Archivio degli autori acubrugherio

Le rubriche di Giancarlo Mele

Le passeggiate di Giancarlo Mele

A partire dal prossimo mese di dicembre Giancarlo Mele condurrà per la prima volta in ACU il corso “Martesana terra d’acqua e di delizie” in cui spiegherà come riscoprire il territorio che abitiamo e dare un senso nuovo alle nostre passeggiate, a piedi o in bicicletta, nelle meravigliose località poste sulle rive dell’Adda e del Martesana.

Giancarlo è uno scrittore, giornalista ed attore ma soprattutto un innamorato della regione in cui vive. Scopo delle sue attività è creare / rafforzare un senso di appartenenza alla Martesana in chi la abita e, auspicabilmente, viene a sperimentavi un nuovo “turismo di prossimità”. Il suo recente volume “Martesana in mano” spiega concretamente cosa s’intenda con quest’ultimo termine.
In attesa inizi il corso e si organizzino le prime passeggiate vi presentiamo un estratto da “Martesana in mano”

Gli ultimi anni hanno visto una riscoperta del “turismo di prossimità”, ossia di un modo nuovo e diverso di viaggiare verso mete vicine e, se possibile, non affollate. Sempre più si cerca oggi l’escursione all’interno del territorio che si riconosce proprio per scoprire ciò che di meraviglioso custodisce e forse si è ignorato a lungo affascinati da mete più lontane e magari esotiche. Sempre più si apprezzano i sapori genuini della propria terra, riferiti non solo alla gastronomia locale ma anche al folclore, alle tradizioni, alle leggende, alla cultura. Non a caso il turismo di prossimità si coniuga sovente con un “turismo lento”, che concepisce il tempo libero come risposta alla frenesia che caratterizza le nostre vite quotidiane e spesso non permette di rilassarsi e prendersi il giusto tempo per ammirare la tanta bellezza che ci circonda. Fino a qualche anno fa, al turista venivano erogati prevalentemente beni e servizi e l’esperienza di viaggio si limitava al soggiorno nella località prescelta tra una visita in città o un’escursione. Oggi si fa strada l’idea che il senso del viaggio vada in realtà ben oltre e comprenda anche esperienze ed emozioni distintive. “Turismo esperienziale” vuol dire immergersi nelle emozioni ed attività (culturali, gastronomiche e quant’altro) del territorio onde consentire a chi viaggia di sentirsi parte integrante del luogo che visita e delle sue
tradizioni entrando in contatto autentico con le persone che lo vivono tutti i giorni. Questo tipo di turismo implica raccontare e vivere storie del posto, non soltanto sentendole spiegare da una guida distratta, ma metabolizzandole per ritrasmetterle a terzi insieme alle sensazioni legate ad un buon piatto, un bel posto, un evento folcloristico, una leggenda. E’ come sperimentare l’intera filiera produttiva di un evento o di un sito e non osservarne solo il risultato finale. Visitare in questa maniera vuole dire soprattutto instaurare relazioni con chi vive in loco, condividendone esperienze e modo di porsi. Senza limitarsi ad un freddo scambio di informazioni ma facendo proprie usanze e modi di essere della gente per coglierli a pieno.

La globalizzazione ci ha portato a massimizzare e razionalizzare persino i momenti di svago, concentrando le emozioni che derivano dall’ammirare un’opera d’arte o uno spettacolo tipico. Siamo giunti fino a confondere nella memoria i momenti vissuti in luoghi diversi perdendo in ultima analisi il senso profondo del viaggiare e conoscere posti nuovi. Il recente ritorno al localismo sta portando invece a recuperare tutto il tempo necessario ad apprezzare il particolare, cogliere in modo individuale ogni esperienza distintiva e farla propria, serbare un ricordo indelebile di ciascun momento.

La Martesana è un esempio concreto di questi assunti. E’ un territorio ricco di storia, paesaggi e cultura eppure è stato a lungo dimenticato solo perché troppo vicino a Milano. E’ stata un’area sottovalutata in quanto vicina alla metropoli, quindi per definizione a portata di mano per chi prediligeva mete lontane e sognate magari solo perché distanti o meno accessibili.

La logica del turismo lento, di prossimità ed esperienziale è invece proprio quello di accompagnare chi viaggia in località magari vicine con percorsi studiati per coglierne ed assaporarne aspetti forse trascurati. E’ a questo schema che mi sono ispirato nella realizzazione dei nostri incontri. Si tratta di un lavoro di “equipe” perché chiama in causa discipline diverse (storia, arte, conoscenza del paesaggio, del folclore, del turismo, della gastronomia) quindi anche attori, con competenze diverse ma il cui apporto mi sono impegnato ad amalgamare e rilasciare in qualità di estensore finale. Speriamo che al termine chi vi ha partecipato possa davvero visitare la nostra splendida regione con la consapevolezza di avere la Martesana in mano.

le rubriche di Luigi Lazzaroni

Il tesoro del fiume

Aripert II, re longobardo, fuggendo da Pavia dopo la sconfitta contro Ansprand affoga nel Ticino col tesoro reale….

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Le rubriche di A.C.U.

SABATO 26 MARZO 2022 – Aula consiliare Comune di Brugherio

Nell’ambito del corso di giornalismo condotto da Claudio Pollastri abbiamo ricordato con filmati, musica, testimonianze dirette
ROBERTO BRIVIO
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SABATO 5 MARZO 2022
(PRIMO INCONTRO DELL’ANNO DOPO LA SOSPENSIONE DELL’ATTIVITA’ A CAUSA DELL’EPIDEMIA COVID.)
OSPITI: UMBERTO VOLTOLINA, COGNATO DELL’ONOREVOLE SANDRO PERTINI E KATRINA BONO, LITUANA
 
Sandro Pertini, di cui ricorre l’anniversario della morte avvenuta il 24 febbraio 1990, è stato politico, giornalista e partigiano italiano.
Attraverso le testimonianze dirette del cognato, sono emersi non solo aspetti della vita ma insegnamenti morali, in particolare in una lettera a lui indirizzata in cui già nel 1958 delineava una foto della società attuale e del clima in cui vive la gioventù ancora oggi: “I giovani non hanno bisogno di sermoni, ma di esempi di onestà, coerenza e altruismo”. Insegnamenti che lo hanno fatto rispettare ed amare dal popolo che lo chiamava affettuosamente “nonno Sandro”.
Laureato in giurisprudenza e in scienze sociali e di famiglia benestante, alla prima condanna in carcere per la sua attività politica, seguirono anni di confino in Francia lavorando come imbianchino. Tornato libero nell’agosto 1943, entrò a far parte del primo esecutivo del Partito socialista. nei territori occupati dal Tedeschi e poi dirigere la lotta partigiana. Conclusa la lotta armata, si dedicò alla vita politica e al giornalismo.
Fu eletto Deputato al Parlamento nel 1953, 1958, 1963, 1968, 1972, 1976., Vice-Presidente della Camera dei Deputati nel 1963, Presidente della Camera dei Deputati nel 1968 e nel 1972, Presidente della Repubblica l’8 luglio 1978. Ha rassegnato le dimissioni il 29 giugno 1985.
Chiamato “accendino” sin da bambino per il suo carattere fumantino, di lui Montanelli disse: “ha un caratteraccio, come tutti quelli che hanno carattere”. intransigente soprattutto verso se stesso, esprimeva con forza gli ideali di un uomo che, pur consapevole degli errori commessi, aveva sempre operato politicamente con onestà verso se stesso e verso il suo elettorato. Concetti espressi chiaramente nel suo giuramento all’atto dell’insediamento:
“Onorevoli senatori, onorevoli deputati, signori delegati regionali, nella mia tormentata vita mi sono trovato più volte difronte a situazioni difficili e le ho sempre affrontate con animo sereno perché sapevo che sarei stato solo io a pagare. , solo con la mia fede e la mia coscienza, adesso invece so che le conseguenze di ogni mio atto di rifletteranno sullo stato e sulla nazione intera. Da qui il mio doveroso proposito di osservare lealmente e scrupolosamente di giuramento di fedeltà alla Costituzione…..”
L’altro ospite Katrina Bono, cittadina lituana sposata con un italiano, ha fatto un breve escurso sulla situazione ucraina con particolare riferimento alle analogie con la pregressa situazione lituana: due popoli con forte senso di appartenenza, valori e tradizioni che non vogliono dimenticare.

               

 

 

 

 

 

Le rubriche di Massimo Beggio

FUKUDA CHIYO-NI  UNA DONNA NELLA VITA DELL’HAIKU

 

sono lieto di comunicarti che è uscito in questi giorni il mio nuovo libro scritto in collaborazione con l’amica Stefanie Kimmich e pubblicato da Gabrielli Editori.

fiore di questo mondo
avvolto dal cerchio
di una luna nebbiosa

 

 

Massimo Beggio
Praticante Zen si interessa da anni alla cultura giapponese, in particolare alla poesia haiku. Insegnante e operatore shiatsu, con alcuni colleghi ha pubblicato nel 2003 per Xenia editore “Il grande libro dello Shiatsu”. Con Bellavite Editore ha pubblicato nel 2013 “Il libro dei Soffi”, dedicato alla terapia del Maestro Inoue Muhen di cui è stato allievo. Nel 2014, per lo stesso editore, il libro “Forse l’autunno. Le cento stagioni dell’haiku”.

Stefanie Kimmich
Cittadina svizzera/italiana, nata in Germania, vive in Italia dal 1985. Operatore shiatsu e praticante Zen, è da anni interessata alla cultura giapponese, in modo particolare alla poesia haiku e alla calligrafia (Shodō). Pittrice e scultrice, ha più volte pubblicato sue opere di poesia e pittura con le Edizioni “Il Pulcinoelefante” di Alberto Casiraghi.

Luciano Mazzocchi (Pianello Val Tidone 1939). Entra nella congregazione dei Missionari Saveriani ed è ordinato sacerdote nel 1962. Inviato in Giappone l’anno successivo, rientra in Italia nel 1982 e si dedica alla formazione dei giovani missionari e alla promozione del dialogo interreligioso. Nel 1994, con Jiso Forzani, monaco e missionario dello Zen, dà vita a Galgagnano (LO) alla comunità “Stella del Mattino”, laboratorio di dialogo tra Vangelo e Zen. Dal 2005 al 2014 è cappellano della comunità cattolica giapponese della diocesi di Milano. Nel 2008 fonda con alcuni amici l’Associazione “Vangelo e Zen”, della quale è animatore e guida spirituale. Della sua esperienza ha pubblicato numerose opere con le Edizione Dehoniane e con le Paoline

Le rubriche di Fulvio Bella

Lo so,
ne sono consapevole,
non avviene tutto ciò a mia insaputa,
come la casa di Scajola
o gli euro in valigia di Panzeri.
Lo so
che ogni anno invecchio sempre un poco,
ma non mi spaventano le rughe che verranno
o anche quelle,
già venute,
scavate dalle lacrime e dal riso.
Non mi meraviglio della voglia
d’andare a letto presto,
o del fatto che non riesco più a seguir Poirot
senza addormentarmi sul divano.
Non pretendo più
che il corpo si alzi lesto
e prepotente ai desideri.
Lo so,
non mi spavento.
Ancora il cuore continua
a inseguir la meraviglia
ancora il mattino
mi si mostra
squadernando
orizzonti e sogni.
“Ma ora son certamente sogni”,
direte.
Lo so,
ma cosa c’è di più reale e bello
d’un transito tra i sogni?

 

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Con questa domenica finisce la rubrica “domenica col mito”, infatti il corso di quest’anno dedicato alle Metamorfosi di Ovidio è terminato. E’ stato bello, ci siamo divertiti. Ora pensiamo a che fare l’anno prossimo. Come congedo presento un mito, a mio parere assai belo, che ci racconta, caso raro nel mito a dire il vero, di un uomo che resiste per amore della moglie alle tentazioni di una seduttrice seriale come Circe.

Il mito di questa domenica 15 Maggio è:

“Pico, uno dei primi re del Lazio

 

Pico, uno dei primi re del Lazio, fondatore della città di Laurentum, luogo dove secondo Virgilio si stabilirono i troiani guidati da Enea, stava cacciando nei boschi intorno alla città quando fu visto dalla maga Circe che subito se ne innamorò. Usando le proprie arti magiche, fece apparire davanti a Pico un bellissimo cinghiale alla vista del quale subito Pico si lanciò all’inseguimento. Ovvio che il cinghiale portò fritto dritto Pico nel luogo dove l’aspettava la maga. Subito Circe fece le sue “avances, ma certo risultò per lei inaspettata la risposta di Pico: “Chiunque tu sia, non sono tuo. Già sono schiavo di un’altra, e prego il cielo di restarlo per lungo tempo ancora! né violerò per un altro amore il patto coniugale”

Davanti al rifiuto Circe, arrabbiata non poco, si vendicò trasformandolo, come ci suggerisce il nome, in un picchio.

Nel quadro di Luca Giordano (1634 – 1705) vediamo Pico che respinge Circe

 

 

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Il mito di questa domenica 8 Maggio è:

“Aci, Galatea e Polifemo

 

Quando il mito si fa anche geografia

Alle falde dell’Etna c’è un fiume, dalla sorgente rossastra, chiamato dagli antichi greci “Akis”, che ha dato il nome a nove località siciliane lungo la costa etnea (Aci Trezza,  Aci Castello, Aci Catena etc); belle le località ma ancora più bello il mito che ci racconta la storia d’amore tra il  bellissimo pastore Aci e la Nereide Galatea, una delle cinquanta ninfe del mare. Ma in questo amore gioioso c’era un terzo incomodo, e che incomodo! nientemeno che il ciclope Polifemo. Le provò tutte per conquistare Galatea, (straordinari i versi in cui Ovidio nelle Metamorfosi ci racconta di come il Ciclope cercasse di farsi bello) ma non ci fu nulla da fare. Accecato dal rifiuto e dalla gelosia decise di vendicarsi, così una sera, quando vide i due innamorati abbracciati in riva al mare al chiarore della luna, prese un grosso masso di lava e lo scagliò contro il povero pastorello schiacciandolo.  Galatea disperata pianse tutte le sue lacrime sopra il corpo martoriato di Aci. Gli dei commossi trasformarono il sangue di Aci in un piccolo fiume che, nato sotto l’Etna,  sfocia sulla spiaggia dove i due amanti erano soliti incontrarsi. Eccoli qui Galatea e Aci (e il Ciclope, in alto sul monte)  come li rappresenta il pittore francese Alexandre Charles Guillemot (1786-1831)

 

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Il mito di questa domenica Iº Maggio è:

Ceice e Alcione, la forza dell’amore

 

Ceice, figlio di Lucifero la stella del mattino, ed Alcione, figlia di Eolo, re dei venti, vivevano uniti e felici nella loro Tarchis; talmente felici da ritenersi pari agli dei dei, tant’è che si chiamano spesso  Zeus ed Era. Ma gli dèi antichi, si sa, erano permalosi, per questo Zeus lanciò un fulmine contro la nave di Ceice che stava andando per mare a consultare un oracolo. Ceice morì affogato. Intanto la povera Alcione, ignara della sciagura, contava i giorni e ogni mattina andava al tempio di Giunone pregando per il ritorno del marito. Impietosita, la grande dea non volle che Alcione continuasse a chiedere il ritorno di uno che era già morto per cui le inviò Morfeo, il dio dei sogni a dirle la verità. Morfeo assunse le sembianze di Ceice ed apparve ad Alcione, informandolo della sua morte.

Lei svegliata di soprassalto si alzò in fretta e corse in riva del mare, dove aveva abbracciato il marito l’ultima volta; salì sullo scoglio dal quale aveva visto la nave perdersi all’orizzonte.
Sotto di lei l’acqua era cupa. E sull’acqua vide galleggiare uno scudo e vi riconobbe l’insegna di Ceice. Dunque il sogno le aveva detto il vero.
Vinta dal dolore, Alcione volle morire e si gettò a capofitto in mare.
Ma invece di cadere, fu portata in alto dal vento. Trasformata in uccello da Giunone, Alcione volteggiò nell’aria, lanciando un richiamo dal becco sottile.

Un vecchietto che stava sulla spiaggia vide un altro uccello, simile al primo, rispondere al richiamo e levarsi in volo dal mare. E tutti e due, insieme, salirono in alto con le bianche ali distese.
Ancora oggi Ceice, il martin pescatore maschio, e Alcione, la femmina volano insieme sull’azzurro mare. Per sempre li ha ricongiunti Amore.

Ovidio, nelle sue Metamorfosi (libro XI, vv. 742 e seg.) ci dice:
Allora l’amore li tenne legati a un solo destino e, fra le creature alate, non si sciolse il nodo coniugale: si accoppiano e diventano genitori, e per sette placidi giorni durante l’inverno Alcione cova in nidi sospesi sul mare. Allora è sicura la via del mare: Eolo trattiene i venti e ne impedisce l’uscita: distende il mare per i suoi nipoti.

Nell’illustrazione un particolare dal dipinto di Herbert James Draper (1915) che rappresenta Alcione alla ricerca del marito Ceìce; dei ‘martin pescatori’ sono dipinti sulla sua testa, a citazione del mito della sua metamorfosi; degli stessi colori delle piume degli uccelli sono le sue vesti<Herbert-James-Draper.-Halcyone1915.

 

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Il mito di questa domenica 24 Aprile è:

Ifi, il dramma antico della transessualità

 

La storia di Ifi, così come la leggiamo nelle Metamorfosi di Ovidio, è uno dei pochi miti greci incentrati sui temi del lesbismo e della transessualità.

IfiIfide è  figlia di Teletusa e di Ligdo, due poveri abitanti di Creta

Il tutto comincia con Lidgo che dichiara alla moglie incinta, che se avesse partorito una bambina, sarebbe stato costretto ad ucciderla poiché non disponevano dei mezzi per allevarla. Teleusa è disperata ma una notte Iside appare a Teletusa  dicendole di non preoccuparsi del sesso nascituro e di allevarlo.
Quando Teletusa partorì, nascose al marito il sesso della bambina e la allevò fingendo che fosse un maschio. Ifi fu cresciuta con un’altra bambina, Iante, che le fu promessa in moglie dal padre; tra le due ragazze sbocciò un amore reciproco.
Man mano che si avvicinava il giorno delle nozze, Ifi era sempre più preoccupata di non poter possedere la sua amata, così pregò Iside affinché le fosse permesso di coronare il suo amore. Il giorno prima del matrimonio Teletusa portò la figlia al tempio di Iside ed implorò l’aiuto della dea.
La dea trasformò Ifi in un uomo cosicché rimanesse sé stessa dentro al nuovo corpo di uomo, e potesse sposare Iante.

Straordinario è come Ovidio, che sicuramente non può non dirsi maschilista, si pone il caso del “diverso da noi”, della sua incolpevolezza, della sua disperazione, dell’innocente costretto a vivere nella menzogna, dei meri confini sessuali, che a causa del conformismo della società, diventano prigioni.

Ecco come Nicolas de Launay in una incisione di metà settecento rappresenta la madre di Ifi che implora la dea di trasformarla in maschio.

 

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Il mito di questa domenica 17 Aprile è:

“Orfeo ed Euridice l’amore che vince la morte

 

La giornata di oggi, Pasqua, mi porta a spaziare tra le varie “resurrezioni mitologiche greche”.

Sono tante (Semele, Pelope, Ippolita etc etc) ma io a questo punto scelgo il mito di una resurrezione mancata,  iil mito di Orfeo ed Euridice una delle storie d’amore più commoventi e strazianti, tanto da ispirare artisti e letterati di tutti i tempi.

Orfeo secondo il mito fu il più famoso posta e musicista, almente bravo  che non aveva uguale tra uomini e dei. Persino le bestie feroci, si fermavano ad ascoltarlo quando suonava la lira.

Ogni creatura amava Orfeo  ma lui aveva occhi soltanto per la bellissima ninfa Euridice. Il loro fu un amore gioioso e  sereno, finché Aristeo non  s’innamora di Euridice e cerca di sedurla, Euridice fugge e nel fuggire calpesta un serpente  che la morde uccidendola.

Orfeo impazzito di dolore non riesce a sopportare la mancanza di Euridice per cui tenta l’impossibile, scendere negli Inferi e chiedere ad Ade e Proserpina di restituirgli Euridice.  Deve affrontare molte prove ma grazie alla sua musica riesce ad incantare Caronte il traghettatore degli Inferi e a sedare Cerbero, l’enorme cane a tre teste  posto a guardia dell’Ade.

Persefone, intenerita dall’amore di Orfeo, permette all’innamorato di poter riavere l’amata ad una condizione. Durante il tragitto che avrebbe ricondotto entrambi nel mondo degli uomini, Orfeo non avrebbe mai dovuto voltarsi per guardare Euridice. 

Durante il viaggio però un  sospetto comincia a farsi strada nella sua mente;  pensando che a seguirlo fosse solo un’ombra, per paura si voltò, ma nello stesso istante in cui si voltò Euridice scompare per sempre.

Com’è bello e poetico il passo in cui Ovidio nelle Metamorfosi, (libro X, 61-62) ci descrive  il fatto: “Ed Ella morendo per la seconda volta, non si lamentò. E di che cosa avrebbe infatti dovuto lamentarsi se non  di essere troppo amata? “

Nella foto un marmo di  Antonio Canova di cui quest’anno ricore il bicentenario della morte.

 

 

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Il mito di questa domenica 10 Aprile è:

            “ Bauci e Filemone, una meravigliosa
storia d’amore

Un mito, quello di oggi, che ci rasserena; una tenera e delicata storia sul tema dell’amore coniugale, sulla vita semplice e sul valore dell’accoglienza.

Zeus ed Ermes, travestisti da mendicanti girano per la Frigia, chiedendo ospitalità.

Bussarono a mille porte, cercando un

luogo per riposare e mille porte si chiusero; una soltanto li accolse, piccola con un tetto di paglia e di canne: là vive Bauci una pia vecchietta e suo marito Filemone; uniti dagli anni della giovinezza, invecchiarono insieme in quella capanna”.  Così ci racconta Ovidio nella Metamorfosi (Libro VIII, versi 628/632).

Erano poverissimi, ma non esitarono a dividere la loro povertà con degli sconosciuti che avevano fame, erano stanchi e chiedevano ospitalità.   

Dopo essere stai accolti gli Dei si rivelano e chiedono loro di esprimere un desiderio, che avrebbero esaudito all’istante.

Filemone disse: “Poiché siamo vissuti d’accordo tanti anni, ci porti via la stessa ora: non voglio vedere la tomba di mia moglie e neanche essere sepolto da lei

Quando “sfiniti dagli anni” giunse il tempo di dover abbandonare il mondo Bauci vide Filemone coprirsi di fronde e nello stesso istante Filemone vide Bauci altrettanto coprirsi.

Mentre già una cima cresceva sui loro due volti, finché poterono continuarono a scambiarsi parole: “addio, amore” diserro insieme e insieme la scorza li coprì e li nascose.” (Libro VIII, versi 717-719)

Confesso che ogni volta che passeggiando incontro un tronco dal quale sorgono poi due diversi alberi, mi commuovo e mando un pensiero a Bauci e a Filemone.

Un mito che ancora oggi continua ad ispirare l’arte, ecco qui come ha rappresentato  il mito Salvatore Rizzuti noto scultore siciliano  contemporaneo.

 

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Il mito di questa domenica 3 Aprile è:

            “Duemila anni prima di Dario Argento e
Quentin Tarantino”

E si, questo mito di Procne, Filomena e Tereo, supera di gran lunga lo splatter che hanno messo in scena questi registi.

Ciack si gira, sceneggiatore Ovidio

Tereo, re di Tracia sposa Procne ma poi si incapriccia della più giovane sorella Filomena. La attira in un agguato, la violenta e la mura in una torre dicendo alla moglie che era morta; prima di murarla però, per essere sicuro che non parlasse con nessuno, le taglia la lingua.

Così descrive l’atto Ovidio nelle metamorfosi (Libro VI, versi 555-560)

“Guizzò la radice della lingua, il resto giacque sulal terra nera

mormorando e tremando come si muove la coda di una  serpe mutilata”

Ma lei è testarda, e determinata nel cercare giustizia. Approfittando della sua capacità di tessitrice, realizza una tela in cui racconta la sua storia e la invia alla sorella attraverso una guardia  della torre .  Procne le crede, la trova, la libera  e poi decide per la più cupa della vendette. Uccide il figlio avuto da Tereo e glielo cucina come èasto dopo averlo fatto a pezzi e macinato le ossa. Quando sta per finire il pasto Procne con Filomena  gli rivela cosa ha appena mangiato. Tereo si avventa sulle due sorelle per ucciderle, ma gli dei infuriati trasformano tutti in uccelli: Procne in una rondine, Filomena nell’usignolo e Tereo nell’upupa che annuncia disgrazie.

