelto da Stanley Kubrick per collocare la base lunare statunitense nel film 2001 Odissea nello Spazio del 1968.
Dunque nel cratere “simbolo” di Kubrick c’è acqua, anche se non si capisce affatto come possa esserci, dato che l’acqua sulla superficie lunare – non essendo questa protetta da un’atmosfera – dovrebbe perdersi immediatamente nello spazio.
Chissà mai che gli USA non scelgano davvero quel posto per costruirci una base lunare nei prossimi anni?

 

 

Le Rubriche di Costantino Truppi

Napoli: Maria D’avalos:
Una tragica storia d’amore e  mistero

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Peppe Navarra, “il re di Poggioreale”

Il Museo del Tesoro di San Gennaro raccoglie donazioni ed ex voto offerti al patrono da sovrani, pontefici, nobili e popolo nell’arco di sette secoli: documenti, paramenti, reliquiari, opere e oggetti d’arte sacra estratti dall’ingentissimo e celebre Tesoro di San Gennaro, che prima erano custoditi dalla Deputazione fondata nel 1527. Infatti il Tesoro non è proprietà della Curia o del Vaticano, ma fa parte della Reale Cappella del Tesoro di San Gennaro, che è proprietà della città di Napoli.

È più ricco del tesoro della corona d’Inghilterra e del tesoro dello zar (Nelle immagini la collana e la mitra gemmata di San Gennaro, di valore inestimabile).

C’è un episodio che non molti conoscono. Quando scoppiò la seconda guerra mondiale, il Tesoro fu portato in Vaticano per proteggerlo sia dalle bombe, sia dai furti, ma, terminata la guerra, il papato non ne voleva proprio sapere di restituirlo alla città di Napoli, che come detto ne è proprietaria.

Le motivazioni ufficiali facevano riferimento al grande valore della collezione e ai rischi del suo trasporto in una situazione dove, per la povertà e la fame derivanti dalla guerra, il numero di banditi era molto alto. Nella sostanza invece, è plausibile anche la volontà di tenere nel Vaticano quei preziosi di immenso valore.

Dopo i vari rifiuti alle continue richieste dell’arcivescovo di Napoli Alessio Ascalesi, Peppe Navarra, un cosiddetto guappo, detto “il re di Poggioreale” (Poggioreale è un quartiere di Napoli, sovrastato da una collina, dove il sovrano andava a cacciare, da cui il nome; oggi invece il quartiere è noto perché vi è ubicato un carcere e la collina ospita vari cimiteri), decise di prendere in mano la situazione e ottenne da Ascalesi due autorizzazioni scritte, affinché potesse caricare il Tesoro e portarselo via. Giunto a Roma assieme al novantenne principe Stefano Colonna di Paliano, il boss Navarra lo caricò con le sue mani, letteralmente, pezzo per pezzo, sui suoi mezzi e partì per Napoli, dopodiché si perse ogni sua traccia e non si ebbero più notizie di lui. Tutti erano convinti che Navarra lo avesse rubato e critiche e malcontento serpeggiavano in tutta Napoli, tutte le ricerche effettuate in larghe aree del Lazio e della Campania furono inutili, finché il 5 gennaio 1947 arrivò nella città un telegramma contenente la richiesta di informare i napoletani che il giorno seguente il Tesoro sarebbe stato riconsegnato.

Il 6 gennaio Peppe Navarra fece ingresso a Napoli, dopo dieci mesi, restituendo il Tesoro integro e intatto, spiegando che per evitare intoppi e rischi aveva dovuto fare un lungo giro, praticando strade secondarie e poco battute. Rifiutò ogni ricompensa, anche da parte dell’arcivescovo Ascalesi, chiedendo soltanto di essere ricordato come colui che aveva riportato il Tesoro a casa, con la preghiera di poter baciare l’anello del santo e di dare il denaro ai poveri (Nell’immagine, Ernest Borgnine, che nel 1961 interpretò in un film Peppe Navarra).

Ma perché Navarra era detto “Il re di Poggioreale”?

Perché una volta comprò tre sedie dorate, una per sé, la più grande, e le altre due per la moglie e il figlio, seduti sulle quali ricevevano la gente bisognosa che chiedeva aiuto, persone che spesso egli sfamava, soprattutto in tempo di guerra. Il modo preciso in cui riusciva ad aiutare tutti è poco noto; è generalmente riconosciuto che derubasse l’esercito alleato e che facesse del contrabbando, comportandosi un po’ come un Robin Hood partenopeo. In ogni caso non aveva nulla a che vedere con la figura del camorrista moderno, violento, avido e senza scrupoli.

 
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“Vedi Napoli, poi muori…E POI RINASCI!”
 
Amate Napoli e vorreste conoscerne i segreti? non ci siete mai stati e vi incuriosice? sapete per sentito dire che Napoli è famosa per i suoi presepi? allora perché non avvicinarsi a questa magica città sotto la guida di un napoletano doc?
Costantino vi aspetta per iniziare questo interessante percorso proprio con due incontri dedicati esclusivamente al presepio
NAPOLI: ITINERARI, STORIE, TRADIZIONI 
“Un proverbio sostiene che un saggio più impara, più si accorge di non sapere. Io amo Napoli e ogni volta che la visito scopro qualcosa di nuovo, ma con saggezza posso anch’io affermare che non la conoscerò mai del tutto, perché troverò sempre un vicolo, un angolo, che mi riserverà una sorpresa che mi lascerà senza fiato”
(da un “lucchetto dell’amore” nella Stazione)
Abbiamo dovuto interrompere bruscamente il nostro itinerario nella Città, ma per fortuna Napoli è fonte inesauribile di sorprese, come ha scritto lo sconosciuto visitatore del “lucchetto dell’amore”; quindi nessun Virus riuscirà mai a soffocare il desiderio di conoscerla.