Mi scuso per l’immagine violenta, ma non si può censurare nessuno, figuriamoci Rubens

 

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Il mito di questa domenica 27 Marzo è:

                     Aracne trasformata in ragno

Vale davvero la pena di immergersi in questo mito anche solo per sognare davanti a questi tre quadri, nell’ordine, Tintoretto, Rubens e Velasquez.

Ma meraviglioso è il mito in sé stesso. Ce lo narra per esteso Ovidio nel VI libro delle Metamorfosi.

Aracne era una fanciulla abilissima nel tessere, tanto da sostenere di essere più brava della dea Atena che di quell’arte era la protettrice. Ne era tanto sicura che sfidò la dea a duello.

Atena allora si presentò ad Aracne sotto le vesti di una vecchia, consigliandole di ritirare la sfida per non causare l’ira della dea. Quando lei replicò con sgarbo, la vecchia uscì dalle proprie spoglie rivelandosi, e la gara iniziò. Aracne avrebbe meritato di vincere tanto il suo lavoro, (gli amori degli dei e le loro colpe) era così perfetto ed ironico nel raccontare le astuzie degli dei per raggiungere i propri fini. Ma Atena vedendo la perfezione del lavoro, in preda all’ira, distrusse la tela, trasformando poi Aracne in un ragno costretto a filare per tutta la vita dalla bocca, bocca colpevole di arroganza verso gli dei. L’arroganza sicuramente c’era, ma verrebbe voglia di dire da che pulpito viene la predica. Ma il mito è anche questo, ci ricorda come spesso i potenti, facciano quello che vogliono al di là di giustizia e ragione. Ma in questo caso a dire il vero, non c’è bisogno del mito, ce ne accorgiamo da soli. 

 

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Il mito di questa domenica 20 Marzo è:

                     “Salmace ed Ermafrodito”

 

Nel mito troviamo molto spesso stupri di dei, verso dee, ninfe o donne che siano, più raro è incontrare l’opposto, per questo dedico la lettura di oggi alla passione d’amore della giovane ninfa Salmace, verso Ermafrodito, il figlio, come ci lascia intendere il nome, di Ermes e Afrodite. Si racconta che fosse bellissimo, del resto con genitori simili…

Perché quel nome sia diventato  sinonimo di un uomo con caratteristiche sessuali di entrambi i sessi ce lo racconta il mito…

Ermafrodito, all’età di quindici anni, annoiato dall’ambiente in cui viveva, cominciò ad eslorare il mondo. In questo suo gironzolare arrivò alla fonte dove viveva   la giovane ninfa naiade Salmace, la quale si innamorò immediatamente di lui. Cercò di sedurlo, ma fu respinta. Continuò però nascosta ad ammirarlo fino a quando egli non si spogliò per entrare nelle acque della fonte.  Appena vide il giovinetto cominciare a bagnarsi, saltò fuori da dietro un albero e si gettò su di lui. Si avvolse intorno al ragazzo, con la forza lo baciò e con passione cominciò ad abbracciarlo e a toccarlo. Ma Ernafrodito si oppose con ancora più fermezza, allora lei chiese agli dei di potersi unire per sempre al suo amato e di non esserne mai separata da lui. Il suo desiderio venne accolto e i due divennero un essere solo, i loro corpi furono mescolati in una creatura di entrambi i sessi, metà maschio e metà femmina.

 

Questo mito, (come tutti i miti del resto) ha ispirato decine e decine di artisti di tutti i tempi. Qui sotto il  dipinto  Jean François de Troy, 1769. Collezione privata. e la figura di ermafrodito in una scultura del 300°A.C.

 

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Il mito di questa domenica 13 Marzo è:

                     “la madre di tutte le tragedie d’amore”

Questa domenica mi dedico al mito di Piramo e Tisbe, che Ovidio ci narra immaginando la bella Alcitoe che  racconta questa storia alle sue  compagne mentre tessono. Sembra di leggere Giulietta e Romeo con 16 secoli d’anticipo. E’ un racconto che si perde nei millenni del mito ma che in realtà possiamo incontrare tutte le volte che… ci imbattiamo in un  gelso con l suoi  frutti neri.

Ma andiamo con ordine…

Due giovani babilonesi, Piramo e Tisbe, si amano contro il volere delle loro famiglie. Riescono però a parlarsi tutte le sere attraverso una fessura nel muro delle loro case che confinano. Stanchi di dover subire l’imposizione delle famiglie decidono di fuggire e per farlo si danno appuntamento la notte successiva sotto un grande gelso poco distante da lì. A quel tempo il gelso aveva frutti bianchi come la neve.

Tisbe è la prima a raggiungere il luogo, ma appena arrivata scopre che lì c’è una tigre con le fauci sporche di sangue. Spaventata fugge e nel fuggire perde il suo velo che viene poi azzannato dalla tigre sporcandolo così di sangue. Arriva poco dopo sul luogo Piramo; vede prima le tracce della belva, poi il velo di Tisbe stracciato e sporco di sangue. Pensando che l’amata fosse stata sbranata dalla tigre, straziato dal dolore e dal rimorso di avere organizzato la fuga, si uccide.

Il suo sangue spruzzato in alto tinge di rosso cupo i frutti del gelso.  Qualche minuto dopo Tisbe, superata la paura, torna sul luogo dell’appuntamento. Vedendo l’amato morente, decide anche lei di uccidersi. Chiede pero due cose agli dei: di essere sepolta con l’amato sotto quel gelso e che i suoi frutti siano da quel momento in poi neri a ricordo del lutto.

Ecco come ha interpretato il mito Pierre Gautherot pittore francese in questo suo quadro del 1799. 

 

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Il mito di questa domenica 06 Marzo è:

                                     “vaghe stelle dell’orsa”

 

Guardo il cielo stasera e penso a te cara Callisto e a tuo figlio Arcade lì accanto…
Ovidio nelle Metamorfosi (II, 404-507), ci narra di Callisto, una delle più belle ancelle di Diana, della quale s’era invaghito Giove. Il Dio, per avvicinarsi a lei senza crearle timore, prese le sembianze di Diana. Quando la ninfa s’accorse dell’imbroglio cercò di fuggire, ma oramai era tardi. Giove la violentò mettendola incinta. La ninfa per un po’ di tempo cercò di nascondere il suo stato ma un giorno, dopo una battuta di caccia Diana propose alle sue ancelle di fare tutte insieme un bagno presso una fonte. Il il gonfiore del ventre fece scoprire l’accaduto e Diana adirata, la scacciò.
Callisto diede alla luce un figlio che chiamò Arcade, ma Giunone, la gelosa moglie di Giove, infuriata contro di lei, la trasformò in un’orsa. Fu così che 15 anni dopo Arcade, che si era addentrato nella foresta per cacciare, incontrò l’orsa. Spaventalo stava per colpirla, ma Giove, mandò un vento che li sollevò entrambi da terra e lì collocò come costellazioni in cielo. Callisto divenne l’Orsa Maggiore, Arcade l’Orsa Minore. Ma Giunone, ancora più infuriata nel vedere i due onorati con questa collocazione in cielo, chiese al titano Oceano di impedire che madre e figlio potessero riposarsi nelle loro acque tramontando. Oceano esaudì tale richiesta infatti queste stelle rimangono sempre sopra l’orizzonte.
Nel quadro di Sebastiano Ricci (1659 -1734) vediamo Diana che fredda e spietata scaccia la povera Callisto. Ma si può fare di peggio, Giunone lo dimostra.

 

 

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Il mito di questa domenica 27 febbraio è:

                                     “Fetonte, il Sole, il Po, i pioppi”

 

Questo è un mito che ci riguarda da vicino, perché ….

Due giovinetti discutono, Epafo e Fetonte. Fetonte dice orgogliosamente di essere il figlio del sole, ma Epafo gli dice .” come fai ad esserne certo? Non è che tua madre ti imbroglia?”

Offeso da questa insinuazione Fetonte chiede a sua madre come stiano le cose, la madre gli risponde di stare sicuro; se vuole però può andare dal Sole a chiederglielo di persona.

Arrivato dal padre Fetonte ottiene da lui la promessa che, per dimostragli il bene che gli voleva in quanto suo figlio, avrebbe esaudito qualsiasi suo desiderio. Fetonte chiede di poter guidare il suo carro.

Il padre cerca in tutti modi di dissuaderlo, perché sa che è impossibile che il figlio sia capace di guidare il carro, ma Fetonte non cambia idea e il padre non può che cedere perché ormai ha promesso e gli dei non possono non mantenere le promesse.

Come il padre sapeva Fetonte si dimostrò inesperto nel gestire le redini e tenere a bada i cavalli e così perse il controllo ed il carro si avvicinò troppo alla Terra asciugandone i fiumi, bruciando le foreste e incendiando il suolo. Fu così, ci racconta Ovidio,  che la Libia divenne un  deserto  e la pelle degli etiopi si colorò di nero.
Zeus, sconvolto dalla distruzione, colpì il carro con un fulmine e fece cadere Fetonte nelle acque del fiume Po, dove annegò. Le sorelle Eliadi che abitavano in quel fiume, disperate per il dolore si trasformarono in pioppi,  le loro lacrime si trasformarono in ambra.
Quante volte mi capita di pensare, quando sento lo stormire delle foglie dei pioppi, alle Elaidi quasi che quel fruscio altro non fosse che il loro pianto disperato che ancora cerca di arrivare a noi.

Questo mito ha sempre attratto in tutte le epoche l’immaginario di numerosi artisti.  Ecco qui come hanno visto la caduta di Fetonte  Pieter Paul Rubens  (1577 – 1640), Sebastiano Ricci  (1659- 1734, e per venire ai giorni nostri De Chirico (188 -1978)

La metamorfosi in pioppi delle povere Eliadi è invece un’opera di Santi di Tiro (1536 -1603)

 

 

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E’ iniziato il corso sulle Metamorfosi di Ovidio ed allora in concomitanza di ciò , dopo la rubrica   dell’anno scorso “Sabato con Dante” inizio la nuova rubrica “Domenica col mito.

 

Il mito di questa domenica 20 febbraio è:

                                                               “Apollo e Dafne”

 

Apollo, fiero d’aver appena ucciso col suo terribile arco il mostro Pitone, sbeffeggia Cupido e il suo piccolo arco. Il Dio dell’amore allora per punire la presunzione di Apollo, lancia due frecce, con una, la punta immersa nell’amore, colpisce il Dio, con l’altra, la punta immersa nel disamore, colpisce la ninfa Dafne delle quale Apollo s’era invaghito.

Lei fugge, Apollo la insegue.

Apollo sta per raggiungerla, allora Dafne, capendo che non sarebbe riuscita a sottrarsi alla violenza, prega la madre Gea di salvarla dall’abuso.

Ecco, improvviso, un torpore cade sulle membra di Dafne, una corteccia sottile le chiude il petto; ecco i capelli trasformarsi in foglie, le braccia in rami, i piedi mutarsi in radici. Ma anche così Apollo non riesce a staccarsi da lei, decide quindi di rendere questa pianta (l’alloro) sempreverde e di considerarla a lui sacra, da usare come segno di gloria da porre sul capo dei migliori fra gli uomini. Con l’alloro si incoronarono generali vittoriosi, poeti e filosofi. Da qui anche la tradizione attuale delle coroncine di alloro alla fine del percorso di laurea. Anche in questo caso il mito vive ancora tra noi.

Questo mito ispirò decine e decine di artisti. A illustre i post ne scelgo tre, Pollaiolo, Tiepolo e la magnifica scultura di Canova.

 

 

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SABATO CON DANTE

La parola di oggi (Sabato 25 Dicembre) è:

“fantolino

 

E come fantolin che ’nver’ la mamma

tende le braccia, poi che ’l latte prese,

per l’animo che ’nfin di fuori s’infiamma […]

(Paradiso XXIII, 121)

Per indicare un bimbo in tenera età Dante non usa né questa parola né bambino, bensì fantolino, diminutivo di fante ‘infante’, da fans (participio di fari ‘parlare’). La similitudine evocata in questo passo del Paradiso (in cui la forma è apocopata) è una delle più dolci e commoventi della Commedia. Nel Cielo delle Stelle fisse il poeta vede i beati protendersi in alto verso Maria con la loro luce così come farebbe un neonato che, dopo essere stato allattato dalla madre, tende le braccia verso di lei spinto da un sentimento di amore che prorompe anche negli atteggiamenti esteriori. Il termine fantolino, ben attestato in letteratura e attribuito a Gesù bambino in un volgarizzamento veneziano dei Vangeli del sec. XIV (“Et Ioseph sì apelà lo fantolino Yesù”), oggi è piuttosto desueto.

(Accademia della Crusca – K.D.V.)

MI chiedevo che parola avrebbe scelto l’Accademia della Crusca per la giornata di oggi, mi aspettavo qualcosa che si riferisse al Natale e invece niente. Invece niente è quello che ho pensato in prima battuta vedendo la parola, ma poi sapendo ho che “fantolino” è un modo, (seppure oggi assai desueto) per indicare il termine bambino, e leggendo il commento,  mi è diventato ovvio che il “fantolino” di oggi altri non è che quello che , “fantolino” io stesso, aspettavo che arrivasse con i regali. Natalizia è poi la terzina con la sua immagine, tenera e poetica, del bambino che volge le braccia  alla mamma. Come illustrazione è ovvio che oggi ci tocca un’immagine natalizia, ma io ho cercato comunque qualcosa di meno tradizionale; posto  un Presepio, ma in questo Presepio, tratto da una miniatura in tempera e oro da un “Libro d’Ore” composto a Besançon, in Francia, nel 1450 circa, vediamo una Madonna che legge mentre del “fantolino” se ne occupa Giuseppe . Siamo nel 1450 circa…. c’è di che meditare.

Ovviamente auguri a tutti e in particolare a tutti gli amici dell’ACU

 

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La parola di oggi (Sabato 18 Dicembre) è:

“porpora

Da la sinistra quattro facean festa,
in porpore vestite, dietro al modo
d’una di lor ch’avea tre occhi in testa.
(Purgatorio XXIX, 131)
 
Nella Commedia il sostantivo, attestato unicamente nell’occorrenza di Purgatorio XXIX, 131, ricorre nella forma porpore più rara e arcaica. A differenza delle virtù teologali (Fede, Speranza, Carità), ognuna vestita di un abito di color diverso, rispettivamente bianco, verde e rosso, sono in porpore vestite le quattro virtù cardinali (Prudenza, Temperanza, Giustizia e Fortezza), che indossano quindi una veste di colore rosso intenso mentre sfilano nella processione mistica alla sinistra del carro, simbolo della Chiesa militante in trionfo, trainato dal grifone dalle membra miste d’oro, di bianco e di vermiglio.
(Accademia della Crusca – E.F.)
La prima cosa che mi sono chiesto è chi fosse la figura con tre occhi sulla testa, poi un po’ alla volta ci sono arrivato; se le figure rappresentavano le virtù cardinali, (chiamate così perché secondo la religione cattolica sono “il cardine” del comportamento cristiano) quella con tre occhi sulla testa non poteva essere che la prudenza, che di occhi non ne ha mai abbastanza. In realtà è una virtù che non mi ha mai fatto tanta compagnia, o comunque se mi stava a fianco, di occhi aperti non ne aveva mai più di uno; anche se poi, a fare da contrappasso alla situazione mi faceva compagnia la fortuna, per cui me la sono sempre cavata. Non è la prima volta che troviamo parole che si riferiscono alla processione mistica, descritta in questo canto così dettagliatamente da Dante. Ebbene se uno non sa come passare il tempo, solo cercando di approfondire il significato dei personaggi che partecipano al corteo e delle allegorie che sono presenti nei vari siboli, ci sarebbe materiale da divertirsi per mesi. Comunque visto che tra le quattro virtù ho scelto di dire qualcosa solo rispetto alla Prudenza ecco come la dipinge Piero del Pollaiolo, il fratello minore del ben più famoso Antonio. Vediamo una giovane donna, seduta su uno scranno che sorregge uno specchio che ne riflette l’immagine, mentre stringe un serpente nell’altra mano. Il serpente allude al passo del Vangelo di Matteo “Siate prudenti come serpenti” (Matteo 10,16), mentre l’immagine dello specchio rimanda all’occhio e alla vista, intesi soprattutto come strumento di conoscenza del mondo esteriore e interiore. Per questo è spesso legato all’iconografia della Verità e della Prudenza.
Se ci pensiamo gli occhi stessi sono definiti popolarmente gli “specchi dell’anima” poiché rifletterebbero – o tradirebbero – il carattere, l’umore e le intenzioni di una persona. Tuttavia, se lo sguardo è rivolto esclusivamente su di sé, l’autocontemplazione porta a narcisismo e vanità.
Lo specchio, dunque, incarna una valenza negativa o positiva secondo i casi: in esso ci si perde e ci si riconosce, si distingue il dissimile dal simile.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 11 Dicembre) è:

“bizzarro

Tutti gridavano: “A Filippo Argenti!”;
e ‘l fiorentino spirito bizzarro
in sé medesmo si volvea co’ denti.
(Inferno VIII, 62)
 
L’aggettivo bizzarro, qui riferito al fiorentino Filippo Argenti, ha il significato di ‘facile alla collera’, ‘iracondo’, diverso da quello, documentato dal XVI secolo e oggi comunemente diffuso di ‘che non segue i comportamenti considerati comuni e abituali’. L’etimologia è alquanto controversa poiché non si può ricondurre allo spagnolo bizzarro ‘coraggioso’ (a sua volta dal basco bizar ‘barba’) perché attestato soltanto a partire dal 1500 circa. Secondo alcuni studiosi deriverebbe invece da bizza con l’aggiunta del suffisso meridionaleggiante ­-arro; per altri dal latino vĭtiu(m); per altri ancora dalla base fonosimbolica *bec-/*beg-; *bac-/*bag-; *bic-/*big- usata per ‘voci che suscitano ripugnanza e disprezzo’ o, infine, dalla famiglia *biz- ‘insetto’. Come afferma Boccaccio, il significato che usa Dante era proprio del fiorentino: “bizzarro, cioè iracundo; e credo che questo vocabolo “bizzarro” sia solo de’ Fiorentini, e suona sempre in mala parte, per ciò che non tegnamo bizzarri coloro che subitamente e per ogni piccola cagione corrono in ira, né mai da quella per alcune dimostrazione rimuovere si possono”. Stando alle parole di Boccaccio, bizzarro dunque ben si addice a descrivere il personaggio di Filippo Argenti in tutte le sue caratteristiche: fiorentino e conosciuto per una spiccata superbia che spesso lo induceva a dimostrazioni d’ira, anche contro lo stesso Dante.
(Accademia dela crusca – M.D.C.)
Sicuramente con Filippo Argenti, suo vicino di casa, Dante ce l’aveva; abbiamo visto spesso come Dante non si faccia scrupoli o remore nel trattare male i suoi conterranei, ma qui proprio esagera. I maligni dicono che alla base ci siano le numerose liti tra i due e che una vota Dante sia stato addirittura preso a schiaffi da lui. Che comunque Filippo Argenti fosse “bizzarro” nel senso di iroso, vanitoso e prepotente ce lo certifica il soprannome (il suo nome era Filippo Adimari, ma fu soprannominato Argenti per il vezzo di ferrare il proprio cavallo con ferri d’argento). Si dice anche, ma non si sa se è leggenda metropolitana o verità, che fosse solito girare per Firenze a cavallo con le gambe più aperte possibile, in modo di colpire in faccia qualsiasi persona si permettesse di passargli troppo vicino. E “uomo grande e nerboruto, e (…) iracundo e bizzarro più che altro, e dotato di pugna (…) che parevan di ferro” ce lo descrive Boccaccio nell’ottava novella della nona giornata dove lo vediamo pestare a sangue il povero Biondello.
Ma Argenti viene recuperato anche ai nostri tempi in una canzone di Carapezza intitolata proprio “Argenti vive”. “Ciao Dante, ti ricordi di me? / Sono Filippo Argenti, / Il vicino di casa che nella Commedia ponesti tra questi violenti…” cos’ inizia la canzone, il resto potete sentirlo andando su you tube. E’ bello vedere come Dante continui a restare tra noi.
E per seguire questa linea di contemporaneità ecco l’illustrazione che dedica a Filippo Argenti Gabriele Dell’otto famoso fumettista italiano che nel 2018 ha illustrato per conto della Mondadori la Commedia. L’immagine è un po’ cruda, del resto Date qui non si comporta certo meglio di Filippo Argenti.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 4 Dicembre) è:

“menare

 

La bufera infernal, che mai non resta,
mena li spirti con la sua rapina;
voltando e percotendo li molesta.
(Inferno V, 32)
 
Menare è un verbo transitivo attestato, con vari significati (qui con quello di ‘condurre trascinando’), sin dall’italiano antico; deriva dal lat. tardo mĭnāre ‘spingere avanti gli animali da tiro con le grida e la frusta’, a sua volta dal lat. classico mĭnāri ‘minacciare’. Il Vocabolario della Crusca lo registra, nella prima edizione, con diverse accezioni: ‘condurre da un luogo all’altro’, ‘percuotere’, ‘agitare, dimenare’, ‘trattare, tramare’. Oggi menare si usa prevalentemente nel senso di ‘picchiare’, usato soprattutto in romanesco, dove regge la preposizione a (menare a qualcuno).
( Accademia della Crusca – K.D.V.)
Oggi mi voglio divertire andando a cercare varie citazioni per i diversi significati del verbo proposto dalla Crusca, vediamo cosa riesco a trovare. Comincio, per il significato di “condurre” con questa citazione presa dal capitolo 32 dei Promessi Sposi, quello tremendo della descrizione della peste e degli untori, forse non è il miglior modo di cominciare di questi tempi, ma va così: “gl’infelici eran tempestati di pietre, o, presi, venivan menati, a furia di popolo, in prigione” od anche questa del Petrarca “Ov’ancor per usanza Amor mi mena “ . Per il significato di “portare” scelgo questo verso tratto dalla poesia “alla sera” di Ugo Foscolo, forse dopo “tanto gentile e tanto onesta pare” il sonetto più bello della letteratura italiana ”quando dal nevoso aere inquïete / tenebre e lunghe all’universo meni”. C’e Dante, c’é Petrarca, può mancare Boccaccio? “menando la Lauretta una danza”, qui ovviamente nel senso di condurre . Ma c’è anche menare in senso di muovere rapidamente, qui mi viene in soccorso l’Ariosto : “Corre il fiero e terribil Rodomonte, e la sanguigna spada in cerchio mena”. C’è anche il significato di picchiare, ma in questo caso preferisco non cercare esempi, mostro però, visto che ho citato Rodomonte, il re moro che incarna al contempo il valore e la superbia, questa immagine tratta da un carretto siciliano moderno che ci mostra il duello tra Rodomonte e Mandricardo.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 27 Novembre) è:

“camiscia

 […] che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta […]
Inferno XXIII, 42)

Il canto XXIII del’Inferno, dedicato agli ipocriti, si apre con una scena precipitosa: Dante e Virgilio sono inseguiti dai diavoli della precedente bolgia e sono costretti alla fuga. Nel passo spicca una potente metafora, che in pochi versi descrive accuratamente una lunga sequenza di azioni: Virgilio, nel tentativo di salvare Dante dai demoni furibondi, si comporta come una madre premurosa che si accinge a salvare il figlio da un incendio (vv. 37-39).

(E come quella mamma, oggi
sono le molte mamme che
fuggono da un “incendio”
ben più grande per salvare
i propri figli da un futuro
di fame e miseria.
Come ci racconta questa foto)

In fretta e furia ella lo afferra, incurante di sé stessa, che ha indosso solo una camicia. Il sostantivo camicia, che indica un indumento simile alla tunica, lungo fino alle anche e portato di solito al di sotto della veste vera e propria, è attestato già dal XIII secolo; deriva dal latino tardo camīsĭa, a sua volta derivato, probabilmente per mediazione della lingua celtica, dal germanico *kamitja. La forma camiscia rappresenta l’esito tipico in Toscana del nesso latino /sj/, poi reso nella grafia con ci e quindi pronunciato con lo stesso fono iniziale di ciliegia.
(Accademia della Crusca – E.A.)

Qui più che fermarmi a riflettere sulla parola, mi pare più opportuno soffermarmi a sottolineare la bellezza di questi versi usati per fare un paragone che a prima vista potrebbe apparire scontato, vista la retorica che spesso accompagna in alcuni poeti la parola mamma; penso alla poesia imparata a memoria in terza elementare : “la mamma è come un albero grande che tuti i suoi frutti ti dà / per quanti gliene domandi sempre uno ne troverà ”; qui invece Dante dipinge, e il verbo non è casuale, un’immagine possente e delicata insieme; c’è la paura ma c’è al contempo  forza e sicurezza, cura e coraggio. Per dare possibilità di confrontarsi con le parole che scrivo  pubblico il paragone nella sua interezza riportando anche la terzina precedente: 

Lo duca mio di sùbito mi prese,
come la madre ch’al romore è desta
e vede presso a sé le fiamme accese
che prende il figlio e fugge e non s’arresta,
avendo più di lui che di sé cura,
tanto che solo una camiscia vesta;

Davvero  letti così nel loro insieme questi sono proprio versi che si depositano nel cuore, per lo meno nel mio.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 20 Novembre) è:

“drago

Poi parve a me che la terra s’aprisse
tr’ambo le ruote, e vidi uscirne un drago
che per lo carro su la coda fisse […]
(Purgatorio XXXII, 131)
 
      Quadro di Paolo Uccello conservato alla National Gallery
di Londra, che ci racconta di San Giorgio che uccide il drago
Il sostantivo ha due occorrenze nella Commedia: compare nell’Inferno (Inferno XXV, 23), nella forma draco, alla latina (in rima con Caco, il centauro che lo porta sulla schiena), a indicare l’animale alato che sputa fuoco, tipico dell’immaginario fantastico medievale (“Sovra le spalle, dietro da la coppa, / con l’ali aperte li giacea un draco; / e quello affuoca qualunque s’intoppa”); si trova poi nel Purgatorio (Purgatorio XXXII, 131), nella forma drago, in riferimento al draco magnus dell’Apocalisse, mostro mitologico munito di sette teste di serpente.
(Accademia della Crusca – L.F.)
“Drago”, è una parola sulla quale si potrebbe scrivere un libro intero ed infatti di libri interi ne sono stati scritti a bizzeffe. Del resto questa creatura mitico-leggendaria è presente nell’immaginario collettivo di tutte le culture. Di solito creatura maligna per l’occidente, portatrice di bontà e fortuna per l’oriente. MI ricordo il drago che secondo Apollonio Rodio nelle Argonautiche faceva la guardia al Vello d’oro, mi ricordo che di dragi era piena l’ Historia Naturalis di Plinio il Vecchio, ricordo che di Draghi sono pieni i giornali di questi mesi. Se penso all’Apocalisse mi viene in mente il suo drago con sette teste e dieci corna (questo di Dante ha anch’esso sette teste ma quattro con le doppia corna, 3 con una corno solo.). Tante teste aveva anche l’Idra, per batterla Ercole dovrà sudare sette camicie. San Giorgio che combatte il drago è un classico del’iconografia cattolica, il “drago” Cerruti Gino che viene catturato al Giambellino è un classico della canzone d’autore. E tutti i draghi delle fiabe?
“Come potremmo dimenticare quegli antichi miti che stanno all’origine di tutti i popoli, i miti dei draghi che nell’attimo estremo si tramutano in principesse? Forse tutti i draghi della nostra vita sono principesse, che attendono solo di vederci una volta belli e coraggiosi. Forse tutto l’orrore non è in fondo altro che l’inerme che ci chiede aiuto.” scrive Rainer Maria Rilke.
Ma forse può avvenire anche il contrario, penso a quello che raccontava Stefano Benni: “tutte le volte che sorridevo a una principessa, quella cercava rifugio presso il drago.”

 

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La parola di oggi (Sabato 13 Novembre) è:

“febbre

 

Lo trafitto ’l mirò, ma nulla disse;
anzi, co’ piè fermati, sbadigliava
pur come sonno o febbre l’assalisse […]
(Inferno XXV, 90)
 
            (Scelgo come immagine questa bella scultura dell’artista
Biagio Poidimani posizionata all’interno della Fonte Aretusa a Siracusa)
Nel significato, ancora attuale, di ‘aumento della temperatura corporea al di sopra della norma’, la febbre nel passo dantesco è uno degli effetti causati dal morso velenoso del serpente infernale. Il termine ricorre in altri due luoghi dell’Inferno: nel canto XXX, 99 si parla di febbre aguta, che indica un tipo di febbre ben noto nei testi volgari dell’epoca, cioè un’‘afflizione che si sviluppa all’interno dell’apparato circolatorio’; nel canto XXVII, 97 ha invece valore metaforico di ‘affezione dell’animo’.
(Accademia della Crusca – K.D.V.)
Qui siamo nella VI Bolgia, quella dei ladri, non faccio certo fatica ad immaginare come nel corso dei secoli questa bolgia sia andata via via aumentando, e come ancor di più ora continuamente si ingrandisca. Questi versi che con gli altri che seguono ci descrivono una vera e propria metamorfosi, mi ricordano che devo iniziare a rileggere le Metamorfosi di Ovidio per cominciare a preparare gli incontri che terrò da gennaio in avanti all’Acu proprio sulle Metamorfosi di Ovidio. E qui, in questo canto, Ovidio è proprio citato da Dante che afferma che per quanto abbiano scritto Ovidio e Luciano, le metamorfosi alle quali lui ha assistito vanno ben oltre. E sicuramente in questo canto Dante mostra una bravura descrittiva, nel presentarci il serpente che dinventa uomo e al contempo l’uomo che diventa serpente, davvero impareggiabile. Per quanto riguarda la parola febbre ho poco da dire, è una parola che è arrivata intatta a noi con quei sintomi e quelle conseguenze che ognuno di noi ben conosce. Per illustrare il post visto che Dante fa riferimento ad Aretusa, la ninfa trasformata in fonte alla quale Alfeo si unisce raggiungendola dopo essersi trasformato in fiume.

 

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La parola di oggi (Sabato 6 Novembre) è:

“smarrire

Nel mezzo del cammin di nostra vita
mi ritrovai per una selva oscura,
ché la diritta via era smarrita.
(Inferno I, 3)

La prima rima della Commedia si realizza grazie al participio passato femminile del verbo smarrire, che ha altre attestazioni nel corso del poema (a volte nella variante ismarrire, con la i prostetica dopo parola terminante in consonante), non di rado nella forma riflessiva e con varie sfumature semantiche, da ‘perdere’ a ‘confondersi’ a ‘sbigottire’. Lo stesso participio ritorna al maschile, quasi a chiudere il cerchio, nell’ultimo canto del Paradiso, nella visione dell’essenza divina, dalla quale non si può distogliere lo sguardo senza smarrirsi (“Io credo, per l’acume ch’io soffersi / del vivo raggio, ch’i’ sarei smarrito, / se li occhi miei da lui fossero aversi”, XXXIII, 77).

Si tratta di un verbo derivato dal germanico *marrjan ‘essere di malumore’, entrato già nel latino tardo e inserito nella classe dei verbi in -ire, con l’aggiunta del prefisso intensivo s-. Rispetto a perdere, smarrire indica un evento momentaneo e lascia aperta la possibilità di un ritrovamento: in tal senso, e probabilmente proprio per suggestione di Dante (che nel suo viaggio torna sulla retta via), nella versione italiana della parabola evangelica del Buon Pastore è diventata pecorella smarrita quella che in Luca è “ovem meam quae perierat” e in Matteo “quae erravit”.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)

Questa è una terzina che quasi tutti gli italiani conoscono e che alle volte in momenti di difficoltà non abbiamo esitato a riportare alla mente per farci coraggio. Ci siamo detti: “certo in questo momento siamo smarriti, ma anche Dante era smarrito e nonostante ciò ha saputo non solo uscire dalla “selva oscura” ma arrivare al’Empireo”. Ed è vero quello che rileva il commentatore “smarrire” è un verbo che non dà disperazione perché lascia intendere che la perdita è momentanea, che la cosa persa si possa ritrovare, che la strada smarrita si possa rintracciare. Si è vero, anche la pecorella non è perduta, è smarrita. Tutto ciò per dire che ognuno ha, ha avuto, potrà avere una sua “selva oscura”, ma non bisogna mai, proprio mai farsi prendere dal panico. Da tutto si può uscire.

 

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La parola di oggi (Sabato 30 Ottobre) è:

“universo

 

Nel suo profondo vidi che s’interna, 
legato con amore in un volume, 
ciò che per l’universo si squaderna […]
(Paradiso XXXIII, 87)
 
Per illustrare il post cosa c’è di meglio dell’antica modernità di Dalì? 
Il sostantivo universo compare 13 volte nella Commedia (5 nell’Inferno, 8 nel Paradiso, mai nel Purgatorio). L’ultima occorrenza del termine è in questa terzina: nella profondità di Dio, Dante vede che tutto ciò che nell’universo è separato e diviso (“si squaderna”) si trova raccolto, custodito dentro (“s’interna”), legato con amore. Nell’unità divina si unificano tutte le divisioni e le contraddizioni dell’universo.
(Accademia della Crusca – L.F.)
 
 
 
Qui vediamo un Dante, come in realtà abbiamo già visto molte altre volte, capace di trasformare  in poesia pensieri complessi legati alla filosofia, alla fisica, alla teologia, all’astronomia e al misticismo.
Infatti in questa terzina c’è tutto questo ma soprarutto c’è poesia.  Tutto quanto esiste nell’Universo, immaginato come fogli di quaderno dispersi e casuali, si può vedere in Dio rilegato come un unico libro. Ma c’è una cosa che non ci deve sfuggire, questo libro è “rilegato con amore”. Quell’amore che come ci dice il verso alla fine del canto che chiude tutta la Commedia “che move il sole e le altre stelle”. Del resto l’amore nella Divina Commedia è ovunque. Procede dal basso verso l’alto, dai sensi allo spirito, in molte forme diverse: passionale e familiare, terreno e divino, disperato e soave. È l’amore infatti la vera spinta che porta Dante a intraprendere il suo viaggio dagli inferi al cielo.
Per illustrare il post cosa c’è di meglio dell’antica modernità di Dalì? 

 

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La parola di oggi (Sabato 23 Ottobre) è:

“epa

E l’un di lor, che si recò a noia
forse d’essere nomato sì oscuro,
col pugno li percosse l’epa croia.
(Inferno XXX, 102)

 

Visto che la parola è “pancia” ecco il  quadro di Botero …

Dal gr. hêpar (in lat. hēpar), cioè ‘fegato’, il termine ricorre per due volte all’interno del canto XXX dell’Inferno con il significato di ‘ventre’. Dante descrive con estremo realismo il pugno che il greco Sinone, personaggio dell’Eneide, dannato tra i falsari di parola, sferra sul ventre gonfio e duro dell’idropico Maestro Adamo. Questa immagine trae ulteriore espressività dall’utilizzo dell’aggettivo croia, probabilmente dal provenzale croi, a sua volta dal lat. corium ‘cuoio’, che per la prima volta viene utilizzato da Dante non con l’accezione moraleggiante di ‘vile, spregevole’, ma con quella più concreta di ‘duro’.
(Accademia della Crusca- K.D.V.)

Sulla Settimana Enigmistica spesso mi è capitato di incontrare la definizione: “ “ventre, pancia” da collocare in tre caselle vuote, epa appunto. Ancor più spesso l’ho incontrata nei rebus. La parola rimane comunque legata al suo significato greco nelle parole mediche come epatico, epatite etc. etc.

E’ questo un canto in cui Dante, ma questo avviene anche in altri canti, dimostra di avere profonde cognizioni mediche (pensiamo alla descrizione dell’idropisia di Maestro Adamo o della “febbre aguta” di Sinone), del resto alcuni studiosi hanno ipotizzato che in un viaggio giovanile a Bologna, Dante abbia avuto modo di frequentare per qualche tempo corsi di medicina presso l’Università di quella città; si ipotizza ciò anche per la sua scelta di iscriversi nel 1295 all’arte dei medici e degli speziali che però conteneva altre branche oltre quelle citate. Dei corsi universitari non esistono prove dirette, la prova invece della sua appartemenza alla corporazione la si trova sfogliando l’albo delle iscrizioni alle corporazioni medioevali conservato a Firenze.

 

 

 

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La parola di oggi (Sabato 16 Ottobre) è:

“latino

 

Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: “Parla tu; questi è latino“.
(Inferno XXVII, 33)

 

Dante viene sospinto da Virgilio a parlare con Guido da Montefeltro, il quale racconta la propria drammatica storia, che lo ha portato all’Inferno tra i consiglieri fraudolenti: diversamente dal greco Ulisse, protagonista del canto precedente, Guido è latino, cioè ‘italiano’: in questo come in altri passi dell’Inferno e del Purgatorio, latino vale infatti ‘italiano’, secondo un uso dei primi secoli che sottolinea la continuità tra l’Italia antica e l’Italia medievale. Nel Paradiso invece latino assume significati diversi: come sostantivo, vale ‘linguaggio’ (Paradiso X, 120: “quello avvocato dei tempi cristiani [Orosio] / del cui latino Augustin si provide”), ‘discorso’ (Paradiso XVII, 35: “per chiare parole e con preciso / latin rispuose quello amor paterno”); come aggettivo significa ‘chiaro’ (Paradiso III, 63: “ma ora m’aiuta ciò che tu mi dici, / sì che raffigurar m’è più latino”). Italiano, che Dante, come Petrarca, non usa, era pochissimo attestato al suo tempo, e si affermerà poco dopo, a partire dai testi in prosa. Dante, per riferirsi all’Italia, ben presente nella Commedia (ricordiamo la forza dell’invettiva “Ahi, serva Italia, di dolore ostello!”, Inferno VI, 76), anche se non come concetto politico, usa, oltre a latino, l’aggettivo italico (Paradiso IX, 26: “In quella parte de la terra prava / italica che siede tra Rialto”; Paradiso XI, 105: “reddissi al frutto dell’italica erba”).

(Accademia della Crusaca – I.B.)

La cosa che più mi ha colpito in questo episodio è assistere, dopo la morte di Guido da Montefeltro, al dibattito tra San Francesco (niente meno) e un diavolo per contendersi la sua ’anima; avremmo pensato tutti che San Francesco avrebbe vinto facile invece… invece ha la meglio il diavolo che sostiene (da un punto di vista teologico inappuntabile) che la coscienza viene prima dell’obbedienza e perciò lo vediamo prendere l’anima di Guido e consegnarla a Minosse che controvoglia (per la rabbia si mangia la coda) lo invia tra i fraudolenti. Ma perché all’Inferno? Guido fu un grande ed astutissimo condottiero ghibellino che poi, pentito, divenne frate francescano. Bonifacio VIII gli chiese un consiglio su come espugnare la rocca di Palestrina, (la città dei Colonna suoi odiatissimi avversari) promettendogli l’assoluzione in anticipo su qualunque soluzione avrebbe dato anche la più “sporca”. Guido, pur tra travagli e incertezze, gli consigliò di promettere il perdono ai nemici e poi di non mantenerlo, cosa che permise al papa di radere al suolo Palestrina.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 09 Ottobre) è:

“loquela

 

La tua loquela ti fa manifesto
di quella nobil patria natio,
a la qual forse fui troppo molesto.
(Inferno X, 25)

 

Farinata riconosce Dante come suo conterraneo, identificandolo precisamente come fiorentino (“di quella nobil patria natio”) per il suo modo di parlare. Loquela è una parola latina usata nel Convivio e in altri versi del poema (Paradiso XXVII, 134 e XXIX, 131) nel senso di ‘idioma’ o di ‘facoltà di linguaggio’. Il v. 25 allude qui, con una citazione letterale, al passo del Vangelo (Matteo 26, 73) in cui Pietro è riconosciuto come seguace di Gesù proprio per la sua parlata: “loquela tua manifestum te facit”. Non è impossibile che tale citazione, attribuita da Dante a Farinata, fosse in qualche modo diffusa nella comunicazione corrente (come accade tuttora per molte frasi dei Vangeli), in riferimento al fatto che nella variabilità geografica della realtà linguistica italiana non era difficile riconoscere le origini di una persona dal suo modo di parlare. Del resto, anche il pisano Ugolino, sentendo parlare Dante si accorge che è fiorentino (“ma fiorentino / mi sembri veramente quand’io t’odo”, Inferno XXXIII, 11-12). La variabilità dei volgari, descritta nel de vulgari eloquentia, secondo l’autore, è destinata a essere superata nella scrittura letteraria, ma il personaggio Dante, nella comunicazione parlata a cui allude l’opera, mostra evidentemente segni riconoscibili del suo volgare municipale materno. Una ripresa di questi versi (e del passo evangelico) si coglieva nei Promessi sposi del 1827 (cap. a proposito della “loquela” di un bravo del contado di Bergamo, che avrebbe dovuto far credere ad Agnese che il tentativo di rapimento di Lucia “proveniva da quella parte”. Nell’edizione definitiva Manzoni sostituisce loquela con linguaggio, ma permane il riferimento alla variabilità linguistica tra le diverse località, anche all’interno di una stessa area regionale.
(Accademia della Crusca – N.D.B.)

Anche oggi la “loquela”, o la differenza di accento, ci fa capire subito da che parte proviene una persona. Le differenze di parlata, pur nell’uso della medesima lingua o dialetto, sono così tante da essere diverse, alle volte, anche tra paesi e città confinanti. Si dice “dialetto milanese” ma quante diversità ci sono in quel milanese; già il milanese di Brugherio diverge (seppure per piccoli tratti), da quello di Milano e da quello di Monza. Che vi siano differenze tra Monza e Milano non mi sorprende, anzi secondo me le hanno accentuate apposta, perché tra queste due città, che pure quasi confinano, c’è sempre stata la voglia di differenziarsi, a partire proprio dal rito religioso, a Milano c’è il rito ambrosiano, a Monza quello romano. Così ci sono, a pochi chilometri di distanza, due diversi riti per la messa, due diversi carnevali. Mi ha portato a riflettere sul presente anche questo ricordo del “bravo” manzoniano che parlava bergamasco utilizzato per depistare, quante volte sui giornali abbiamo letto che il rapinatore parlava “con forte accento straniero”.

A questo punto visto che ho parlato di Monza come illustrazione posto questa bella immagine dell’affresco del museo del Duomo di Monza che rappresenta il matrimonio di Teodolinda, figlia del Duca di Baviera, con il re dei longobardi Autàri.

 

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La parola di oggi (Sabato 02 Ottobre) è:

“ortolano

 

Le fronde onde s’infronda tutto l’orto
de l’ortolano etterno, am’io cotanto
quanto da lui a lor di bene è porto.
(Paradiso XXVI, 65)

Il sostantivo ortolano (attestato dal XIII secolo, dal latino hortulanus, derivato di hortus ‘orto’) è utilizzato solo questa volta nella Commedia ed è inserito dal poeta all’interno di una metafora di origine evangelica, legata all’ambito semantico dell’agricoltura. In risposta alle domande che San Giovanni gli pone riguardo alla carità, una delle virtù teologali di cui si discute nel XXVI canto del Paradiso, Dante afferma di amare profondamente il creato e tutte le creature, tanto quanto Dio stesso le ama. In questo passo, infatti, le “fronde” di cui si “infronda” (verbo parasintetico di invenzione dantesca) “l’orto”, cioè il mondo, sono tutti i viventi e “l’ortolano etterno” è Dio, che li crea e li nutre.
(Accademia della Crusca – E.A.)

Questo canto mi ha sempre fatto venire in mente il tutolo della bella commedia di Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”, infatti Dante dopo aver superato l’esame di San Pietro sulla fede, l’esame sulla Speranza di San Giacomo Maggiore ( l’apostolo fratello di Giovanni che, stando ai Vangeli, con Pietro e Giovanni vide la trasfigurazione di Gesù), viene sottoposto a un terzo esame, stavolta sulla Carità eseguito da San Giovanni. Tre esami perché tre sono le virtù teologali. Subito dopo incontrerà Adamo ma a quel punto sarà Dante a domandare. Venendo alla parola direi che è un vocabolo che ognuno di noi conosce ed utilizza ed è bello leggerla nel significato e l’importanza che Dante metaforicamente da a questa figura applicandola a Dio. Direi che è una grande attestazione di una concezione in cui la Natura altro non è che l’orto nel quale mettiamo radici e cresciamo, crescita che necessariamente pevede cura e attenzione al Tutto. Direi che siamo in piena e totale concezione ecologica.

Come illustrazione ecco un quadro di Giuseppe Arcimboldo, pittore manierista milanese di fine ‘500. Qui ci presenta il ritratto di Rodolfo II d’Asburgo imperatore del sacro romano impero

 

 

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La parola di oggi (Sabato 25 Settembre) è:

“zaffiro

 

Dolce color d’oriental zaffiro,
che s’accoglieva nel sereno aspetto
del mezzo, puro infino al primo giro […]
(Purgatorio I, 13)

 

Alle soglie del Purgatorio, il tono del poema dantesco cambia improvvisamente: abbandonate le tinte forti e cupe dell’Inferno, che hanno “contristati li occhi e ’l petto” (v. 18) del poeta, si entra in un mondo dominato da bellezza, serenità e purezza. Ciò che colpisce subito gli occhi di Dante è il cielo, unica cosa visibile, che riempie il cuore della dolcezza di un colore, quello dell’”oriental zaffiro”, che incarna pienamente lo spirito della nuova cantica. Il colore dello zaffiro, un azzurro limpido e trasparente, era paragonato a quello del cielo già nei lapidari medievali e il sostantivo, databile al 1225 circa e derivato dal latino sapphiru(m), a sua volta dal greco sáppheiros, assume, per metonimia, accezione cromatica già alla fine del Duecento.

(Accademia della Crusca – E.A).

Zaffiro ecco una parola che già solo all’udirla ci provoca emozioni; ci rasserena perché come dicono i poeti infonde tranquillità e bellezza, Carducci ci dice che non sa come “ma di zaffiro / Sento ch’ogni pensiero oggi mi splende”.

Nella Bibbia fu il colore usato figurativamente per descrivere le visioni della gloria di Dio:, Ezechiele ci dice due volte di aver visto “la somiglianza di un trono che era simile alla pietra di Zaffiro”. Ma molte sono le religioni antiche che ci parlano dello zaffiro e molte sono le leggende legate a questa pietra preziosa una delle più famose è un’antica fiaba persiana che ci racconta che i figli del re di Serendip (antico nome dello Sri Lanka) furono mandati in viaggio per sperimentare la realtà del mondo. Per caso i tre giovani Principi scoprirono cose meravigliose, tra queste una miniera di zaffiri. Da questa leggenda nasce l’origine del concetto inglese di “Serendipity” ossia la fortuna strepitosa nel trovare inaspettatamente cose di valore mentre si sta volgendo l’attenzione a tutt’altro.

Effettivamente però, anticamente questa gemma proveniva esclusivamente dalle miniere dello Sri Lanka, ancora oggi la fonte mineraria di zaffiri più importante al mondo. Siamo così passati dalia poesie e dalla leggenda alla a realtà ed allora ecco qui uno degli zaffiri più famosi del mondo lo “Zaffiro di Sant’Eodardo” incastonato alla sommità della corona inglese.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 18 Settembre) è:

“lunghesso

 

Noi eravam lunghesso mare ancora
come gente che pensa a suo cammino,
che va col cuore e col corpo dimora.
(Purgatorio II, 10)

Lunghesso è preposizione dell’italiano antico, col valore di ‘lungo’, ‘accanto a’. Lungo è rafforzato da esso, spesso impiegato nella lingua medievale in funzione rafforzativa (‘proprio’), sia agganciandosi a preposizioni (sovresso, sottesso) che precedendo pronomi e nomi (anche seguito da articolo), come in Purgatorio IV, 27: “Vassi in Sanleo e discendesi in Noli,/ montasi su in Bismantova e ‘n Cacume/ con esso i piè”.

(Accademia della Crusca – V.C.)

La preposizione dantesca di oggi, è assai antica, praticamente non più usata, ma mantiene in lei una sua specifica poeticità, che ancora troviamo sopratutto in quei poeti che fanno della parola un cammeo da ammirare; non per caso la troviamo in D’annunzio. Vi ricordate “Settembre” col suo bel incpit: “Settembre andiamo è tempo di migrare”? qualche riga più avanti ecco “lunghesso il litoral cammina/ la greggia” .

Ma la di là del fatto se questa preposizione piaccia o non piaccia siamo davanti a un’altra terzina particolarmente amata da chiunque ha esperienza di viaggio; è il momento in cui l’alba si è trasformata in aurora, si è pronti alla partenza, la tappa è già tutta fissata nella nostra mente, ma ancora, una leggera ed impercettibile malinconia, ci fa indugiare, come a mandare un ulteriore saluto al luogo che ci ha accolto la sera prima. E comunque nel viaggiare quante albe, quante aurore, quanti tramonti.