Prima di Natale, due incontri saranno dedicati alla magia del presepe. Poi gli itinerari ci condurranno in luoghi ricchi di fascino, antichi e moderni. Alcuni sono meno conosciuti, ma per questo più sorprendenti, perché scopriremo che non hanno nulla da invidiare ai luoghi più noti. Uno degli itinerari sarà speciale: un’escursione fuori Città, nell’incantevole isola di Procida, Capitale italiana della cultura per l’anno 2022.

 

Il presepe (prima parte)
• Il presepe (seconda parte)
• La Chiesa di San Giovanni a Carbonara: una sorpresa
• I trasporti e le famose “Stazioni dell’Arte” della metropolitana (prima parte)
• Le “Stazioni dell’Arte” (seconda parte)
• La basilica di San Domenico Maggiore: storia, arte e cultura
• Procida: Capitale italiana della cultura 2022

• Il Santuario di Santa Maria del Carmine Maggiore: secoli di storia

 

Storia millenaria, aneddoti, segreti misteriosi e tradizioni accompagneranno la descrizione; daranno anima e cuore ai siti incontrati. Proiezioni di slide ci immergeranno nei luoghi e completeranno il racconto, lasciando il desiderio di fare un vero viaggio in questa Città che attrae tutti, anche se a volte non lo confessano.
 
 DOCENTE     Costantino Truppi
 PROGRAMMA LEZIONI     Quindicinale  (8 incontri)
 GIORNO E ORARIO     Mercoledì 16:30  –  17:30
DATE MENSILI     Dic. 01 – 15   Feb. 16
  Mar. 02-16-30   Apr. 13   Mag. 04

 

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PADRE ROCCO E IL PRESEPE

Visse nel Settecento a Napoli, e vi morì nel 1782 a 82 anni, un monaco domenicano molto conosciuto e amato fra la gente del popolo; questo monaco si chiamava Padre Gregorio Rocco. Come scriveva Alexandre Dumas, era più potente a Napoli del Sindaco, dell’Arcivescovo e anche del Re.

Si dedicò completamente alla povera gente, con opere di assistenza e apostolato. Ogni anno, per quasi cinquanta anni, ai primi di dicembre, girava instancabilmente per le povere case, esortando le famiglie ad allestire un presepe in occasione del Natale. A lui soprattutto si deve l’estensione di questa usanza nelle abitazioni, oltre che nelle chiese. Con lui l’immagine della Natività non fu più una ricostruzione inserita a Betlemme, ma si integrò con le scene di vita quotidiana a Napoli: l’osteria, la lavandaia, etc.; così nacque il presepe come lo intendiamo oggi.

Fu consigliere di Re Carlo III di Borbone, che lo teneva in grande considerazione; gli fece realizzare opere pubbliche importanti a vantaggio dei poveri. Convinse anche Il Re a preparare un presepe; anzi, il Re si appassionò a quest’arte e coinvolse tutta la sua corte; quindi, se lo faceva il Re… Da una testimonianza dell’epoca: “Il giovane Carlo ogni anno con le regie proprie sue mani facea il presepe, al quale era devotissimo, aiutato dalla Regina sua sposa, Maria Amalia di Sassonia, che occupavasi nel fare gli abiti, da vestirne i pastori“.

Così per emulazione il presepe si diffuse anche fra i nobili. Il presepe del Settecento fu il cosiddetto presepe cortese o di corte, per distinguerlo dal presepe di chiesa: infatti assunse una connotazione diversa. Diventò un’esperienza mondana e laica, un divertimento, un gioco alla moda della corte e dell’aristocrazia, un impegno di élite, al quale ci si dedicava nelle ore “sfaccendate“. Inoltre il contrasto tra i nobili del seguito dei Magi e i lazzari, i cosiddetti “cafoni”, è spinto ai limiti del grottesco. Si deride il gran numero di emarginati, di “diversi”; a questi emarginati si paragonano i nobili del corteo regale, figure che esaltano e decantano la propria condizione sociale. In definitiva allestire il presepe diventò un hobby, a metà strada fra cristiano, pagano e magico. Nei presepi di chiesa invece non si vedeva nulla di simile: infatti la chiesa rifiutò questi teatrini profani.

Tornando a Padre Rocco, bisogna dire però che fra il Re e il frate non ci fu sempre accordo. Nel 1734 il Re voleva legalizzare il gioco del Lotto, che era clandestino, per ricavarne utili, ma il frate si oppose e scoppiò una violenta disputa. Padre Rocco, legato al Re da un rapporto di amore – odio, sosteneva che non era giusto introdurre un “così ingannevole e amorale diletto” in un paese cattolico. Alla fine il Re la spuntò, a un patto: nella settimana del Natale sarebbe stato sospeso, per non distrarre il popolo dalle preghiere. Ma la gente si organizzò ugualmente: i novanta numeri furono messi in panarielli di vimini e si disegnarono numeri sulle cartelle; così il gioco pubblico divenne di famiglia e prese il nome di tombola, dal capitombolo che faceva il numero nel cadere sul tavolo dal panariello.