Quante ne ho incontrate nel mio andare…

 

 

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La parola di oggi (Sabato 11 Settembre) è:

“galassia

Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno […]
(Paradiso XIV, 99) 

La terzina in cui appare il termine galassia costituisce la prima parte di una similitudine con la quale Dante paragona la via lattea ai beati del cielo di Marte. La prima, distesa tra i poli della terra, biancheggia di notte per la moltitudine di stelle che la compongono, i secondi irradiano allo stesso modo una luce abbagliante, ma si dispongono a formare nel cielo il “venerabil segno” della croce. Il termine, di ambito astronomico, era già stato usato e a lungo spiegato nel Convivio, ma sono i versi della Commedia a fissarlo, grazie all’immagine suggestiva in cui è inserito, nella mente e nella memoria del lettore.
(Accademia della Crusca – R.L.)

Forse per capire meglio è bene aggiungere altri versi in modo da chiudere la similitudine:

Come distinta da minori e maggi
lumi biancheggia tra ‘ poli del mondo
Galassia sì, che fa dubbiar ben saggi;
sì costellati facean nel profondo
Marte quei raggi il venerabil segno
che fan giunture di quadranti in tondo

Ovvero, come la Via Lattea, la cui natura fa dubitare i più saggi, biancheggia tra gli opposti poli celesti, punteggiata da stelle di maggiore e minore splendore, così quei due raggi (i beati del cielo di Marte), percorsi dai lumi, formavano il segno della croce, ovvero il segno che divide il cerchio in quattro quadranti uguali.

Dello spazio non parlo mai volentieri perché sono numeri e grandezze che non riesco neppure ad immaginare. Nell’Universo ad oggi sono state calcolate più di 200 miliardi di galassie, le più piccole delle quali contengono centinaia di milioni di stelle. Solo a scriverlo mi sento stordire, preferisco allora, visto che il temine deriva dal greco γαλαξίας (galaxìas), che significa “di latte, latteo” , raccontare il mito che ha dato il nome a questa parte di cielo.

Zeus, invaghitosi di Alcmena, dopo avere assunto le fattezze del marito, il re di Trezene Anfitrione, ebbe un rapporto con lei, che rimase incinta. Dal rapporto nacque Eracle che Zeus decise di porre, appena nato, nel seno della sua consorte Era mentre lei era addormentata, cosicché il bambino potesse bere il suo latte divino per diventare immortale. Era si svegliò durante l’allattamento e si rese conto che stava nutrendo un bambino sconosciuto: respinse allora il bambino e il latte, sprizzato dalle mammelle, schizzò via, andando a bagnare il cielo notturno; si sarebbe formata in questo modo, secondo gli antichi Greci, la banda chiara di luce nota come “Via Lattea”.

Nella foto allegata il quadro che ci mostra come questo mito, la nascita della Via Lattea,  fu interpretato da Tintoretto

 

 

 

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La parola di oggi (Sabato 4 Settembre) è:

“aiuola

 

L’aiuola che ci fa tanto feroci,
volgendom’io con li etterni Gemelli,
tutta m’apparve da’ colli a le foci

 

Anche in Paradiso XXVII, 86: “E più mi fora discoverto il sito / di questa aiuola”. Dante usa due volte questa metafora (aiuola = piccola aia) per sottolineare l’infinitesima piccolezza della Terra vista dall’altezza infinita del cielo. Il confronto tra la piccolezza della Terra e l’infinità dell’universo è presente in diversi autori classici e anche volgari, anche se il punto di riferimento di Dante pare Boezio.

(Accademia della Crusca – C.G.)

E’ probabile che alcuni lettori di questo post leggendo la parola “aiuola” e poi vedendo a lato la foto, meravigliandosi diranno: “ma cosa c’entra la parola con la foto?” Si tratterebbe di una meraviglia assolutamente comprensibile perché fa il paio con la mia allo scoprire che la parola aiuola, che in me richiama, fiori ed erbette, ed anche rotonde tra strade affollate, in realtà nasce con un significato di “piccola aia”. Ma al di là di questa meraviglia voglio segnalare la bellezza e la crudezza di questo verso su cui è sempre opportuno meditare: “L’aiuola che ci fa tanto feroci”. Si, guerre, uccisioni, dolori, per un lembo di terra che, paragonato alla grandezza dell’Universo, nemmeno un atomo sarebbe. Piccolezza della terra, piccolezza nostra, mi vengono in mente le parole de “l’amico ritrovato” di Fred Uhlman: “Per la prima volta mi resi conto della mia infinita piccolezza e del fatto che la nostra terra non era altro che un sassolino su una spiaggia dove, di sassolini, ne esistevano a milioni.“ Pensiero che porto sempre con me.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 28 Agosto) è:

“gaggio

 

Ma nel commensurar d’i nostri gaggi
col merto è parte di nostra letizia,
perché non li vedem minor né maggi.
(Paradiso VI, 118)

 

Confrontare i premi ricevuti a ciò che abbiamo fatto è parte della nostra gioia, dice Giustiniano, perché non sono né minori né maggiori (del giusto). Premi è dunque qui gaggi, plurale di gaggio, un gallicismo attestato nella lingua del Trecento nel senso di ‘pegno’, ‘garanzia’ (ce n’è traccia nel nostro ingaggio). Dante lo usa invece nel senso di ‘premio’, ‘ricompensa’, forse spiegabile col fatto che a volte il gaggio veniva dato al vincitore di un torneo, come si legge in un passo della Cronica di Matteo Villani.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Si credo anch’io che un retaggio di questa parola antica, che ora significa semplicemente pegno, sia nascosta all’interno del termine “ingaggio”, infatti cos’è un ingaggio se non la promessa di una ricompensa collegata ad un impegno da svolgere? Ma venendo al canto nel suo complesso il  protagonista qui  è Giustiniano, ultimo imperatore bizantino educato nel seno di una famiglia di lingua e cultura latine, che regnò dal 527 fino al 565 anno della sua morte. La sua eredità più duratura fu il riordinamento del diritto romano nel Corpus iuris civilis . Giustiniano, sempre per via di quelle coincidenze che spesso mi meravigliano,  mi ha fatto compagnia in queste vacanze.. Infatti il libro che ho letto in quei giorni era: “le guerre gotiche” di Procopio, che di quel periodo è staro testimone oculare nonché storico di corte. Mi ha fatto compagnia Giustiniano ma soprattutto Belisario il suo generale che Dante ci dice che passò di vittoria in vittoria perché assistito direttamente dal cielo. Procopio a dire il vero questo non lo dice ma certamente ce lo descrive come un generale assi capace ed intelligente, furbo ma altresì’ giusto e generoso. A proposito di giustizia Giustiniano in Paradiso spiega a Dante che le sue beatitudini sono minori, rispetto ai cieli superiori, (del resto è inevitabile che chi cerchi sulla terra onore e fama, si dedichi meno di altri all’amore divino), ma che ciò non provoca nessun pensiero negativo perché i premi sono perfettamente commisurati al merito e la giustizia divina  è tale che ad ognuno sembra di avere la gioia perfetta.

Nel bellissimo mosaico di Sant’Apollinare in Classe nei pressi di Ravenna lo vediamo rappresentato  insieme alla moglie Teodora, donna di grande bellezza e intelligenza che l’aiutò non poco nella gestione dell’Impero.  

 

 

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La parola di oggi (Sabato 21 Agosto) è:

“stormo

 

Io vidi già cavalier muover campo,
e cominciare stormo e far lor mostra,
e talvolta partir per loro scampo […]
(Inferno XXII, 2)

Diversamente dal corrispondente verbo stormire, il sostantivo stormo (dal longobardo *sturm ‘tempesta’) non ha in Dante la sua prima attestazione italiana, perché è usato già in precedenza nel senso di ‘tumulto’, ‘zuffa’. Qui cominciare stormo significa ‘dare inizio allo scontro’, ‘iniziare l’assalto’. In seguito la parola verrà usata soprattutto per riferirsi a gruppi di persone (anche non armate) o di animali, in particolare di uccelli o insetti in volo (e quindi anche di aerei militari).

( Accademia della Crusca  ‘P.D’A.)

Qui la parola viene usata come similitudine per descrivere i dieci diavoli che si apprestano a fare da scorta a Dante e Virgilio nella Male Bolge, a me però la prima immagine che è venuta in mente è “Tra le rossastre nubi/ Stormi d’uccelli neri/  com’esuli pensieri /nel vespero migrar” di quella poesia carducciana (San Martino) con la nebbia che “sale agli irti colli” e che mi è restata arpionata nel cuore fin  dalle elementari. Ma nei ricordi del cuore se la cavano bene anche le campane di Giovanni Pascoli che spesso suonavano a stormo, o come anche si dice “a martello” ovvero con rintocchi rapidi e staccati per radunare la gente o avvisarla di un pericolo. Credo che siano ricordi che entrino nel cuore anche di alcuni dei lettori di questa rubrica perché  Carducci e Pascoli sono due autori che abbiamo affrontato nei nostri corsi all’Acu.

Non ci pensavo ma guarda caso passa un aereo, ed ecco che la parola stormo mi richiama le frecce tricolori un pezzo di quell’Italia della quale andare orgogliosi;  approfitto allora per mandare un  saluto a tutti i componenti della Compagnia della Mongolfiera che da anni sono impegnati per  far conoscere le imprese del volo a partire da quel famoso 13 marzo del 1784 quando il conte Paolo Andreani nella sua Villa a Moncucco (ora Brugherio) fece salire in volo la prima mongolfiera d’Italia. Certo “stormo” sono anche i bombardieri ma quelli è meglio non vederli mai volare.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 14 agosto) è:

“garrire

 

Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
pur che mia coscienza non mi garra,
ch’a la Fortuna, come vuol, son presto.
(Inferno XV, 92)
 
Il verbo garrire, che per noi oggi nomina, come già in Petrarca, lo stridio delle rondini, in passato valeva anche ‘rimproverare’, ‘rimordere’ e in questo senso lo usa Dante qui e a Paradiso, XIX 147. In entrambi i passi lo adopera al congiuntivo (con forma senza l’interfisso -isc- che si userebbe oggi in garrisca) e in rima col raro arra, ‘anticipo, caparra’.
(Accademia della Crusca – V.C.)
“io voglio che vi sia chiaro che sono pronto a ciò che la fortuna mi riserva, purché non mi rimorda la coscienza” così risponde Dante davanti alla profezia del suo maestro Brunetto Latini.
Chissà – mi chiedo – com’è avvenuto che nel giro di poco tempo il verbo garrire sia passato dal significare “ rimproverare, rimordere” a definire il ciarliero chiacchiericcio delle rondini; forse che il loro stridio potesse far pensare a reciproci rimproveri durante un litigio? Non so. Però del tutto scomparso questo significato antico non è, lo incontriamo ancora nella “mie prigioni” di Silvio Pellico: “finimmo per potere ogni giorno conversare assai, senza che alcun superiore più avesse quasi mai a garrirci”. Inoltre ha anche un altro significato questo verbo ed quello di indicare il fremere delle bandiere, delle vele o dei drappi in genere, agitati dal vento. “La vela maestra sbatteva e garriva come un vessillo.” scrive D’Annunzio. Ma per illustrare la parola, non scelgo bandiere o vessilli, scelgo le rondini, e scelgo proprio quelle che hanno nidificato sotto il tetto della cascina”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 7 agosto) è:

“agrume

 

[…] e poscia per lo ciel, di lume in lume,
ho io appreso quel che s’io ridico,
a molti fia sapor di forte agruame […]

(Paradiso XVII, 117)

 

Il sostantivo agrume deriva dal latino volgare *acrūme(n) ‘frutto aspro’, dal latino classico ācrus ‘acre’; entrambe le forme risalgono alla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’. Nel Trecento, secolo delle prime attestazioni, il sostantivo aveva un significato ben diverso da quello attuale: non indicava infatti i frutti e gli alberi del genere Cedro, ma alcuni tipi di ortaggi dal gusto forte e pungente, come il porro, la cipolla o l’aglio. Proprio questa antica accezione permette a Dante di sviluppare una metafora dalle tinte realistiche e concrete: tutte le verità che egli apprende nel Paradiso attraverso le parole profetiche dei beati, spostandosi di “lume in lume” (v. 115), avranno per molti di coloro che le ascolteranno un sapore intenso e spiacevole, analogo, appunto, a quello tipico di alcuni aspri ortaggi.

(Accademia della Crusca – E.A.)

E Dante questo coraggio di “ridire” pur sapendo l’odio e le inimicizie che tutto ciò gli avrebbe procurato, ce l’ha. Lo spinge a ciò però, il coraggio certo, ma altresì la voglia di “fama” dice infatti nei versii successivi :

“e s’io al vero son timido amico,
temo di perder viver tra coloro
che questo tempo chiameranno antico”

ovvero parafrasando:

“se io sarò timido amico della verità (se ometterò dei particolari), temo di non avere la possibilità di vivere tra coloro che definiranno antico questo tempo (tra i posteri).”

Bello questo modo di definire i posteri “coloro che questo tempo chiamearnno antico”.

E in ciò avrà l’approvazione totale del suo avo Cacciaguida (protagonista di quasi tre cantiche intere del Paradiso) che lo invita a dire tutto senza tentennamenti fregandosene di chi ci rimarrà male, (e lo dice ciò usando un perfetto francesismo): “lascia – dice – che chi ha la rogna si gratti”. Ma da anche un’altra spiegazione che sembra uscita dalle cronache scandalistiche dei giornali odierni, gli ricorda che nei vari regni dell’Olttetomba (Inferno, Purgatorio, Paradiso) gli sono stati mostrati pressoché solo anime note, perché alle esperienze della gente comune nessuno presta attenzione, nessuno le porta ad esempio. Insomma (per lo meno dal punto di vista dei comportamenti) siamo sempre all’Ecclesiaste (1,10) “nihil novum sub sole”. Niente di nuovo sotto il sole. Per illustrare il post scelgo una delle foto (sempre magnifiche) di Sara Gambazza.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 31 Luglio) è:

“addio

 

Era già l’ora che volge il disio
ai navicanti e ’ntenerisce il core
lo dì c’han detto ai dolci amici addio […]
(Purgatorio VIII, 3)
 
In rima con disio e in dipendenza del verbo dire, la Commedia ci offre qui una delle prime attestazioni di questa formula di saluto di congedo (propriamente a Dio, cioè ‘ti/vi raccomando a Dio’, ‘ti/vi affido a Dio’), che è la più antica tra quelle tuttora in uso. Allora, però (e così ancora fino a tempi recenti), con addio non si intendeva marcare un distacco definitivo.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)
E’ abbastanza ovvio eppure vi giuro che non ci ho mai pensato a questo fatto che “addio” derivasse da “a Dio”; in questo senso si giustifica anche quel significato di distacco definitivo che alcuni danno a questa parola. E’ una parola molto usata nella letteratura, penso a quel pezzo che in alcuni casi fanatici insegnanti di fede manzoniana ci facevano addirittura imparare a memoria: “Addio, monti sorgenti dall’acque, ed elevati al cielo; cime inuguali, note a chi è cresciuto tra voi, e impresse nella sua mente, non meno che lo sia l’aspetto de’ suoi più familiari; torrenti, de’ quali distingue lo scroscio, come il suono delle voci domestiche; ville sparse e biancheggianti sul pendìo, come branchi di pecore pascenti; addio! …..Addio, casa natìa, dove, sedendo, con un pensiero occulto, s’imparò a distinguere dal rumore de’ passi comuni il rumore d’un passo aspettato con un misterioso timore. Addio, casa ancora straniera, casa sogguardata tante volte alla sfuggita, passando, e non senza rossore; nella quale la mente si figurava un soggiorno tranquillo e perpetuo di sposa”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 24 Luglio) è:

“aceto

 

Veggiolo un’altra volta esser deriso;
veggio rinovellar l’aceto e ‘l fiele,
e tra vivi ladroni esser anciso.
(Purgatorio XX, 89)
 
Il sostantivo aceto (attestato dal secolo XIII), dal latino acētu(m), a sua volta dalla radice indoeuropea *ak- ‘acuto, pungente’, indica un liquido derivato dalla fermentazione del vino (o di altri elementi naturali), dal sapore acido, acre. Un misto di aceto e di fiele fu la bevanda offerta a Cristo per dissetarsi sul Calvario, a cui Dante qui allude: la terzina parla, infatti, delle offese perpetrate contro Bonifacio VIII durante l’oltraggio di Anagni. Il papa diventa qui un nuovo Cristo, costretto a sopportare i colpi inferti alla Chiesa dalla casa reale francese, contro cui Dante si scaglia nel corso dell’intero canto, l’ultimo della cornice degli avari.
(Accademia della Crusca – E.A.)
Questi versi sembrerebbero contenere in sé un’evidente contraddizione, vediamo infatti qui Bonifacio VIII, il papa odiato da Dante (fu lui il responsabile del suo esilio da Firenze), quel Papa che Dante accusa di aver trasformato il Vaticano in una “cloaca / del sangue e de la puzza” e per il quale vede già pronto un posto all’Inferno tra i papi simoniaci, venir paragonato a Cristo soffrente tra i due ladroni. Ma la contraddizione in realtà non c’è e Dante ci dà una dimostrazione della sua capacità di autonomo giudizio, non confondendo la persona con l’istituzione. Nel caso della “schiaffo di Anagni” (7 settembre 1303) Dante afferma che in quell’occasione ad essere oltraggiato da Guglielmo di Nogaret e Giacomo Colonna, non fu Bonifacio VIII, fma Gesù stesso poiché il Papa è vicario di Cristo in terra. La resistenza di Bonifacio VIII ai francesi fu però inutile, egli infatti morì un mese dopo lo schiaffo e questo spianò immediatamente la via al predomino francese sul papato con il trasferimento della sede ad Avignone.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 17 Luglio) è:

“belletta

[…] ne l’aere dolce che dal sol s’allegra,
portando dentro accidïoso fummo:
or ci attristiam ne la belletta negra.
(Inferno VII, 124)

 
ella palude dello Stige Dante incontra gli iracondi, i quali sono immersi, come dichiarano loro stessi, “ne la belletta negra”. La voce belletta (documentata già prima di Dante) significa ‘melma, fanghiglia’, come chiariscono altre parole presenti nel canto: palude, pantano, melma, limo, lorda pozza, fango. L’etimo è però incerto: secondo alcuni deriverebbe da belletto (a sua volta da bello) nel senso di ‘impasto’, secondo altri da melmetta, diminutivo di melma, per altri ancora dalla voce toscana melletta, che ha lo stesso significato; ma la parola è più antica di quelle da cui dovrebbe derivare.
(Accademia della Crusca – P.D’A.)
A proposito di questa parola mi faccio guidare da Boccaccio che nel suo commento alla Commedia, (ricordo che fu lui a definire “Divina” il libro che Dante chiamò semplicemente Commedia). A proposito di questi versi scrive: “Limo è quella spezie di terra, la qual suole lasciare alle rive de’ fiumi l’acqua torbida… la qual noi volgarmente chiamiamo belletta “
Ma è una parola che ha trovato fortuna tra scrittori e poeti dei secoli successivi; Ippolito Nievo ne “le confessioni di un italiano” scrive: “la strada andava sempre in giù, e le piante mi scivolavano sopra una belletta. sdrucciolevole come il ghiaccio . Manzoni invece nei Promessi Sposi usa (inventa?) il termine “melletta”, che indica l’unione della melma con la belletta. No si può prprio dire che non ami la precisione linguistica…
Ma questa parola dà anche il titolo (“Nella belletta”) ad un bel madrigale di Gabriele D’annunzio:
 
“Nella belletta i giunchi hanno l’odore
delle persiche mézze e delle rose
passe, del miele guasto e della morte.
Or tutta la palude è come un fiore
lutulento che il sol d’agosto cuoce,
con non so che dolcigna afa di morte.
Ammutisce la rana, se m’appresso.
Le bolle d’aria salgono in silenzio

Non si può proprio dire che qui D’annunzio non riesca a trasmettere un senso profondo di disfacimento, di corruzione e morte, sotto il peso di un estate che col suo calore tutto disfa e tutto corrompe.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 10 Luglio) è:

“modo

 

Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende,
prese costui de la bella persona
che mi fu tolta; e ‘l modo ancor m’offende.
(Inferno V, 102)

 

La parola modo compare nella Commedia con una notevole gamma di significati, che in parte coincidono con quelli dell’italiano moderno: ‘atteggiamento’, ‘modo di presentarsi’ o di ‘essere’. Uno dei significati remoti si lega al latino: ‘tono’, ‘canto’ (in Purgatorio XVI, 20, dove le anime degli iracondi intonano l’Agnus Dei). Nel canto di Francesca, a cui qui abbiamo fatto riferimento, la parola sembra di semplice interpretazione: la donna pare ancora offesa dalla “maniera” in cui la vita le fu tolta. Quasi italiano corrente. In realtà non tutti hanno interpretato così. Come mai Francesca è offesa dal “modo” in cui fu uccisa? In qual modo speciale fu uccisa? O forse quell’uccisione avvenne in un momento particolare, magari quello del rapporto sessuale? Oppure l’offesa è ben altra, cioè non sta nel “modo” della morte, ma nel “modo” dell’amore, smodato e disordinato, dunque vizioso? Ma allora perché ricordare ancora quell’amore, che del resto sembra non essere finito? Si aggiunga che molti codici non portano “modo”, ma una parola diversa, cioè “mondo”, e così, se questa lezione fosse giusta (ma viene generalmente reputata deteriore), vorrebbe dire che ancora la società offende Francesca per memoria di questo suo amore. Insomma, anche le cose semplici, in Dante, a ben vedere, si fanno complesse.(Accademia della Crusca -C.M.)

E’ vero alle volte in Dante le cose si fanno complesse, ma in quel caso sta a noi poi renderle più semplici; qui mi è facile, perché nessuna delle congetture portate dal commentatore della Crusca mi convince. E’ così bello in questo caso interpretare la parola “modo” nel suo significato letterale, valido anche oggi, di “maniera”. Quel “modo” si riferisce, o almeno così io lo interpreto, al tremendo fatto di essere uccisi all’improvviso, senza aver la possibilità di dire una parola di discolpa, di poter spiegare le motivazioni del loro sentimento. Perché andare a spezzare il capello in quattro volendo fare di questi versi una condanna verso l’amore “smodato, disordinato, quindi vizioso”? Qui siamo davanti al suo esatto contrario, un amore potentissimo e impossibile da fermare, e proprio per questo “amore”. E non è unDante che nel verso “Amor, ch’al cor gentil ratto s’apprende” riprende un verso di Guinizelli ovvero “Foco d’amore in gentil cor s’aprende” (dalla canzone Al cor gentil rempaira sempre amore) e consolida quel concetto che aveva già espresso in Vita Nuova, XX, “Amore e ‘l cor gentil sono una cosa”.

Lo so il quadro di Chagall non si riferisce a loro, ma io Paolo e Francesca me li immagino così

 

 

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La parola di oggi (Sabato 3 Luglio) è:

“folgoreggiare

 

Vedea colui che fu nobil creato
più ch’altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da l’un lato.
(Purgatorio XII, 27)

 

Folgorggiare è un verbo di conio dantesco che ha il significato di ‘precipitare rapido e luminoso come la folgore’. Indica il rapido muoversi verso il basso, l’atto del precipitare dunque, di Lucifero, che scende dal cielo folgoreggiando. Nella Commedia ricorre anche il verbo folgorare, che della folgore richiama il movimento rapido, improvviso e violento e che è usato per descrivere il susseguirsi incessante delle imprese di Cesare (“da indi scese folgorando a Iuba; / onde si volse nel vostro occidente, / ove sentia la pompeana tuba”, Paradiso VI, 70).
(Accademia della Crusca – C.Mu.)

Stavolta un piccolo commentino in più ci vuole se no qualcuno dei miei “27 lettori” potrà chiedersi: “ma come mai Lucifero è qui in Purgatorio? non l’avevamo visto nel ghiacciato Cocito a masticare Bruto, Cassio e Giuda? In realtà qui il Lucifero che vediamo è quello scolpito sul pavimento della Prima Cornice del Purgatorio dove si mostrano esempi di superbia punita; ecco Lucifero, il più bello degli angeli, precipitare dal Cielo dopo essere stato folgorato da Dio e dall’altro lato il gigante Briareo giacere a terra morto, dopo essere stato colpito dal fulmine di Giove, e molti , molti altri esempi ancora. Ad ogni modo venendo alla parola è proprio efficace, si immagina davvero di vedere Lucifero “nel suo precipitare rapido e luminoso”. In realtà questa immagine mi ha anche ricordato un verso del “5 maggio” di Manzoni: “lui folgorante in solio/ vide il mio genio e tacque”. E si il verbo folgoreggiare, si presta bene a rappresentare la figura di Napoleone, la sua incredibile velocità nel vincere, nel perdere, nel risollevarsi, nel ricadere definitivo: “due vote nella polvere, due volte sugli altar”.

Ecco come interpreta la cacciata di Lucifero, Lorenzo Lotto, pittore tra i principali esponenti del Rinascimento veneziano dei primi del Cinquecento; come si vede si attiene alla tradizione biblica e ci mostra Lucifero ancora bello. MI è sempre piaciuto in questo quadro la simmetria tra la caduta di Lucifero e l’ascesa di Michele, in una suggestiva sinfonia cromatica.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 26 Giugno) è:

“festinare

 

[…] e veggi vostra via da la divina
distar cotanto, quanto si discorda
da terra il ciel che più alto festina.
(Purgatorio XXXIII, 90)

il ciel che più alto festina” è il Primo Mobile, il cielo che ruota veloce più in alto o in alto più veloce (in realtà le due cose contemporaneamente), “quel c’ha maggior fretta” (Paradiso I, 123). Festinare è un latinismo (‘affrettare, affrettarsi’) ripreso da Dante anche nella forma del participio (la “festinata gente” di Paradiso XXXII, 58 sono i bambini giunti in fretta in paradiso, perché prematuramente morti) e nella forma dell’aggettivo festino (festinus, ‘pronto, rapido, veloce’). Anche se non è una sua coniazione, l’unico uso ricordato di questo verbo poi pressoché scomparso è quello di Dante.

(Accademia della Crusca – V.G)

Questa parola sembrava avere un futuro radioso nell’italiano nascente, ma poi in realtà è scomparso quasi subito e da Dante in poi più nessuno dei nostri autori l’ha adoperato. Certo rimane nella nostra mente per via della locuzione latina che Svetonio ha attribuito ad Augusto: “Festina lente” overo “affrettati lentamente”. Questo motto fu poi utilizzato da Cosimo de’ Medici nel smibolo della sulla sua flotta mercantile: la tartaruga con vela; la tartaruga simbolo di prudente lentezza, la vela simbolo di forza e viaggio.

A me questo ossimoro viene spontaneo affiancarlo al famoso episodio dei Promessi sposi quando il gran Cancelliere Ferrer (capitolo 13) si rivolge al cocchiere che deve guidare la carrozza tra la folla in tumulto con le parole: “Adelante Pedro, ccn judicio”., “Veloce Pedro, con giudizio”

Ecco qui sotto il simbolo di Cosimo de’ Medici, ancora visibile oggi su soffitti e pavimenti di Palazzo Vecchio a Firenze e una targa nella cappella Salocchi, 1939, al cimitero di Trespiano frazione di Firenze.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 19 Giugno) è:

“divenire

 

Tacendo divenimmo là ‘ve spiccia
fuor de la selva un picciol fiumicello,
lo cui rossore ancor mi raccapriccia.
(Inferno XIV, 76)

 

Qui e in altri due luoghi del poema (Inferno XVIII, 68, Purgatorio III, 46) il verbo divenire, che Dante usa ripetutamente nei significati ancora comuni oggi di ‘diventare, cambiare rispetto a prima’, recupera il significato del verbo venire che lo compone e quindi il valore di ‘giungere, pervenire’.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Questo “picciol fiumicello” in realtà è il Flegetonte, per la mitologia greca fiume di fuoco, che Dante invece trasforma in fiume di sangue bollente dove sono puniti i violenti verso il prossimo (tiranni, omicidi, predoni e ladroni). Dante nella Commedia riprende i fiumi degli Inferi della mitologia greca e romana, incontreremo infatti all’Inferno anche lo Stige, l’Acheronte,  il Cocito  che Dante però descrive non già come un fiume, ma come un enorme lago ghiacciato situato sul fondo dell’Inferno,  e infine  il Lete che pero Dante colloca in Purgatorio  nel Paradiso Terrestre e dove immagina che  si lavino le anime purificate prima di salire in Paradiso, per dimenticare le loro colpe terrene.  A fianco a questo fiume fa scorrere  l’Eunoè che invece ha il compito di far ricordare le cose buone del proprio passato .

Questa volta anziché aggiungere come al solito il mio commento a quello della Crusca, lascio che a commentare sia niente meno che Giovanni Boccaccio al quale tra l’altro si deve se l’opera di Dante sia chiamata da tutti “Divina Commedia” e non semplicemente “Commedia” com’era il titolo originale.

Così ci parla Boccaccio del Flegetonte nelle sue “Esposizioni sopra la Commedia di Dante”: Seguita il terzo fiume, chiamato Flegetonte, il quale è interpretato “ardente”: volendo per questo ardore darne l’autore ad intendere che, poi che il peccatore è divenuto nella tristizia della sua perdizione, incontanente diviene nell’ardore della gravità de’ supplìci […]»

Le Esposizioni raccolgono le sessanta lezioni sulla Commedia di Dante che Boccaccio tenne in pubblico presso la chiesa di Santo Stefano in Badia a Firenze. I singoli canti sono spiegati letteralmente e nel loro significato allegorico. Il Comune di Firenze aveva commissionato a Boccaccio la spiegazione dell’intera Commedia ma il poeta, a causa delle gravi condizioni di salute, fu costretto a interrompe il suo lavoro al XVII canto dell’Inferno.

 

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La parola di oggi (Sabato 12 Giugno) è:

“Italia

 

Ahi serva Italia, di dolore ostello,
nave sanza nocchiere in gran tempesta,
non donna di provincie, ma bordello!
(Purgatorio VI, 76)

 

Il nome dell’Italia ricorre ben undici volte nella Commedia, e non sempre come semplice riferimento geografico per indicare la penisola che si estende dalle Alpi al mare o che sta tra Tirreno e Adriatico. Dante non cullava certo in sé un’idea di nazione italiana come l’abbiamo noi o come l’ebbero gli uomini del Risorgimento, e tuttavia aveva ben chiara l’identità comune che univa e unisce tuttora gli abitanti della terra dove il sì suona. Insomma, non c’è poi tanto da ridere con saccenteria sull’idea che Dante sia uno dei nostri “padri della patria”: lo è davvero. Ricordiamocene oggi, festa della Repubblica.

(Accademia della Crusca – C.M.)

Questa è la famosa invettiva di Dante contro l’Italia del suo tempo, contro i Comuni che si facevano guerra l’uno con l’altro. “a che è servito – si chiede Dante nei versi succesivi – che Giustiniano ordinasse le leggi se poi non c’è nessuno a metterle in pratica?” Pensiero sempre attuale.  Molti furono i poeti che piansero l’Italia, penso a Petrarca:

Italia mia, benché ’l parlar sia indarno
a le piaghe mortali
che nel bel corpo tuo sì spesse veggio,”

penso a Leopardi:

O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la la gloria non vedo,
non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi.”

L’Italia per la quale combatterono e morirono migliaia di giovani patrioti, che seguendo i versi di Goffredo Mameli, si “strinsero a coorte” e gridarono “siam pronti alla morte” Durante il Risorgimento, durante la Resistenza:

“Il mio paese è l’Italia, o nemico più straniero,
e io canto il suo popolo, e anche il pianto
coperto dal rumore del suo mare,
il limpido lutto delle madri, canto la sua vita.”

 

Salvatore Quasimodo.

Certo c’è l’Italia
“presa a tradimento,
l’Italia assassinata dai giornali e dal cemento,
l’Italia con gli occhi asciutti nella notte scura,”
ma proprio per questo dobbiamo cantare
“viva l’Italia, l’Italia che non ha paura.”

 

E nonostante le veritiere parole di Battiato

“Povera patria
schiacciata dagli abusi del potere
di gente infame, che non sa cos’è il pudore
ii credono potenti e gli va bene quello che fanno
e tutto gli appartiene” e il suo “non cambierà”
continuare a pensare e lottare perche “cambierà”.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 5 Giugno) è:

“vanità”

Noi passavam su per l’ombre che adona
la greve pioggia, e ponavam le piante
sovra lor vanità che par persona.
(Inferno VI, 36)
 
Nell’Inferno e nel Purgatorio Dante descrive il paesaggio come realtà concreta, ma i dialoghi con i personaggi sono talmente intensi che l’autore sente di dover ricordare al lettore che le anime sono senza corpo, “vanità che par persona”. E in Purgatorio XXI, 135-6, Stazio avverte che le anime sono “vanitate”, ombre da non trattare “come cosa salda”. Il significato della parola è, dunque, ‘inconsistenza corporea’, invece in Paradiso XIV, 56, la parola ha il senso corrente di ‘caducità’.
(Accademia della Crusca – G.B.)
Il termine vanità ora fa pensare a delle persone che amano mettersi in mostra al fine di far risaltare la loro bellezza, eleganza, intelligenza e/o capacità godendo di quel riconoscimento. Ma c’è anche oggi un significato più profondo e più ampio che è la considerazione di quanto le cose umane siano in realtà caduche, effimere, e il loro valore soltanto apparente. Concetto ben conosciuto dai poeti.

Petrarca “che quanto piace al nondo è breve sogno”
Leopardi: “l’infinita vanità del tutto”

Per illustrare non c’è che l’imbarazzo della scelta, la vanità in tutte le sue forme ed accezioni è un tema molto caro ai pittori. La scelta che faccio ricorrendo al mito di Narciso, è forse la più facile e banale e fuorviante rispetto al significato della parola dantesca, ma il quadro è di una bellezza tale che supera ogni obiezione razionale.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 29 Maggio) è:

“scerpare”

Da che fatto fu poi di sangue bruno,
ricominciò a dir: “Perché mi scerpi?
non hai tu spirto di pietade alcuno?”
(Inferno XIII, 35)

 La forma deriva dal verbo latino excarpĕre ‘strappare, svellere’ detto di ramo o sterpo, compare qui a sottolineare lo strazio dell’anima di Pier Delle Vigne, suicida, trasformato in arbusto in cui scorre il sangue. Il verbo, fortemente fonosimbolico, arriva fino a Montale in Tramontana: “è un urlo solo, un muglio di scerpate esistenze”.

(Accademia della Crusca -R.S.)

 Pier delle Vigne fu un importante politico e letterato del regno di Sicilia ai tempi di Federico II. Accusato di congiura/corruzione (ancora oggi però non si conosce nei dettagli l’accusa) fu arrestato a Cremona e fatto accecare con un ferro ardente dallo stesso Federico II a Pontremoli. Dante però lo assolve da questa accusa ma lo pone comunque all’Inferno per via del suicidio.

Qualche terzina più avanti sarà lo stesso Pier delle Vigne a dire:

 “L’animo mio, per disdegnoso gusto,
credendo col morir fuggir disdegno,
ingiusto fece me contra me giusto.”

Tornado però al verbo, eccolo lì che ci aspetta nella sua altezzosa grandezza poetica, orgoglioso di essere arrivato fino a noi, saltando di poeta in poeta; in realtà non è vero che arriva ”fino a Montale”, infatti lo troviamo anche successivamente, per esempio adoperato da Alda Merini nella poesia Genesi:

e fiorita son tutta
e di ogni velo vò scerpando il mio lutto”

Ecco come interpreta questo episodio Ugo Nespolo, artista contemporaneo.

 

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La parola di oggi (Sabato 22 Maggio) è:

“indiarsi”

 

D’i Serafin colui che più s’india,
Moisè, Samuel, e quel Giovanni
che prender vuoli, io dico, non Maria …
(Paradiso IV, 28)

 

Neologismo e hapax dantesco, il verbo pronominale indiarsi, da Dio con il prefisso in-, significa ‘avvicinarsi a Dio attraverso la contemplazione, divenendo partecipe della beatitudine e della gloria divina’. A indiarsi sono i Serafini, la più alta gerarchia angelica.

(Accademia della Crusca – L.F.)

 Qui Dante ha osato inventare un termine che prima nessuno aveva utilizzato: indiarsi. E arriverà alla fine del Paradiso a quel verbo spettacolare che è “transumanare” anche se lui per primo ci dice che questa parola “signficar per verba non si poria”.

Da notare che il verbo “indiarsi” fu usato poi anche da due poeti assai lontani da Dante, penso a Carducci (Com’angel contemplando arde e s’india) ma soprattutto a Leopardi (e teco la mortal vita saria /simile a quella che nel cielo india); com’è bello questo termine usato da Leopardi nella poesia “alla mia donna” per indicare l’amore terreno, così forte da “indiarsi”.

Come foto esco fuori tema perché anziché i serafini che sono gli angeli più vicini a Dio nella gerarchia celeste scelgo i cherubini che stanno un pochino più sotto. Qualcuno pensa a questa scelta perché da sempre mi schiero coi più deboli? No, in questo caso perché sono di Raffaello.

 

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La parola di oggi (Sabato 15 Maggio) è:

“co”

 

L’ossa del corpo mio sarieno ancora
in co del ponte, presso a Benevento,
sotto la guardia della grave mora.
(Purgatorio III, 128)

 

Co (da lat. caput) è un dialettismo, voce lombarda e significa ‘capo’, ‘testa’. Il passo dantesco si riferisce al giovane Manfredi che (ibid. 107, biondo […] e bello e di gentil aspetto), figlio di Federigo II, fu vinto e ucciso a Benevento dall’esercito di Carlo d’Angiò nel 1266 e fu sepolto all’imbocco (in co) del ponte del beneventano fiume Calore in un punto segnalato da un ammasso di pietre (sotto la guardia della grave mora); e da quel luogo, poiché Manfredi era stato scomunicato, Bartolomeo Pignatelli, vescovo di Cosenza, ne fece trasportare i resti mortali (l’ossa del corpo) fuori dal regno di Napoli (ibid. 131, fuor dal regno) lungo il Verde (o Liri/Garigliano).

(Accademia della Crusca – E.B.)

Ecco un’altra parola dantesca che piacerà particolarmente a tutti coloro che amano la lingua milanese, oltretutto è una parola che da Dante ad oggi è rimasta tale e quale. Venendo invece alla Storia Dante ci ricorda la battaglia di Benevento che significò il dominio francese nel Sud italiano e iniziò il predominio guelfo in Italia Fu una tremenda battaglia ma fu anche una storia di tradimenti che vide nobili e feudatari napoletani e siciliani passare al nemico d’oltralpe con benedizione e laute ricompense papali. Ma stando al tema delle parole mi piace ricordare un’altra parola, napoletana in questo caso, che nacque in quel periodo. È il caso del termine che si lega a quelle povere donne affamate che correvano sotto il fossato del Maschio Angioino per recuperare i resti dei lauti banchetti dei regnanti francesi i quali si divertivano, dopo ogni abbuffata, a lanciare dagli spalti “les entrailles” ( i resti, le viscere, le interiori). Quando questi avanzi tardavano ad arrivare venivano invocati da queste affamate popolane al grido di uno storpiato francesismo “Zendraglie! Zendraglie!”, nome che ancora oggi portano numerose trattorie napoletane che hanno nel loro menù la cucina delle interiora. Come illustrazione una miniatura della battaglia tratta dal libro trecentesco “Cronica” di Giovanni Villani.

 

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La parola di oggi (Sabato 8 Maggio) è:

“sanza ‘nfamia e sanza lodo”

 

Ed elli a me: “Questo misero modo
tegnon l’anime triste di coloro
che visser sanza ‘nfamia e sanza lodo”.
(Inferno III, 36)

 

È una delle molte espressioni di origine dantesca che grazie al successo della Commedia si sono diffuse anche nella lingua comune e risultano ancora oggi vive: nell’italiano contemporaneo “senza infamia e senza lode” è detto di una persona o di una cosa di valore e qualità mediocre, che non si distingue né in positivo, né in negativo. Dante la impiega per riferirsi, in maniera sprezzante, agli ignavi, ossia a coloro che sono vissuti senza prendere mai posizione e quindi senza mai meritare né il biasimo né l’elogio di altri uomini.

(Accademia della Crusca – S.G.)

Certo per uno di parte come Dante questa era proprio la categoria degli uomini che più disprezzava, ma con lui sono in tanti ad avere quest’opinione. Penso a Platone: “Il prezzo pagato dalla brava gente che non si interessa di politica è di essere governata da persone peggiori di loro.” Penso a Gramsci, a quella sua celeberrima frase “odio gli indifferenti.” Anche Einstein (“Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla”) e Martin Luther King (“Ciò che mi spaventa non è la violenza dei cattivi; è l’indifferenza dei buoni.)” ci ricordano il pericolo di questo non schierarsi. E potrei continuare all’infinito, ma so che ho già esagerato con tutte queste citazioni e qualcuno a questo punto potrebbe dirmi : “ si tutte queste citazioni, ma perché non ci spieghi invece cosa succede agli ignavi nell’Antinferno?”

Non lo faccio perchè voglio essere coerente con l’invito di Virgilio “Non ragioniam di lor, ma guarda e passa”

Sempre in coerenza chiudo con le famose tre scimmiette di Keit Haring, il noto pittore e writer statunitense morto nel 1990 a soli 31 anni di Aids, che ci mostrano il simbolo di una vita indifferente: non vedere, non sentire, non parlare.

 

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La parola di oggi (Sabato 1 Maggio) è:

“libro”

 

[…] la bocca mi basciò tutto tremante.
Galeotto fu ‘l libro e chi lo scrisse:
quel giorno più non vi leggemmo avante.
(Inferno V, 137)

 

È un libro, nel senso proprio e concreto del termine, l’oggetto che Dante immagina al centro della vicenda di Paolo e Francesca: un libro che, come Galeotto nel celebre romanzo arturiano di Lancillotto e Ginevra, diventa intermediario e testimone silenzioso della passione segreta fra i due cognati. Ma i versi del canto V dell’Inferno sono popolati di molti altri libri, che trapelano indirettamente, richiamati dalle dotte citazioni di Francesca o evocati attraverso i loro protagonisti senza tempo (Didone, Elena, Achille, Tristano): “le donne antiche e ’ cavalieri” (v. 71) che, come i due amanti di Rimini, hanno dimenticato la ragione per abbandonarsi all’istinto e qui scontano la loro colpa travolti dall’eterna bufera.

Altrove libro acquista significati figurati, non diversamente da volume (es. Paradiso XXXIII, 86) o quaderno (es. Paradiso XVII, 37). Con riferimento a una lunga tradizione, il termine può indicare metaforicamente la mente umana in cui si “scrivono” i ricordi, come nel proemio della Vita Nuova: “In quella parte del libro de la mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere…” (I, 1).

(Accademia della Crusca – B.F.)

 Questa è una parola che apre l’infinito, infatti infinite sono le storie, le sensazioni, le riflessioni che i libri operano in noi e hanno operato nella storia. Libri che da millenni suscitano emozioni, libri appena comprati, libri letti e riletti, libri dimenticati, libri amati.

“Chi non legge, a 70 anni avrà vissuto una sola vita: la propria! Chi legge avrà vissuto 5000 anni: c’era quando Caino uccise Abele, quando Renzo sposò Lucia, quando Leopardi ammirava l’infinito… perché la lettura è una immortalità all’indietro” così ci invitava alla lettura Umberto Eco, e poi ricordiamoci quello che ci dice la foto…

 

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La parola di oggi (Sabato 24 aprile) è:

“berze”


Ahi come facean lor levar le berze

a le prime percosse! già nessuno
le seconde aspettava né le terze.
(Inferno XVIII, 37)

 Riferito ai diavoli che fanno correre i dannati a frustate; “levar le berze” equivale ad ‘alzare i tacchi’, dove berze è variante di verze ‘cavoli’ con un valore metaforico ancora vivo in locuzioni dialettali come il milanese “portà foeura i verz d’on sit” ‘andarsene da un luogo’ e il comasco “toeu su la sverza” ‘darsela a gambe’.(Accademia della Crusca – A.No.)

     Sandro Botticelli in “malebolge”

 Qui siamo alla prima delle 10 bolge dell’VIII cerchio, nella quale incontriamo i fraudolenti contro chi non si fida e in particolare i ruffiani e i seduttori che corrono in cerchio frustati dai diavoli. In questa bolgia incontriamo Venedico Caccianemico che al di là di questo nome che sembra inventato, in realtà è tra i maggiori esponenti della fazione guelfa di Bologna. Dante ci narra (anche se non abbiamo un riscontro verificato dagli storici) ll mercimonio di sua sorella Ghisolabella (in fatto di nomi bisogna ammettere che si trattava di una famiglia stravagante) condotta “a far la voglia del marchese”. Il Marchese è probabilmente il Marchese di Ferrara dal quale Venedico cercava di ottenere favori. Tanto per cambiare qui assistiamo ad un’altra invettiva di Dante, questa volta contro i Bolognesi ; secondo Dante ci sarebbero più bolognesi in quella Bolgia che in tutto il mondo dei vivi. E si che Bologna nel 1303 aveva offerto asilo ai guelfi bianchi espulsi da Firenze. Però nel 130 6 vinse anche lì la fazione dei guelfi più intransigenti da qui …l’invettiva.

 

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La parola di oggi (Sabato 17 aprile) è:

“cortesia”

 

“Ma distendi oggimai in qua la mano;
aprimi li occhi”. E io non gliel’apersi;
e cortesia fu lui esser villano”
Inferno XXXIII, 150

Frate Alberigo, traditore e uccisore dei parenti, rivolge a Dante la preghiera di aprirgli gli occhi velati dalle lacrime congelate. Ma Dante rifiuta commentando: “ecortesia fu lui esser villano” (cioè ‘fu atto di cortesia essere villano’ con tale spregevole essere). Cortesia, parola-chiave della civiltà medievale, ha qui un significato accostabile al nostro: ‘gentilezza di modi’, ‘urbanità’, ‘garbo’.
(Accademia della Crusca – R.C.)

Cortesia, ecco una parola che per commentarla non basterebbe un libro intero ed infatti sono davvero tanti i testi che si occupano di lei che, come ci dice il commentatore dell’Accademia Crusca, è parola –chiave della civiltà e della poesia (aggiungo io) medioevale. Questo verso di Dante però ci sorprende, (o almeno sorprende me); davanti ad una persona come frate Alberigo, cortesia è non mantenere la promessa che pure Dante aveva fatto di togliergli le lacrime congelate dagli occhi; Dante in sostanza ci dice che essere villano con lui dunque è moralmente giusto, addirittura doveroso. Dante del resto, su questo non ci sono dubbi, non è un buonista e ce lo ricordano le sue continue invettive; ne abbiamo già incontrate tante, contro Pisa, contro Firenze, contro i Papi simoniaci, “contro i cristiani superbi con la mente ottenebrata”. In questo canto, proprio nei versi finali, se la prende con i Genovesi

Ahi Genovesi, uomini diversi
d’ogne costume e pien d’ogne magagna,
perché non siete voi del mondo spersi?

Io invece che sono buonista non recito questi versi neppure ora che ho visto in Tv Giovanni Toti, il Presidente della Liguria. Del resto non sarebbe giusto, lui è nato in Versilia.

Non metto quindi una sua foto ad illustrare il post ma scelgo un altro noto illustratore della Commedia ovvero Jan Van der Straet (detto Giovanni Stradano) pittore fiammingo di fine ‘500 attivo soprattutto a   Firenze.

 

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La parola di oggi (Sabato 10 aprile) è:

“speranza”

Dinanzi a me non fuor cose create
se non etterne, e io etterno duro.
Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate.
(Inferno III, 9)
 
Sono gli ultimi tre versi di un’iscrizione, verosimilmente in caratteri cubitali, vergata sulla sommità della porta che immette nell’Inferno. Svincolata dal contesto originario, l’espressione “Lasciate ogne speranza, voi ch’intrate” (con minime varianti) ricorrergamente nell’italiano contemporaneo per indicare situazioni estreme di difficoltà o di pericolo.
(Accademia della Crusca – R.C.)
Speranza è una parola che amo; so che spesso è una parola che si mischia col sogno (“Un vincitore è semplicemente un sognatore che non si è arreso – ha scritto Nelson Mandela) , ma so anche, come ci ricorda Sant’Agostino, che “la speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno e il coraggio. Lo sdegno per la realtà delle cose, il coraggio per cambiarle”. Non ci sarebbe umanità senza l’esistenza della speranza che ci dice che, prima o poi, è possibile cambiare le cose. Ce lo dimostra anche il mito del vaso di Pandora, la prima donna mortale secondo la mitologia greca. Riassumo: Pandora aveva con sé un vaso datogli da Zeus, ma che doveva essere sempre chiuso, un giorno però spinta dalla curiosità, aprì il vaso liberando così tutti i mali del mondo, che erano stati rinchiusi lì dentro, vecchiaia, gelosia, malattia, pazzia e il vizio. Sul fondo del vaso rimase soltanto la speranza, che non fece in tempo ad allontanarsi prima che il vaso venisse chiuso di nuovo. Dopo l’apertura del vaso il mondo divenne un luogo desolato ed inospitale simile ad un deserto, finché Pandora lo aprì nuovamente per far uscire anche la speranza, ed il mondo riprese a vivere.
L’immagine in alto:” Rappresentazione di Pandora ed il suo vaso dipinta da Giulio Romano nel 1520 durante il suo soggiorno mantovano”
 
 

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La parola di oggi (Sabato 3 aprile) è:

“antomata”

Di che l’animo vostro in alto galla,
poi siete quasi antomata in difetto,
sì come vermo in cui formazion falla?
(Purgatorio X, 128)

Dal greco automata, che (forse) Dante aveva ripreso dalle traduzioni latine dei trattati scientifici di Aristotele per indicare i vermi che si riproducono come da soli, alla cieca, nel terreno. Un ben singolare antenato del moderno automa.

(Accademia della Crusca – V.C.)

Certo che Dante in termini di invettive non è secondo a nessuno, qui assistiamo a quella contro “i superbi cristiani con la mente ottenebrata” ai quali si rivolge dicendo, “perché mai il vostro animo “in alto galla” (insuperbisce)? in realtà noi uomini siamo simili a insetti mal formati, proprio come un verme che non si è ancora sviluppato”. “Nostro compito – aveva detto nei versi precedenti – è diventare farfalla che vola verso la giustizia divina, la superbia invece vi mantiene vermi”.

L’insistenza sulla pericolosità della superbia è testimoniata dalla durezza della sua punizione in Purgatorio, dove i condannati camminano curvi sotto il peso di enormi massi da rotolare, mentre recitano il Padre Nostro (Visto che si ergevano al di sopra di tutti gli altri, ora son talmente curvi da non vedere chi passa accanto a loro) si spiega col fatto che proprio la superbia era considerato il più grave dei vizi capitali perché era stata all’origine della ribellione di Lucifero e, quindi, del male nel mondo. La superbia nel mondo dell’arte spesso ci viene rappresentata col simbolo del pavone o dello specchio.

Così la rappresenta Cesare Ripa nella sua Iconologia del 1611

“Donna bella et altera, vestita nobilmente di rosso, coronata d’oro, di gemme in gran copia, nella destra mano tiene un pavone et nel-la sinistra un specchio, nel quale miri et contempli sé stessa. “

La superbia è stata protagonista di innumerevoli personaggi letterari, in prima battuta mi vengono in mente Raskolnikov di Delitto e catigo e il capitano Acahab di Moby Dick di Herman Melville. Ma devo confessare che il capitano Achab mi ha sempre affascinato.

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La parola di oggi (Sabato 27 marzo) è:

“rubino”

Di tal fiumana uscian faville vive,
e d’ogne parte si mettien ne’ fiori,
quasi rubin che oro circunscrive […]
(Paradiso XXX, 66)

Pietra preziosa spesso utilizzata nella poesia del Duecento e del Trecento per riferirsi alle qualità della donna amata, nella Commedia è scelta per la sua calda luminosità per indicare gli angeli, rappresentati nella visione dantesca dell’Empireo come faville luminose e più avanti paragonati a topazi.

(Accademia della Crusca – C.Mu.)

Non appena ho letto il verso “quasi rubin che oro circunscrive” mi è subito venuta alla mente questa poesia, da anni sepolta nel cuore e mai più ricordata, che s’intitola appunto “ il rubino “ed è del poeta mistico persiano nato agli inizi del 1200 Gialal al-Din Rumi. Posto qui alcuni versi

“Un’amata chiese all’amante:
“Chi ami di più, te stesso o me?”.
“Dalla testa ai piedi sono diventato te.
Di me non rimane che il nome.
La volontà l’hai tu. Tu sola esisti.
Io sono scomparso come una goccia d’aceto
in un oceano di miele”.
Una pietra diventata rubino
è colma delle qualità del sole. “

ma la ragione per cui ho sempre amato, ma amo ancora di più oggi questo poeta, e perchè in un momento in cui una certo tipo di propaganda tende a presentarci l’islam esclusivamente come religione fanatica,i versi incisi come epitaffio sul suo mausoleo, sono lì a dimostrarci che c’è un islam che tollera ed accoglie:

“Vieni, vieni; chiunque tu sia, vieni.
Sei un pagano, un idolatra, un ateo? Vieni!
La nostra casa non è un luogo di disperazione,
e anche se hai tradito cento volte una promessa… vieni. “
Si vieni, l’amore accoglie. 

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La parola di oggi (Sabato 20 marzo) è:

“il Bel Paese”

“Pisa, vituperio de le genti
del bel paese là dove ‘l sì suona,
poi che i vicini a te punir son lenti […]”
(Inferno XXXIII, 80)

 

Paese è un’espressione che spesso usiamo per indicare l’Italia, talvolta anche con ironia, quando la associamo alla notizia di qualcosa di brutto (lo scempio del paesaggio e simili). Ci viene da Dante, che l’ha usata anche lui insieme con parole di sdegno. Nel canto XXXIII dell’Inferno, parlando dei grandi traditori e rievocando la terribile fine che l’arcivescovo di Pisa inflisse al conte Ugolino della Gherardesca – imprigionato in una torre e lasciato morire di fame insieme con un figlio e un nipote – il poeta si scaglia contro la città, che ritiene corresponsabile di questo orrore, e si augura che le isole Capraia e Gorgona, che sono davanti alla foce dell’Arno, si spostino verso lo sbocco del fiume e provochino un’alluvione che uccida tutta la popolazione pisana. E così inveisce contro di essa (vv.79-80): “Ahi Pisa, vituperio delle genti / del bel paese dove ‘l sì sona”, cioè dove si usa la particella affermativa sì, un particolare che Dante aveva già notato nel suo trattato De vulgari eloquentia.

L’espressione dantesca ha avuto, poi, altri rinforzi. È stata ripresa da Petrarca in un sonetto (CXLVI) nel quale l’Italia è descritta come “il bel paese / che Appennin parte e ‘l mar circonda e l’Alpe” (dove parte vuol dire “divide in due versanti”). Alla fine dell’Ottocento, il naturalista e fervente patriota comasco Antonio Stoppani dette il nome Il Bel Paese a un suo libro (1876), che descriveva l’Italia ed ebbe grandissima fortuna nel clima postrisorgimentale. Sull’onda di questo rilancio, un produttore di formaggi lombardi dette furbamente (nel 1906) lo stesso nome a un tipico formaggio molle, che sull’etichetta delle confezioni recava il profilo geografico d’Italia e il ritratto di Stoppani. Anche il gioco commerciale era fatto!

(Accademia della Crusca – F.S.)

Ci sarebbe molto da scrivere e in tutte le salse passando dalla bellezza più incantevole, alla furbizia più deteriore, dai quadri del Botticelli ai rifiuti abbandonati nella via, del “sonante si” che ha lasciato il posto ad ok, da chi insulta su facebook a voi che invece siete qui a leggere le parole di Dante, ma ha già scritto molto il commentatore , quindi vi lascio con questi bei versi di Johann Wolfgang Goethe dedicati al nostro “Bel Paese”

“Conosci la terra dei limoni in fiore,
ove le arance d’oro splendono tra le foglie scure,
dal cielo azzurro spira un mite vento,
quieto sta il mirto e l’alloro è eccelso,
la conosci forse?”

 

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La parola di oggi (Sabato 13 marzo) è:

“innanellare”

Siena mi fé, disfecemi Maremma:
salsi colui che ‘nnanellata pria
disposando m’avea con la sua gemma.
(Purgatorio, V, 135)

 

Si tratta di uno dei tanti verbi parasintetici creati da Dante, meno originale di altri perché normalmente formato a partire da un nome, ma caratterizzato (almeno secondo il testo vulgato) dal raddoppiamento della n del prefisso. Il significato non è uno di quelli che ha oggi il verbo inanellare (‘foggiare ad anello’ o figuratamente, ‘dire o collezionare più cose, una dopo l’altra, come gli anelli di una catena’), ma quello di ‘mettere l’anello, cioè la fede nuziale, a una donna sposandola’. È attestato solo in questo verso (messo in bocca a Pia de’ Tolomei, fatta uccidere dal marito), al participio passato femminile (dipendente dal successivo ausiliare avea), nella forma aferetica, accanto al verbo disposare e al nome gemma ‘pietra preziosa’ e quindi, per metonima, ‘anello’. (accademia dlela Crusca -P.D’A.)
Il commentatore della Crusca non lo mette ma io devo aggiungere un verso, quello che precede questa terzina, quando la donna, con una gentilezza che ancora non avevamo incontrato, dice a Dante: quando sarai ritornato nel mondo e ti sarai riposato, “ricordati di me che son la Pia”. Verso diventato tra i più famosi della Commedia e che a noi lombardi piace particolarmente perché ci mostra che persino Dante ha messo l’articolo determinativo davanti al nome femminile, un po’ come il “ma anche” che incontriamo nei Promessi Sposi. Poi bastano tre versi per farci intuire tutta la sua storia, storia che ancora oggi purtroppo è attuale, perché il femminicidio non è certamente un crimine superato, e il 25 novembre, giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne violenza è lì a ricordarcelo.. Per quale motivo sia avvenuto questo delitto Dante non ce lo dice, e anche se molti pensano alla gelosia, gli studiosi non ne sono venuti a capo in modo certo. La figura di Pia de’ Tolomei ha avuto molta fortuna nella storia della cultura, varie trame musicali, tra le quali un’opera lirica di Donizetti e una canzone di Gianna Nannini (non caso anche lei senese), un paio di film, e molti libri tra i quali segnalo “Pia de’ Tolomei romanzo di Carolina Invenizio del 1879 e “dialogo nella palude” opera scenica di Marguerite Yourcenar del 1930.

 

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La parola di oggi (Sabato 6 marzo) è:

“pieta”

Allor fu la paura un poco queta
che nel lago del cor m’ era durata
la notte ch’ i’ passai con tanta pieta.
(Inferno I, 21)

 

La forma, modellata sul nominativo latino pietas, tende a distinguersi da pietà, pietate, pietade (tratte dall’accusativo pietatem e usate anch’esse da Dante) per significare specificamente ‘tormento’, ‘angoscia’, come nel passo citato, oppure ‘affetto’, ‘devozione’ che i figli provano per i genitori, come nel passo: “né dolcezza di figlio, né la pieta / del vecchio padre” (Inferno XXVI, 94-95; parla Ulisse, che poco prima ha menzionato il pius Enea). (Accademia della Crusca – P.D’A:)

Qui siamo all’inizio della Commedia il canto probabilmente più conosciuto, anche molti che non sanno granché dell’opera, la “selva oscura” incontrata “nel mezzo del cammin”, se la ricordano; qui siamo nel momento in cui Dante all’alba vede davanti a lui un colle, e prendendo coraggio, si appresta a salirvi.

Che bella questa metafora che fa del cuore un lago, e quanto vera se solo ci pensiamo un attimo. Da un punto di vista allegorico quel monte rappresenta la felicità umana che si può raggiungere, grazie alle virtù cardinali, ovvero le virtù umane che costituiscono i pilastri di una vita dedicata al bene, che altro però non sono che la trasposizione nel cristianesimo delle virtù enunciate dai filosi antichi e in particolare da Platone. Virtù cardinali; faccio mente locale e cerco di ricordarle, anche se l’esperienza di Catechismo e di fede, è lontana nel tempo, lontanissima nella vita quotidiana. Eppure riemergono eccole: Prudenza, Giustizia, Fortezza e Temperanza.

E intanto più avanti per difendere Dante dalla Lupa apparirà Virgilio; provo un certo rammarico a ricordarlo, perché sulla sua opera l’Eneide avevo cominciato il corso all’Acu  con un successo di iscritti che proprio non avrei immaginato; corso che la pandemia ci ha obbligati a sospendere al quarto incontro. Ma coraggio, tutto passa; usciremo fuori anche da questo incubo e usciremo con Dante “a riveder le stelle”

 

 

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La parola di oggi (Sabato 27 febbraio) è:

“grasso”

[…] esto pianeto, o, sì come comparte
lo grasso e ‘l magro un corpo, così questo
nel suo volume cangerebbe carte.
(Paradiso II, 77)

 

La parola ricorre nella Commedia tre volte, due in senso metaforico (aere grasso = denso; fanno grassi = si arricchiscono), una sola in senso proprio, in riferimento agli strati di grasso e magro presenti in un corpo fisico: il paragone è utilizzato, sorprendentemente, per discutere, niente meno, di una dibattuta questione astronomica, un problema che sarà ancora al centro dell’attenzione di Galileo, cioè la causa delle macchie lunari. (Accademia della Crusca – C.M.)

Noi siamo abituati a concepire la poesia come uno strumento per parlare d’amore, di bellezza, di gioia, di dolore, di morte addirittura ma la cosa sorprendente in Dante è come sappia usare la poesia (quella metricamente perfetta fatta di rime ed endecasillabi) per parlare di tutto: teologia, storia, geografia, filosofia e, come in questo caso, di astronomia. La cultura di Dante era di straordinaria ampiezza, non c’era un ramo dello scibile del tempo che non gli appartenesse e tutto sapeva esporre in poesia. Certo poi io, ma tutti credo, preferisco Dante quando parla d’amore. Quasi tutto il canto affronta la questione delle macchie della luna, con Beatrice che confuta le tesi che Dante aveva scritto nel Convivio. Ma anche a rieleggere tutta la dimostrazione, come faccio ora, più di tanto non capisco, del resto Dante mi aveva avvertito proprio all’inizio del canto:

O voi che siete in piccioletta barca,
desiderosi d’ascoltar, seguiti
dietro al mio legno che cantando varca,
tornate a riveder li vostri liti:
non vi mettete in pelago, ché forse,
perdendo me, rimarreste smarriti.
L’acqua che io prendo già mai non si corse;

….ed io sono, lo so, “su piccioletta barca”

 

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La parola di oggi (Sabato 20 febbraio) è:

“bieco”

[…] onde cessar le sue opere biece
sotto la mazza d’Ercule, che forse
gliene diè cento, e non sentì le diece.
(Inferno XXV, 31)

 

Detto dello sguardo vale “minaccioso, malevolo”, ma Dante usa l’aggettivo in senso morale per definire le azioni “scellerate” di Caco, represse da Ercole con violenza. Nel verso “opere biece” il plurale dell’aggettivo si presenta come in altri casi danteschi o di autori antichi, con la palatalizzazione del tema; la forma può alternare con quella di uso odierno (“biechi”, “bieche”). (Accademia della Crusca -A.N.)

Che Ercole non andasse tanto per il sottile si sa, è qui Dante ci ricorda che colpi con la sua mazza Caco, il Centauro che gli aveva rubato quattro buoi e quattro giovenche dalla mandria, con cento bastonate, anche se 90 furono inutili dal momento che, come ci racconta Dante sulla scorta di quanto scrive Ovidio, “non sentì le diece “perché già al decimo colpo era morto. Ma un altro collegamento è scattato in me, ed è con Tex Willer (si lo so a molti può sembrare irriguardoso questo affiancamento, ma in realtà il bello  è proprio vivere i grandi del passato, come accompagnatori del nostro vivere quotidiano). C’è infatti un episodio in cui Tex, come fece Caco che per non far capire la direzione presa trascinò le bestie rubate per la coda, cavalcò all’indietro per qualche miglio..Già che ci sono, voglio ricordare che Tex è pieno di trucchi, presi dalla storia, penso all’episodio in cui alcuni banditi legano paglia incendiata alla coda dei cavalli che lanciano poi nella pianura; i cavalli continuano a galoppare senza fermarsi, terrorizzati dal fuoco che gli brucia la coda e in questo modo incendiano le sterpaglie secche dei prati i e fermano gli inseguitori;  trucco questo, come ci racconta Sallustio, usato  realmente in Spagna da Quinto Sertorio generale romano del primo secolo avanti Cristo ; un altro trucco è quello usato da Laskarina Bouboulina, patriota greca nella lotta per l’indipendenza dai turchi, che nell’isola di Zante, mise centinaia di sagome di legno di uomini armati tra gli alberi dei boschi per far creder che l’isola era così difesa che non poteva essere attaccata. La cosa bella e incredibile è che il trucco funzionò per lei, ma anche nel forte dove Tex con pochi uomini era assediato.

 

 

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La parola di oggi (Sabato 13 febbraio) è:

“lonza”

Ed ecco, quasi al cominciar de l’erta,
una lonza leggera e presta molto,
che di pel macolato era coverta […]
(Inferno I, 32)

 

Dante nella Commedia indica con questo termine la terza fiera che gli va incontro nella selva oscura, considerata simbolo del vizio della lussuria e identificata dai commentatori di volta in volta con la lince, il ghepardo o il leopardo, come pare più probabile data la pelle coperta di macchie. Anche la lonza che indica il taglio di carne che compriamo oggi dal macellaio o dal salumiere è parola usata da Dante, non nella Commedia, ma in una delle Rime (“ma peggio fia la lonza del castrone”).

(Accadelia della Crusca – P.D’A.)

Devo confessare che quando mi è capitato di comprare la lonza non mi ha mai sfiorato il fatto di pensare a Dante Alghieri; nella mia mente la lonza dantesca è sempre stato un leopardo ed è raro che la velocità di chi mi servisse mi facesse pensare ad un leopardo. Forse sarebbe andato meglio se avesse prevalso il piano allegorico, tutto sommato lussuria e macellaio è pur sempre un paradigma erotico tant’è vero che su questo Alina Reyes ha scritto un libro (intitolato appunto “il macellaio”) dal quale il regista Aurelio Grimaldi ha tratto un film con Alba Parietti.

Ma oggi il commentatore dell’Accademia della Crusca mi ha aperto un mondo, da oggi posso benissimo immaginarmi che a servirmi al supermercato sia Forese Donati e chiedergli, in bello stile, ““se meglio fia la lonza del castrone”. Dai Dante, scusa, si scherza!

 

 

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La parola di oggi (Sabato 6 febbraio) è:

“marra”

Non è nuova a li orecchi miei tal arra:
però giri Fortuna la sua rota
come le piace, e ‘l villan la sua marra.
(Inferno XV, 96)

 

Attrezzo da muratore, o anche (come lo nomina Dante) da contadino, la zappa, aggeggio necessario nel ciclo agricolo dell’anno; ma il Poeta lo nomina con un certo disprezzo, come cosa rozza e manuale di cui non intende curarsi, affaccendato in più alti disegni, pur nell’avversa fortuna. (Accademia della Crusca C.M.)

Si ognuno di noi dovrebbe essere, come Dante sostiene di esserlo stato, pronto ai colpi della Fortuna, sapendo che essa, indipendentemente da noi, dai nostri meriti o demeriti, gira come meglio crede. Ma Dante due versi prima aveva detto una cosa in più, “pur che mia coscienza non mi garra”, purché non mi rimorda la coscienza.

La parola “marra” che per Dante è poca cosa, diventa però una parola centrale in una magnifica poesia di Giovanni Pascoli; allora proseguendo nel “miscuglio poetico” che sempre mi piace fare,  e pensando inoltre al corso che all’Acu abbiamo tenuto su  Giovanni Pascoli , abbandono le fiamme dell’Inferno per passare “al mattinal fumare” dei campi dove i contadini sono intenti ad arare, sotto lo sguardo “saputo” del passero che aspetta gioioso la fine del lavoro , per lanciarsi su qualche seme

Arano
Al campo, dove roggio nel filare
qualche pampano brilla, e dalle fratte
sembra la nebbia mattinal fumare,

arano: a lente grida, uno le lente
vacche spinge; altri semina; un ribatte
le porche con sua marra paziente;

ché il passero saputo in cor già gode,
e il tutto spia dai rami irti del moro;
e il pettirosso: nelle siepi s’ode
il suo sottil tintinnio come d’oro
(Myricae 1891)

 

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La parola di oggi (Sabato 30 gennaio) è:

“inmilarsi”

L’incendio suo seguiva ogne scintilla;
ed eran tante, che ‘l numero loro
più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla
(Paradiso XXVIII, 93 )

 

Neologismo dantesco formato sul numerale mille, riferito alla moltiplicazione vertiginosa del numero degli angeli, che la mente umana non è in grado di contenere. Il verbo fu ripreso da Boccaccio e, in epoca moderna, da Pascoli, D’Annunzio, Gozzano, Saba e Montale. (Accadenia della Crusca C.G.)

Parafrasando: “Ogni angelo (scintilla) continuava a girare (seguiva) insieme al suo cerchio infuocato (L’incendio suo); e il loro numero era così alto (eran tante) che si moltiplicava (s’inmilla) più che la progressiva duplicazione (più che ’l doppiar) degli scacchi.

Questo è un altro canto che piace molto a chi si interessa di angeologia, e vuole conoscere l’assetto delle schiere degli angeli, e inoltrarsi tra le diverse tesi di Dionigi Aeropagita (l’intellettuale greco convertito al Cristianesimo dalle prediche di San Paolo ad Atene)  e di Gregorio Magno (importante Papa del VI secolo e dottore della Chiesa) circa la loro disposizione in cielo, discussioni che nel periodo di Dante avvenivano, nelle botteghe, nelle vie e tra la gente così comunemente, con ognuno che diceva la propria, come noi oggi discutiamo dell’assetto delle squadre di calcio, ma qui Beatrice dice chiaramente che aveva ragione Dionigi, che si rifece a quanto aveva visto San Paolo durante il suo rapimento in cielo descritta nella seconda epistola ai Corinzi. Ma io non sono per nulla interessato alle gerarchie angeliche, (e neppure all’assetto delle squadre di calcio a dire il vero) ma approfitto della terzina sopra riportata per ricordare a cosa si riferisce quel verso “più che ’l doppiar de li scacchi s’inmilla”

Vuole la leggenda che l’imperatore dell’India per ricompensare l’inventore del gioco degli scacchi che lo aveva fatto uscire dalla noia gli chiedesse di dire cosa volesse in cambio.

L’uomo, con aria dimessa, chiese un chicco di grano per la prima casella della scacchiera, due chicchi per la seconda, quattro chicchi per la terza, e via a raddoppiare fino all’ultima casella. Stupito da tanta modestia, il Principe diede ordine affinché la richiesta del mercante venisse subito esaudita. Gli scribi di corte si apprestarono a fare i conti, ma dopo qualche calcolo la meraviglia si stampò sui loro volti. Il risultato finale, infatti, era uguale alla quantità di grano ottenibile coltivando una superficie più grande della stessa Terra!

Non potendo materialmente esaudire la richiesta dell’esoso mercante e non potendo neppure sottrarsi alla parola data, il Principe diede ordine di giustiziare immediatamente l’inventore degli scacchi. E questo la dice lunga, a mio modo di vedere, sul modo che hanno i potenti per risolvere le situazioni quando hanno torto. 

 

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La parola di oggi (Sabato 23 gennaio) è:

“inforsarsi”

[…] ma dimmi se tu l’hai ne la tua borsa”.
Ond’io: “Sì ho, sì lucida e sì tonda,
he nel suo conio nulla mi s’inforsa”
(Paradiso XXIV, 87)

 

Neologismo dantesco formato sull’avverbio forse, significa ‘essere in dubbio’. Il verbo, usato anche come intransitivo non pronominale, ebbe un certo successo e fu ripreso, tra gli altri, da Petrarca, Boccaccio, Tasso, Alfieri. (Accademia della Crusca C.G.)

Insomma, Dante interrogato da San Pietro circa la qualità della sua fede risponde senza “inforsarsi”, non ha nessun dubbio: “ho nella borsa – risponde – una moneta così lucente (quindi di buona lega) e così rotonda (non consumata ai bordi, quindi integra nel suo peso) che riguardo al suo conio non c’è nulla che possa costituire per me motivo di dubbio.” Alla domanda precedente su cosa fosse per lui la fede Dante riesce a costruire una splendida terzina pur riportando testualmente le parole di San Paolo contenute nella “lettera agli ebrei” (XI,1) e chiosata da San Tommaso nella “Summa theolgica”

“fede è sustanza di cose sperate
E argomento de li non parventi,
questa pare a me sua quiditate”

L’interrogazione di San Pietro va avanti, ma Dante risponde sempre in modo perfetto (potevamo mai “inforsarci”?)

Detto questo su Dante, andiamo avanti sulla parola; visto che la Crusca dice che questo verbo è stato utilizzato anche da altri autori mi sono messo alla ricerca di altri esempi.

Eccone alcuni:

“e col suo operar sì mi convengo, / che parte alcuna di quel non s’inforsa / in me”  (Boccaccio, Ninfale d’Ameto)

“Mi rota si ch’ogni mio stato inforsa” (Francesco Petrarca, Il Canzoniere, sonetto 119)

“Inforsa ogni mio stato”  (Torquato Tasso, Gerusalemme liberata 4,92)

“Divido il tema: ed anco il dir m’inforsa.” (Vittorio Alfieri, satira nona)

 

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Inizio da questo sabato una rubrica che intitolo:

“Sabato con Dante”.

La rubrica prende spunto da una bellissima iniziativa dell’Accademia della Crusca che pubblica e commenta ogni giorno, dal primo gennaio 2021, una parola di Dante. Ciò come contributo alle iniziative per commemorare i 700 anni della sua morte avvenuta il 14 settembre de 1321. Parola di Dante fresca di giornata, così han chiamato la loro rubrica .

Io partirò ogni settimana (il sabato appunto) da una delle loro parole per poi trarre qualche considerazione personale da condividere con i lettori di questa pagina.

Mi sembra un’occasione davvero importante ma allo stesso tempo semplice e alla portata di tutti, per ricordare, rileggere ma anche semplicemente scoprire la grande eredità linguistica lasciata da Dante.

Cominciamo:

 “trasumanar”

 

Trasumanar significar per verba
non si poria; però l’essemplo basti
a cui esperienza grazia serba
(Paradiso, I, 70)

 

Neologismo dantesco per indicare un’esperienza che va oltre l’umano. Dante lo usa per indicare l’avvicinamento a Dio, ma il termine può essere esteso ad ogni condizione che vada al di là dell’esprimibile, dove le parole non bastano più.

Pensateci un attimo com’è davvero bella, originale e al contempo precisa questa parola inventata.

 

Le rubriche di Luigi Maria Brancato

Geroglifici che passione ! …

Si narra che gli Egizi inventarono i geroglifici come codice cifrato per nascondere ai profani il segreto della loro conoscenza: ed in effetti, a chi non sa decifrarli, lo sguardo e la mente sono come confusi in quella foresta di segni di fascinosa bellezza.

In realtà la parola “geroglifico” non è egiziana ma bensì greca. Il termine è formato da due par-ti, da “hieros” che significa “sacro” e da “glyphein” che significa “incidere”.

Per gli Egizi erano invece ” medw netjerw “: Parole Divine.

I greci dunque consideravano la scrittura egizia come una rappresentazione incisa del sacro, cosa non errata poiché gli egizi definivano la propria scrittura o come “bastone di dio”, al quale appoggiarsi per meglio ordinare la propria vita, o come “parole divine”, che era necessario sa-per comprendere. In più per gli Egizi solo ciò che era scritto avrebbe assicurato l’immortalità.

Ecco due testimonianze che spero vi piacciano

Preghiera dello scriba a Thot (la lingua del creatore)
O Thot, preservami da parole vane.
Stai dietro di me (per guidarmi) al mattino.
Vieni, tu che sei la parola divina.
Tu sei una dolce fonte per il viaggiatore assetato nel deserto.
Essa è inaccessibile per il chiacchierone , prodiga per il silenzioso.
(papiro di Sellier 1,8,2-6)

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Frammenti di Bellezza …
 
Sicuramente di rara bellezza, di provenienza Armaniana, faceva parte della Collezione Carnarvon ( sì proprio lui, lo sponsor di Howard Carter scopritore della tomba di Tutankhamon), che venne venduta nel 1926 dagli eredi per la notevole cifra di USD 145.000,oo al Metropolitan Museum of Art di New York dove tuttora è esposta.
Raffigurante la parte inferiore del viso, probabilmente oltraggiato per la damnatio memoriae che colpi Akhenaton dopo la morte e di conseguenza tutta la famiglia Armaniana, è di diaspro levigato e lascia solo intendere, grazie alle sublimi fattezze, la bellezza di quello che doveva essere l’intero manufatto, questo frammento di statua, attribuito all’artista Ywty ( scultore accreditato alla corte di Akhenaton ) raffigura la Regina e Grande Sposa Reale Tye, moglie di Amenhotep III e madre di Akhenaton ( Nuovo Regno – XVIII din. ). Tye fu senz’altro uno dei personaggi femminili più rilevanti dell’Antico Egitto e la sua figura può essere accostata ad altrettanto rilevanti donne egizie come Hatshepswt, Nefertiti, Nefertari e Cleopatra.
 
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Deontologia al Tempo dei Faraoni …

Il Faraone , al momento della sua salita al trono, prestava giuramento a Maat, mentre, al termine della Vita terrena, nella sala di Maat o sala della giustizia, si svolgeva la pesatura del cuore del defunto su un piatto della bilancia e la la piuma della giustizia di Maat sull’altro piatto ( Psicostasia ). Il cuore doveva sempre pesare meno della piuma di Maat per potere accedere al giudizio positivo finale di Osiride. Questa era la tradizionale “dichiarazione di innocenza”, tratta dal Libro dei Morti ( Papiro di Ani della XVIII din. ) che il defunto doveva pronunciare di fronte a Osiride e che prelude a quella che dopo centinaia di anni sarebbero stati i ” Dieci Comandamenti “

Non ho detto il falso
Non ho commesso razzie
Non ho rubato
Non ho ucciso uomini
Non ho commesso slealtà
Non ho sottratto le offerte al Dio
Non ho detto bugie
Non ho sottratto cibo
Non ho disonorato la mia reputazione
Non ho commesso trasgressioni
Non ho ucciso tori sacri
Non ho commesso spergiuro
Non ho rubato il pane
Non ho origliato
Non ho parlato male di altri
Non ho litigato se non per cose giuste
Non ho avuto comportamenti riprovevoli
Non ho spaventato nessuno
Non ho ceduto all’ ira
Non sono stato sordo alle parole di verità
Non ho arrecato disturbo
Non ho compiuto inganni
Non ho avuto una condotta cattiva
Non mi sono accoppiato (con un ragazzo)
Non sono stato negligente
Non sono stato litigioso
Non sono stato esageratamente attivo
Non sono stato impaziente
Non ho commesso affronti contro l’ immagine di un Dio
Non ho mancato alla mia parola
Non ho commesso cose malvagie
Non ho avuto visioni di demoni
Non ho congiurato contro il Re
Non ho proceduto a stento nell’acqua
Non ho alzato la voce
Non ho ingiuriato Dio
Non ho avuto dei privilegi a mio vantaggio
Non sono ricco se non grazie a ciò che mi appartiene
Non ho bestemmiato il nome del Dio della città

… e non ditemi che anche se vecchio di c.a. 3500 anni, buona parte di queste dichiarazioni di ( presunta ) innocenza non farebbe comodo che venissero rispettate anche ai nostri giorni !
O tempora o mores … 

 
 
 

♦•♦•♦•♦•♦

 

 

Il Tempo delle Piramidi volge al termine …

la Morte non realizza la Speranza di Pace e di Giustizia, come promette la tradizione da oltre 1500 anni : essa è invece separazione dalla Vita, Dolore, Sofferenza e Pianto e inconoscibile resta il Destino dell’Uomo :

” Passa un Giorno Felice, dimentica l’affanno ..”

è il solo consiglio, la sola soluzione che viene offerta ai viventi.

Vivere finché ci è concesso ciò che di buono offre la vita.

Così esorta ” il Canto che sta nella tomba di Antef ( Faraone XI din – 2121 a.C. ) e che sta davanti all’Arpista.

Il testo ci è giunto postumo da una copia di età Ramesside ( XIX – XX – XXI / 1200-1070 a.C. ), nel manoscritto ( Papiro Harris 500 – British Museum, London ), assieme ad una raccolta di gioiosi canti d’Amore :

” Canto che si trova nella tomba di Antef e che sta davanti all’Arpista : é il testamento di quel buon Sovrano, dal felice destino “

– Periscono le generazioni e passano,
altre stanno al loro posto, dal tempo degli antenati:
i re che esistettero un tempo
riposano nelle loro piramidi,
son seppelliti nelle loro tombe
i nobili ed i glorificati egualmente.

Quelli che han costruito edifici,
di cui le sedi più non esistono,
cosa è avvenuto di loro?

Ho udito le parole
di Imhotep e di Herdjedef,
che moltissimi sono citati nei loro detti:
che sono divenute
le loro sedi?

I muri sono caduti
le loro sedi non ci son più,
come se mai fossero esistite.

Nessuno viene di là,
che ci dica la loro condizione,
che riferisca i loro bisogni,
che tranquillizzi il nostro cuore,
finché giungiamo a quel luogo
dove sono andati essi.

Rallegra il tuo cuore:
ti è salutare l’oblio.

Segui il tuo cuore
fintanto che vivi!
Metti mirra sul tuo capo,
vestiti di lino fine,
profumato di vere meraviglie
che fan parte dell’offerta divina.

Aumenta la tua felicità,
che non languisca il tuo cuore.

Segui il tuo cuore e la tua felicità,
compi il tuo destino sulla terra.

Non affannare il tuo cuore,
finché venga per te quel giorno della lamentazione.

Ma non ode la loro lamentazione
colui che ha il cuore stanco:
i loro pianti,
non salvano nessuno dalla tomba.

Pensaci,
passa un giorno felice
e non te ne stancare.

Vedi, non c’è chi porta con sé i propri beni,
vedi, non torna chi se ne è andato.

Il Tempo delle Piramidi volge alla fine … il cielo non è il viatico per l’eternità, nuovi cambiamenti si affacciano all’orizzonte e la terra prenderà sempre più posto nel destino di Uomini e Faraoni : questo Canto ne é una tangibile e poetica testimonianza.

 

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La Cultura della Scrittura …

Il caldo e lo scirocco non hanno ancora preso il sopravvento sul mattino estivo fresco e profumato di salsedine … questo mi spinge alla lettura ed alla meditazione su ciò che leggo ( “Verso l’Unico Dio: da Akhenaton a Mosè” di Jan Assmann ) spingendomi a considerare la Cultura della Scrittura che determina uno stimolo, una spinta ad innovare che nulla ha a che vedere con il “Sistema Scrittura” e soprattutto, in termini di comunicazione, con l’Oralità.

 

Mi è capitato pertanto di leggere una testimonianza interessante data dal “Lamento di Khakkheperreseneb” , saggio Egizio vissuto all’inizio del II millennio a.C. :“ … 

Se io avessi frasi sconosciute, strane espressioni, un nuovo linguaggio che non sia stato ancora utilizzato, libero dalla ripetizione, senza i proverbi tramandati dagli antenati !

Io purifico il mio corpo da tutto ciò che contiene e lo libero da tutte le mie parole.

Poiché ciò che è stato detto è ripetizione e niente è detto che non sia già stato detto.

Non ci si può vantare delle parole degli antenati poiché i posteri lo scopriranno.

Se io conoscessi ciò che gli altri ignorano e che non è che ripetizione !… “

Parliamo di un pensiero di oltre 4000 anni fa e tratta di un aspetto culturale in cui l’Autore, che stavolta scrive per sé e non per il pubblico (che si aspetta qualcosa di più familiare ma allo stesso tempo che sia nuovo), si costringe in uno spazio di competizione intertestuale da cui nasce e si sviluppa una problematica vicina a quella di scrittori e pensatori di ogni tempo.

Buona giornata a Tutti Voi !

 

 

♦•♦•♦•♦•♦

 

 

Roba da (innocenti) liceali …

Non hai idea di quanto sia stato difficile
trovare un dono da portarti.
Nulla sembrava la cosa giusta.
Che senso ha portare oro ad una miniera d’oro,
oppure acqua all’oceano.
Ogni cosa che trovavo,
era come portare spezie in Oriente.
Non ti posso donare il mio cuore e la mia anima,
perché sono già Tue.
Così, ti ho portato uno specchio.
Guardati e ricordami.
( Jalāl al-Dīn Rūmī )

La Poesia, una Poesia, suscita sensazioni ed emozioni diverse a secondo chi la legge : le parole, i suoni assumono significato diverso da quello percepito dagli altri. Ognuno di noi vede ed interpreta con i propri occhi una realtà diversa da quella che vedono gli altri e questo ci differenzia dagli altri, rendendoli, paradossalmente, simili a noi. Leggete questi versi : ci si potrebbe scrivere un romanzo lungo mille pagine eppure bastano poche righe, poche parole per suscitare mille sensazioni che mai verranno scritte. La Poesia per me è tutto questo.
(da, i Pensieri di un innocente liceale ).

 

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Per non morire …

Alle giovani generazioni duramente provate dal primo conflitto mondiale Hermann Hesse, nascosto sotto lo pseudonimo di Emil Sinclair, racconta con Demian (1919) la storia di una rigenerazione possibile e di una liberazione diversa, fuori dagli schemi del vecchi o umanesimo e soprattutto fuori dall’orizzonte culturale europeo incentrato sulle mitologie del progresso industriale e tecnologico.

Avevo paura della troppa solitudine, paura dei numerosi sensi di vergogna e di delicata intimità ai quali mi sentivo portato, paura dei teneri pensieri d’amore che spesso mi assalivano.

Ci sono sogni nel quali, andando in cerca della principessa, si rimane affondati in pozzanghere sporche, in vicoli sudici e male odoranti. Così capitò a me.

In questo modo poco garbato mi avvenne di isolarmi e di porre fra me e l’infanzia la porta chiusa d’un paradiso terrestre con custodi spietatamente luminosi.

Era un inizio, un ridestarsi della nostalgia di me stesso.

Io ero un parto della natura lanciato verso l’ignoto, forse verso qualcosa di nuovo o forse anche verso il nulla, e il mio compito consisteva unicamente nel lasciare che quel parto si evolvesse dal profondo, nel sentire dentro di me la sua volontà e nel farlo mio. Avevo già assaporato molta solitudine.

Ora ebbi l’impressione che ne esistesse una più profonda e fosse inevitabile.

Ci sarà la guerra. Vedrai quanti entusiasmi. Per la gente sarà una bazza. Già ora tutti si rallegrano all’idea di menar le mani.  Tanto noiosa è diventata per loro la vita !

Ma vedrai, Sinclair, questo è soltanto il principio.

Ci sarà forse una guerra grande, grandissima :

anch’essa però sarà soltanto il principio.  Incomincia un mondo nuovo, e questo sarà spaventevole per coloro che sono attaccati al vecchio.

Tu che farai ?

 ( Hermann Hesse – da, Demian )

Costruito sulla ricezione di Nietzsche, sulla discussione con la teoria psicanalitica junghiana e sulla simbologia biblica, incentrato – come pochi anni dopo Siddhartha – sulla rimozione della colpa e sul recupero di valori interiori, Demian indicava con straordinaria forza la direzione che i giovani attendevano : riprendere la via verso l’interiorità e verso l’autonomia della coscienza, scendere nelle profondità del proprio io, ricercare la verità che si nasconde nelle pieghe dell’inconscio.

Ecco … questo è quello che auguro alle nuove generazioni, ai nostri figli e a chiunque voglia guardarsi dentro : non è mai troppo tardi nè troppo presto.

NIENTE DI PIU’. TU CHE FARAI !!!

Gli articoli di Giorgio Callegari

L’Europa e la sua ecologia masochistica

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Breve vacanza a Londra

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HOMO SAPIENS

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Patrimoni Italiani noti ma anche sconosciuti

E’ abbastanza facile parlare bene del paese che ha ancora il maggior numero di siti Unesco – anche se a breve saremo forse sorpassati dalla Cina – ma a volte molti di noi che ci abitano non hanno ben chiaro perché una città, un monumento, un luogo siano diventati patrimonio dell’Umanità.

Successe anche a me, quando dopo tanti anni decisi di visitare ancora Padova,  città piena di storia, di arte, di cultura, per vedere le opere che l’hanno resa famosa: gli affreschi di Giotto in cappella Scrovegni,  il Santo con le statue di Donatello (la più famosa nella piazza antistante, un capolavoro eretto a ricordo del Gattamelata) e la seconda Università fondata in Italia e quinta al mondo. Infine, il famoso caffè Pedrocchi, dove andai per la prima volta a gustare un caffè a vent’anni, insieme con un’amica studentessa e assaporai la magica atmosfera all’interno di un ambiente divenuto luogo di culto laico, meta quotidiana di professori e studenti.

Purtroppo era Agosto e l’università era chiusa per vacanze ma, mentre visitavo gli Scrovegni scoprii che Padova è sito Unesco non per il patrimonio storico-culturale, ma per un motivo ignoto ai più: è stata la prima città al mondo a creare un orto botanico universitario, dove si insegnava a coltivare e gestire le piante officinali, usate per preparare medicamenti.

Qualcuno si chiederà: e tutto il resto? Tempo al tempo: mi è giunta notizia che la città si è già attivata per una seconda concessione Unesco, in relazione a  tutti i capolavori artistici in essa conservati. Tuttavia, seguendo una piacevole trasmissione su un canale TV privato condotta da un cuoco Italiano e un esperto d’arte Inglese in giro per l’Italia , scoprii altri capolavori che non sono oggetto di visite turistiche , né in questa città né in altre. Ilpregio di quel programma era costituito dalla visita a centri minori o a patrimoni non considerati tali nel nostro paese, se confrontati con quel ben di Dio che storia, mecenati e genialità ci han concesso nel corso dei secoli, ma che sarebbero oggetto di tour turistici quotidiani, in altre nazioni meno fortunate della nostra sotto questo aspetto.

Che altro fare se non fornire qualche suggerimento? Per chi avesse l’opportunità di andare a Padova a breve (da Milano ci son treni quasi ogni ora e la stazione non è distante dal centro storico), suggerirei di non perdere le statue di Giovanni Pisano (Madonna e due angeli, spesso dimenticate dai visitatori, presi dalla rapida osservazione – solo un quarto d’ora – degli affreschi) sull’altare degli Scrovegni e la vicina chiesa degli Eremitani, purtroppo in gran parte danneggiata da un bombardamento nel ‘44 che distrusse anche quasi totalmente gli affreschi del Mantegna , ma ciò che ne rimane testimonia la grandezza dell’opera e dell’artista.

Interessante anche il Palazzo della Ragione, a soli 500 metri dagli Scrovegni, nella bella  piazza dei Signori, anche  perché gli affreschi al suo interno furono rifatti dopo un incendio del 1420, che purtroppo distrusse i preesistenti affreschi di Giotto.

Infine, non perdetevi il battistero: mi ci sono recato grazie al programma condotto dal critico Inglese e ho scoperto al suo interno il capolavoro di Giusto di Menabuoi. Si tratta di affreschi molto belli e ben conservati, sovrastanti una vasca battesimale del tredicesimo secolo . Ci si può anche sedere e godersi le pitture con calma e spirito di osservazione , a un costo simbolico, come spesso accade in Italia.

Chi fosse di Bergamo magari obbietterebbe: come, Padova due volte sito Unesco (almeno si spera) e Bergamo niente, malgrado sia una bellissima città, colma di monumenti e opere d’arte. Beh, a essere sinceri anche Bergamo è sito Unesco, ma non da sola. Infatti pochi sanno che per ottenere l’approvazione ed entrare nella lista dei siti occorre affrontare un costo di almeno tre milioni di Euro. Questo fa sì che, mentre in Cina lo stato sborsa  quanto necessario anche per fare acquisire al paese visibilità non solo politica e industriale, da noi chi vuole entrare nel limitato numero dei siti deve provvedere ‘motu  proprio’ . Pertanto tre cittadine come Bergamo, Peschiera e Palmanova (in Lombardia, Veneto e Friuli) si sono messe in gioco, diventando un unico sito come “opere di difesa veneziane”.

Infine, se la città di Milano è sito Unesco solo grazie all’Ultima Cena di Leonardo, Bologna, Parma e Lucca non lo sono ancora anche se la prima si è attivata in tal senso, forse anche per il fatto che la vicina Modena lo è diventata nel lontano 1997. A ben vedere con il patrimonio storico, artistico e culturale dell’Italia, quasi ogni nostra città (ma anche molti centri minori) potrebbe aspirare a tale riconoscimento. Da notare come non Roma o Firenze abbiano ottenuto tale premio due volte – e non ci dovrebbe meravigliare se fosse accaduto, soprattutto per Roma, con i suoi reperti romani e i lasciti artistici del Rinascimento– ma un piccolo centro come Tivoli, con villa Adriana e villa d’Este.

Questo ci insegna che ogni città o villaggio o paesaggio nel nostro Paese, per quanto sia – o sia considerato – piccolo, può legittimamente aspirare  a divenire sito Unesco o comunque luogo degno di essere visitato da milioni di turisti, tra cui tantissimi stranieri.                            Vi è solo da augurarsi che, passata questa pandemia, chi apprezza l’Italia torni a visitarla non solo per mangiare “noodles and pizza” e gustare vini sopraffini per palati esigenti, ma per assaporare qualcosa che arricchisce spiriti  che cercano una cultura, di cui il nostro Paese è depositario, anche se talvolta pare che ce ne siamo dimenticati

 

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Italia sconosciuta a chi gestisce il potere

Che l’Italia sia per me il paese più bello del mondo (di sicuo lo è  tra i tanti che conosco), penso trovi d’accordo se non tutti, di certo la maggior parte di coloro che ci vivono e vengono a visitarlo.

Allora per quale motivo più di centomila persone – per la maggior parte giovani – la lasciano ogni anno per andare a lavorare all’estero, non solo in Europa, ma anche oltre oceano se non addirittura in Australia? Certo di loro pochi ritornano, creando così delle nuove enclaves in città straniere e portando con sé un messaggio di eleganza, cultura, tradizioni non solo culinarie e speranza di successo, il tutto fondato su una forzata scelta di vita, causata dall’impossibilità di trovare in casa propria una adeguata soddisfazione alla preparazione acquisita con anni di studio e alle proprie aspirazioni.

Sentire i nostri politici lamentarsi perché  tanti giovani fuggono da un paese ingrato e poco disposto a creare per loro opportunità di occupazione  e crescita,  fa sorridere se non addirittura piangere, visto che tutti abbiamo figli o parenti che hanno dovuto affrontare notevoli difficoltà – anche quelli che a scuola o all’università hanno conseguito eccellenti risultati – per trovare uno spazio nel mondo del lavoro, adatto alle loro conoscenze  e propedeutico a uno sviluppo sociale e culturale, tale da  non creare le inevitabili frustrazioni  che possono sorgere quando si inizia e non ci si sente correttamente valutati, utilizzati e, soprattutto, stimolati.

Mi ha quasi indispettito ascoltare la scorsa settimana un’intervista a un ministro (di cui purtroppo non rammento il nome) che,  visitando  un’azienda lombarda, si mostrava convinto che i giovani ricercatori si sarebbero potuti fermare in Italia, se si fossero create le condizioni per meglio utilizzare le loro capacità e il loro talento.

Purtroppo ho avuto modo di verificare recentemente che, rispetto a quando mi laureai  nel lontano 1973, la ricerca nelle università Italiane non si è sviluppata in base a concetti moderni e di merito, ma sulla scorta del principio “massima resa con poca spesa”.

In altre parole, nel ‘73 agli studenti migliori (o presunti tali) veniva offerta, dopo la laurea, una borsa di studio annuale di 1 milione, senza versamenti di contributi e assistenza sanitaria. A conti fatti poco più di ottantamila lire al mese, quando un supplente delle superiori poteva guadagnare circa duecentomila lire/mese, con contributi e assistenza sanitaria. 

Oggi poco è cambiato, visto che il figlio (fisico atomico) di un mio conoscente percepisce una borsa di studio di circa 1000 Euro/mese, essendo costretto ogni due anni a cercare un ateneo che gliene conceda una nuova, passando così da Torino a Roma, poi in trasferta a Oslo, successivamente a Napoli e ora di nuovo a Torino. In 10 anni 5 sedi, borsa di studio invariata,  nessuna carriera universitaria, fama internazionale acquisita grazie ai congressi a cui ha partecipato come relatore  e precarietà assicurata. Ora ha accettato un incarico quinquennale come ricercatore e docente in una università Cinese, con un migliore stipendio e un alloggio garantito a costo zero: emigrerà non appena la “situazione Covid” sarà sotto controllo. Possiamo biasimarlo? Con quale supponenza i nostri politici ritengono di poter fermare l’espatrio delle nostre migliori menti scientifiche? Mi pare ovvio che con la situazione attuale (perfetta fotocopia di quella di 40 anni or sono)  chi ha capacità, intraprendenza e si prefigge di correre rischi calcolati, non possa fermarsi a lavorare nelle nostre università, a meno che non sia figlio di papà o di un cattedratico o idealista incallito.

Qualcuno dirà: ma esistono le aziende private! Quali? Per investire in ricerca di grande spessore occorrono capitali che poche nostre aziende posseggono, perché l’Italia rimane un paese di grandi artigiani e aziende con caratteristiche artigianali (pensiamo ad esempio al settore della moda e a quello eno-alimentare). D’altro canto, le multinazionali straniere preferiscono prelevare in Italia le menti geniali  e farle lavorare in altri paesi, dove non esistono  o sono rari gli  intoppi burocratici e i costi del lavoro non sono elevati come nel nostro. Facile esempio: in Germania si può aprire una partita IVA  in un giorno con un unico versamento di 100 Euro ; non starò ad elencare l’’iter e i costi nel “bel paese ove il sì suona”, perché da qualche anno i giornali e le televisioni ne fanno argomento di discussione e di critica a chi ci governa.

Infine, occorre sottolineare che la burocrazia demotiva il cittadino e in particolare chi appartiene al ceto medio che paga il 60% delle tasse, ma la sua gestione crea  molti posti di lavoro: abbiamo il doppio dei dipendenti pubblici della Germania che conta 20 milioni di abitanti in più e ha un assetto burocratico generalmente più efficiente e meno dispersivo, costoso  e frustrante rispetto al nostro. Per inciso, in Europa solo la Grecia ha lo stesso nostro rapporto burocrati/popolazione: un milione su dieci milioni di abitanti. Se vogliamo fare la stessa fine, siamo decisamente  sulla buona strada…

 

 

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Lunga Italia: dal Passo Giau a Piazza Armerina

Chi mi conosce sa che amo il mio paese, la sua storia, i suoi artisti e i Romani dell’antica repubblica, per ciò che hanno saputo creare e che ancor oggi ci rimane in eredità e ci rende, anche se spesso non ce ne rendiamo conto, il paese al mondo con le maggiori potenzialità nel settore del turismo, tuttora purtroppo ancora inespresse.
Proprio per questo mi piace suggerire  a chi ha la pazienza e la curiosità di leggere i miei scritti – itinerari e località talvolta facili da raggiungere, ma fuori dai circuiti turistici abituali.

Oggi vorrei spaziare su luoghi molto distanti tra loro, ma che val la pena di andare a scoprire, sia per una vacanza programmata, sia per una giornata fuori dal comune.

Comincio volentieri con le mie montagne: le Dolomiti. Chi ci ha trascorso qualche vacanza, conosce senz’altro Cortina, Ortisei, Corvara, Canazei, Moena e qualche altra gradevole – se non splendida – cittadina in quelle vallate sotto i “Monti Pallidi”.

Perché Monti Pallidi, come li chiamavano i miei nonni e i loro contemporanei? Beh, risposta facile, perché sono montagne di roccia calcarea e quindi di color chiaro, non scuro come quello delle Alpi occidentali.

A parte questa breve digressione, vi sono valli o passi che spesso non si conoscono, anche se si trovano vicino ai paesi più noti e meta del turismo organizzato e che vengono di solito disdegnati, anche se sono facili da raggiungere.

Salendo da Cortina di solito si procede diritto e si arriva al passo Falzarego, sotto il Lagazuoi e le Tofane e di fronte all’Averau e da lì si scende a Colfosco e a Corvara per il passo di Valparola, o ad Arabba, sotto il tristemente famoso Col di Lana.

A metà della strada per il Falzarego, c’è una deviazione in direzione di Selva di Cadore/Colle di Santa Lucia. Si imbocca una strada panoramica e agevole (vent’anni fa era ancora bianca e spesso ci facevano transitare il giro d’Italia, per ritrovare il fascino degli anni dei pionieri in bicicletta), dopo circa 11 Km dalla deviazione (e solo una ventina da Cortina), si arriva al passo Giau, su una spianata deliziosa contornata dal Nuvolau, dall’Averau, dalla Croda da Lago. La strada è così bella che, senza saperlo, un mese di settembre di qualche anno fa portai al passo degli amici vantandone la bellezza, ma dovetti lasciare l’auto  a quasi un Km dalla cima, perché i parcheggi erano affollati da motociclisti Tedeschi e Austriaci.

Bene, quello che ormai non mi sorprende più in questo nostro paese, è come spesso gli stranieri lo conoscano molto meglio di noi che ci siamo nati e ci viviamo: individuano sempre i luoghi meno noti agli Italiani e li frequentano con assiduità, facendo propaganda gratuita presso i loro amici e parenti.

Qualcuno dirà: “Va be’, le Dolomiti son tutte uguali, un monte vale l’altro, la roccia è sempre la stessa, che cosa cambia da un passo all’altro, da una valle all’altra?” Sarebbe come dire : “Visto Michelangelo, che c’importa di Leonardo, Raffaello, Botticelli, Tiziano,  gli Impressionisti, Bruegel, Rembrandt, etc.?” I capolavori sia naturali, sia artistici, sono unici e irripetibili e vanno scoperti ad uno ad uno. Personalmente posso dire che ho il passo Giau – come le Odle, situate  tra Ortisei e Bressanone – nel cuore, perché ogni volta in cui lo vedo provo un’emozione ineguagliabile e appagante. Provare per credere e…suggerimento: se si ha voglia di camminare, da lì partono diversi percorsi anche brevi che stimolano l’appetito e la voglia di sperimentare il ristorante sito al passo: buon rapporto qualità/prezzo e ottimo strudel!

E ora mi piace muovermi verso gli antipodi e tornare – con la mente e con l’anima – in Sicilia, a Piazza Armerina. Che c’è in questo posto dove di solito non ti portano, perché ci son prima Palermo, Agrigento, Selinunte, Taormina, Siracusa, Catania, Noto? Occorre ammettere che, se non arrivi da Catania (120Km di cui circa 40Km di statale abbastanza tortuosa), il percorso è piuttosto lungo e faticoso, ma ciò che si vede vale la fatica e ti riempie gli occhi di arte musiva dell’impero romano .

Si tratta della “Villa del Casale” una villa signorile romana del 4° secolo DC che, essendo la meglio conservata giunta a noi, perché ricoperta di fango alluvionale, ci ha restituito quelli che a mio avviso sono i più bei mosaici di epoca romana imperiale e che hanno contribuito a farla annoverare tra i 55 Patrimoni Unesco Italiani.

Per chi volesse visitarla, un consiglio: gli ambienti sono coperti da lastre in plastica non coibentate per preservarli, ma ciò  causa elevate temperature e umidità. Io la visitai a inizio Giugno e c’erano 32°C, tuttavia ancora accettabili e ci rimasi mezza giornata, mia figlia ad agosto con quasi 40°  scappò dopo un’ora.

Per finire, chi ci volesse andare scoprirebbe che si dovrebbe retrodatare l’invenzione del bikini: vi sono scene di palestra in cui le donne romane già lo indossano, con 16 secoli di anticipo!

Buon viaggio a tutti, sperando  ci concedano di scoprire ancora le bellezze d’Italia in libertà, come negli anni passati…

 

♦•♦•♦•♦•♦

 

In vacanza in Italia centrale

Pensare di andare in vacanza nei prossimi mesi può sembrare un azzardo, ma forse alimentare quello che in questo momento ci pare un sogno, potrebbe dare maggiori certezze al nostro presente, vincolato da troppe limitazioni e proibizioni a cui non siamo più abituati.

In fondo, fare progetti per il futuro aiuta a mantenersi giovani e serve ad allenare le

cellule cerebrali, visto che è difficile mettere in pratica un altro tipo di allenamento e

allora, perché non viaggiare con la mente, in attesa di poterlo fare con il corpo?
Per me che amo il paese in cui vivo e che ogni anno riesco  a scoprire una città, un borgo, un palazzo, un museo, un  panorama che fino a quel momento mi erano sconosciuti, viaggiare in Italia può sempre rappresentare una novità assoluta, una sorpresa di incredibile bellezza da visitare o rivisitare in maniera diversa, ma sempre appagante.

Negli ultimi anni ho dedicato molto del mio tempo a programmare viaggi verso città che non sono pubblicizzate come le grandi, storiche, imperdibili sempre presenti sulle locandine di qualsiasi agenzia di viaggi in tutto il mondo, o a girare nelle campagne alla ricerca di monumenti che altrove sarebbero imperdibili e qui sono invece dimenticati o quasi.

Ovviamente può apparire difficile agire un po’ come  esploratori e trovare un  tesoro nascosto, ma in questo paese i tesori si trovano anche nei luoghi in cui mai ce li aspetteremmo, basta talvolta andare a zonzo senza una meta, per trovarla davanti a sé magnifica, imperdibile e viene voglia di ritornarci alla prima occasione.

Certo l’Italia centrale è piena di città  dove ogni vicolo  ha una sua storia, ogni stabile ha dato vita a personaggi famosi o li ha ospitati, ma medio evo e rinascimento a volte si trovano dove uno meno se l’aspetta.

Ad esempio pochi che amino arte e storia si saranno persi una visita ad Orvieto, ma credo che, come mi è accaduto qualche anno fa, molti non abbiano mai sentito parlare di Civita di Bagnoregio o abbiano sentito il desiderio di visitarla.

Si tratta di un borgo (che dista da Orvieto poco più di 15 Km) posto in cima ad uno sperone di tufo e rocce sedimentarie, contornato da un panorama  quasi lunare a 360° sulla Valle dei Calanchi, con ancora pochi abitanti rimasti a viverci e al quale non si può accedere in auto, ma solo a piedi e con molta fatica.

Sconsigliato a chi ha problemi cardiaci soprattutto d’estate  ma, anche se non si visita Civita superando il ripido sperone che vi consente l’accesso e attraversando prima la scarpata su un altrettanto ripido ponte sospeso, lo spettacolo vale il viaggio.

Vale la pena andarci anche perché – come succede pure a  Orvieto – la stabilità dello strato di roccia su cui si trova va diminuendo anno dopo anno, i crolli si sono succeduti già nei secoli passati e vi è il serio timore che molto presto sarà vietato entrare nel borgo. L’Italia è bella, ma fragile con le sue montagne sulle quali stanno sparendo i ghiacciai e le rocce si sgretolano come mai è successo in passato.

Se poi visitare Civita non ci convince perché lo consideriamo troppo faticoso, lì intorno si ha solo l’imbarazzo della scelta, tra il lago di Bolsena, Tuscania e Tarquinia a Ovest-Sudovest, le cascate delle Marmore e Narni a Sudest,  Viterbo a Sud e, poco distante  dal lago di Vico, è imperdibile il palazzo Farnese a Caprarola, con dei bellissimi  affreschi ben conservati e un giardino all’italiana abbellito da molte fontane .

A noi italiani piace molto andare in vacanza all’estero, ma forse sarebbe opportuno che prima  imparassimo a conoscere  questa penisola che non possiede  solo gli attuali 55 patrimoni Unesco, ma anche una vera miriade di monumenti e borghi che in qualsiasi altro paese sarebbero in prima pagina delle guide turistiche mentre qui, sovrastati dalle città d’arte e di storia antica e moderna, sono quasi dimenticati.

Per fare un paragone, ricordo quando 42 anni or sono, in occasione del mio primo viaggio in Inghilterra, passai per Windermere e cercai il castello così ampiamente pubblicizzato nel tourist office. Girai in auto attraversando 2-3 volte la cittadina e infine, spazientito, chiesi a un passante dove fosse ubicato il tanto decantato castello. Mi rispose lapidariamente :

“In front of you, sir”

Già, ma di fronte a me vedevo solo un ammasso di pietre e mattoni! Morale: ognuno pubblicizza ciò che ha e noi, purtroppo, spesso non ci rendiamo conto del tanto, forse troppo che abbiamo e a cui non sappiamo – o non vogliamo – attribuire l’effettivo valore… 

 

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Amare il proprio paese è un piacere, non un dovere

Poiché amo l’Italia, ancor più dopo aver visitato per lavoro gran parte dei paesi dell’emisfero boreale, talvolta mi chiedo per quale motivo i suoi abitanti preferiscano andare in vacanza sempre all’estero. Forse ignorano che l’Italia è al momento attuale la nazione che possiede il maggior numero di siti patrimonio dell’Unesco  (55 al momento + 11 di beni immateriali, ma città come Bologna, Bergamo e Padova, oltre ad altri siti, sono in lista per il riconoscimento e potrebbero ottenerlo entro breve) e, anche se la Cina, sostenuta dallo stato che se ne sobbarca i costi, ci potrebbe presto superare, resteremmo comunque il paese con maggior numero di siti in relazione all’area in cui sono distribuiti.Tuttavia, a parte le città più famose che son vi son tutte elencate (non solo Roma, Firenze e Venezia, ma molte altre, equamente distribuite in tutte le nostre regioni) molti altri luoghi, splendidi o per loro natura o perché qualche ingegnere o architetto vi ha voluto costruire qualcosa di importante (vedi Tivoli, due volte sito Unesco), sono normalmente dimenticati  dai turisti nostrani, o perché disagevoli da raggiungere  o lontani, o sconosciuti perché nessuno ne parla in televisione, o semplicemente perché recarsi in paesi tropicali permette di farsi maggior vanto al proprio ritorno  negli incontri con gli amici.Mi piacerebbe  pertanto iniziare a raccontare le mie esperienze con i siti – Unesco o non, ma spesso non fa gran  differenza – che ho personalmente visitato e apprezzato per la loro bellezza e unicità.In breve , 7 anni or sono scendevo  con mia moglie dalla mia Sedico (paese in cui nacqui nella frazione di Bribano, oggi noto nel settore occhiali per ospitare la più grande fabbrica di Luxottica in Italia, in cui si assemblano i famosi Rayban)  lungo il Piave per recarmi poi a  visitare Asolo .Giunto a Maser, che già avevo attraversato molte volte nei miei viaggi di ritorno a casa, vidi dei cartelli (era Giugno) che annunciavano una fiera delle ciliegie (famose e ottime nella zona fino  a Marostica) e, istintivamente  rallentai per cercare un parcheggio – mia moglie ed io siamo golosissimi di quel frutto e i cartelli stimolavano sapientemente i nostri succhi gastrici – quando ci accorgemmo che villa Barbaro era aperta e molti turisti vi stavano entrando per visitarla.Avevo tentato per anni di raggiungere quell’obiettivo, ma quando passavo era sempre chiusa: di proprietà privata, all’epoca era aperta solo in primavera estate un fine settimana al mese o, se meglio ricordo, una sola domenica al mese, cioè a grosse linee, 6 giorni all’anno.Entrambi ci dimenticammo subito delle ciliegie (per inciso, non ne mangiammo quel giorno…), parcheggiamo lontano dal sito, poiché la zona era colma di golosi avidi e affamati che, oltre alle ciliegie, volevano saziarsi con stinchi arrosto, luganeghe, polenta e formaggio alla piastra (la gola, dopo l’invidia, è il più diffuso dei peccati capitali…)In sostanza, dopo anni di tentativi in cui era impossibile prenotare, internet ancora non esisteva, quando la villa era aperta i figli avevano fame, erano stanchi,  avevano bisogni corporali diversi o, più semplicemente, rompevano perché non erano al centro dell’attenzione, finalmente potemmo accedere alla famosa Villa Barbaro di Andrea  Palladio, affrescata per quasi 1000 metri da Paolo Veronese. Beh, devo ammetterlo, come primo esempio dell’Italia sconosciuta ho iniziato da un patrimonio Unesco, una delle 24 ville del Palladio, insieme con Vicenza , elevate a tale ruolo. Strano che un Padovano come il Palladio abbia poi eletto Vicenza e circondario come sua dimora e fonte di arte creativa. A  Vicenza son famose sue creazioni come la Cattedrale – che chiesa non è, ma luogo pagano – e il teatro Olimpico, primo teatro coperto al mondo  (e un italiano ha inventato anche questo ), in stile classico, quasi una copia  rinascimentale dei famosi teatri greci e romani di Efeso,   Taormina  e altre città antiche, ma ben conservata perché al riparo dalle intemperie .La visita fu sorprendente e affascinante: pianelle in stoffa sopra le scarpe (mi sembrava di entrare nei laboratori di un’azienda farmaceutica) per non rovinare i pavimenti in legno, affreschi molto ben tenuti e conservati  e una guida competente che spiegava come i personaggi mitologici o di fantasia riportati negli affreschi, raffigurassero i proprietari della villa, amici e loro parenti e, perché no, i loro domestici. Ciò che mi colpì, fu la manifesta avversione del Veronese per il Palladio: rappresentò se stesso in divisa da cacciatore  con due cani, in fondo a una stanza che la prospettiva  ingrandiva man mano che gli si avvicinava. Dell’architetto, solo una piccola figura difficilmente riconoscibile, quasi a dimostrare la differenza di grandezza esistente tra i due artefici della villa, secondo il parere del pittore.Ciò non deve meravigliare:  i dissapori esistenti  tra Leonardo  e Michelangelosono noti, così come le critiche sollevate da Machiavelli e Petrarca nei confronti di Dante. Non ci dobbiamo meravigliare se tra i grandi uomini albergano  gli stessi sentimenti  che corredano la nostra vita quotidiana, spesso mossi dall’invidia nei confronti di chi riesce a fare quel che noi non abbiamo  pensato prima.Ad ogni modo, gli affreschi del Veronese a villa Barbaro sono veramente splendidi e molto ben conservati. Ciò che mi ha colpito, è il fatto che anche nel rinascimento e nei secoli successivi le mode spingessero i proprietari di capolavori a eliminarli, per far posto opere di artisti sconosciuti, ma più adeguate al pensiero della loro epoca. Così in una stanza di villa Barbaro su una parete è stato recuperato l’originale del Veronese, parzialmente distrutto a martellate, per farci  capire quanto vanità e mancanza di  adeguata cultura artistica non  siano caratteristiche peculiari dei nostri giorni  e di religioni  le cui origini si perdono nella notte dei tempi,  ma siano connaturate con il modo di pensare e di agire dell’essere umano.Un suggerimento  per tutti coloro che mi leggono : Maser non è così distante di Milano, ospita anche il tempietto circolare del Palladio che all’epoca della mia visita era purtroppo in restauro,  Asolo (nel cui cimitero è sepolta Eleonora Duse) e Possagno (patria del Canova, di cui sono  visitabili  il tempio  neoclassico e la gipsoteca ) sono solo a 10 Km e Bassano, splendida cittadina con un centro storico che ospita il famoso ponte in legno degli alpini, è a mezz’ora d’auto.Se poi alla cultura si vogliono unire piaceri e storia, sono poco distanti Montello e Monte Grappa, così come le colline di Valdobbiadene, patria del prosecco e da poco tempo, 54° sito Unesco con le colline di quel vino e da lì si può scendere lungo le strade del vino bianco e rosso.Infine, un suggerimento per tutti: quando finirà questa forzata clausura, diamo forza all’amore che ci unisce alla nostra terra, unica nel mondo per sapori, colori, storia, arte e panorami e cerchiamo di conoscerla meglio, contribuendo così a ridare vita a un patrimonio su cui stiamo seduti ogni giorno, spesso senza che ce ne rendiamo conto.  

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NON TUTTO ACCADE PER CASO …

Nei giorni scorsi, nell’amaro far niente a cui siam costretti da oltre un anno, qualcuno mi ha chiesto come sia nata la mia grande passione per i funghi e gli ho risposto “Per disperazione!” Stupito ,ha continuato la sua indagine, chiedendomi di spiegargli come mai e quando fossi così disperato, tanto da iniziare il mio studio, sia sul campo che sui libri, di questa strana categoria di esseri viventi che non sono né vegetali, né animali, ma costituiscono una importante specie a sé stante. In sostanza, quand’ero bambino chi non aveva soldi a sufficienza, non solo non trascorreva le proprie vacanze in costa Azzurra o ad Acapulco, sulle montagne Svizzere o alle Maldive o in viaggio per il Mondo e non poteva neppure approfittare del bonus vacanze perché a nessuno era venuta la balzana idea di crearlo, ma restava a casa o, in mancanza di meglio, faceva ospitare mogli e figli da qualche parente che risiedeva in località amene, anche se sconosciute ai più. Così a dieci anni, per la prima volta, con mia madre andai a trascorrere un mese in un piccolo paese ai piedi del monte Civetta e non lontano dalla Marmolada e dalle Tofane.

Oggi molti lo conoscono, come conoscono il vicino lago di Alleghe e le numerose piste da sci della zona, ma allora era il classico paesino di montagna, dove la gente viveva di pastorizia e di – peraltro scarsi – prodotti della terra. La vita in quei luoghi era dura, solo i pochi benestanti potevano dare ai loro figli una istruzione adeguata e molti, ancor giovani, andavano a lavorare all’estero, nelle miniere della Svizzera, del Belgio, della Germania.

Gli inverni erano molto rigidi, ma anche d’estate all’ombra faceva freddo e talvolta nevicava anche in Agosto sulle cime lì intorno e sui passi dolomitici. Detestavo tutto di quel paese: il latte di capra che mi propinavano tutte le mattine a colazione   (e spesso anche la sera a cena), la mancanza di aree ampie in cui si potesse giocare (il paese era stretto tra due torrenti in una valle angusta), il divieto di correre da solo sui prati  perché potevano esserci vipere ma, soprattutto, il non sentirmi un benvenuto tra i bimbi locali, che mi consideravano un privilegiato perché indossavo abiti senza “tacoj” (rattoppi),  venivo da una lontana città e parlavo italiano…In realtà, essendo Bellunese e avendo un nonno che conosceva solo il dialetto locale, ero in grado di capire chi mi parlava in tal modo, ma non riuscivo a comprendere quei bambini che si esprimevano in una lingua a me tuttora sconosciuta, che solo più tardi mi dissero essere Ladino…Così feci amicizia con il figlio del maresciallo dei carabinieri: parlava italiano con uno strano accento (era campano), ma lo capivo e avevamo un modo di giocare molto simile, meno violento di quello tipico dei bambini locali. Purtroppo il padre fu trasferito e il figlio se ne andò con lui e l’anno seguente, costretto ancora a trascorrere un mese in montagna per ripulire i polmoni dallo smog milanese, mi dovetti inventare un’attività diversa, ma nel contempo interessante e, non avendo alternative, iniziai a seguire la zia che se ne andava per prati e boschi a cercare erbe, mirtilli, lamponi e altre delizie del palato. Sicuramente, vista la mia passione per i mirtilli, ogni viaggio con la zia creava un concreto tornaconto sia immediato, sia poi a casa quando quei frutti si mettevano a bagno in vino e zucchero e costituivano una gustosa merenda.

Tuttavia alla fine mi stavo stufando fin quando un giorno in una piccola radura, la zia raccolse tre grossi, simpatici funghi marroni con il gambo bianco, smise di cercare mirtilli ed entrò nel bosco da sola, chiamandomi poi per aiutarla. In tutto raccogliemmo sette bei porcini che mi piacquero subito perché mi assomigliavano: pingui, come ero io all’epoca, ma ricercati, al contrario di me che venivo preso in giro per le mie rotondità e, soprattutto, se il tuo cesto era colmo di tali delizie, anche quelli del posto ti ammiravano e rispettavano. Da quel giorno non tornare ogni anno alle mie adorate Dolomiti sarebbe stata una vera iattura, perché era nata in me una passione che trasmisi a mio padre, al quale insegnai quali funghi scegliere e quali lasciare, finché   decisi di studiare le varie specie, soprattutto quelle velenose, perché astenersi, nel dubbio, è la regola da seguire per evitare grossi problemi a noi stessi e a coloro che con noi condividono pranzi e cene.

Oggi non posso più tornare nei miei boschi da solo, ma i miei nipoti mi han già seguito l’anno scorso con ottimi risultati e desiderano ripetere l’esperienza, anche se per il momento possono solo apprezzarne la forma e il profumo, ma non ancora gustarli. Le passioni e le ricette – come accadde per la tarte Tatin e il risotto con lo zafferano – spesso nascono per caso o per migliorare una situazione che appare difficile e complicata, ma poi ti incatenano e non ti lasciano per tutta la vita!

 

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EFFICIENZA DELLA SANITA ITALIA …

Tra quanti leggono questo mio scritto, alcuni saranno informati in merito a quanto mi accadde tre anni or sono mentre mi trovavo in vacanza a Roma: sincope, caduta, frattura alla testa con edema frontale e sanguinamento occipitale: imprevedibilmente, anziché recarmi al Quirinale come programmato, fui trasferito d’urgenza in ospedale. Successivamente i medici pensarono che tutto ciò fosse conseguenza di un arresto cardiaco temporaneo e mi fu impiantato un pacemaker. L’anno scorso il neurochirurgo mi disse che l’edema si era essiccato, non risultava più pericoloso e avrei potuto riprendere una vita normale.

Dopo l’ultima diagnosi favorevole, mi sentivo abbastanza tranquillo, ma la tranquillità nella vita non ha caratteristiche durevoli: a metà gennaio 2021, senza alcun preavviso, ebbi una fibrillazione atriale, conseguente sincope e, per mia fortuna, mia moglie era accanto a me e impedì che mi rompessi ancora la testa mentre cadevo pesantemente! E ora arrivo alla parte più interessante dell’argomento, con cui si dimostra come in Italia non vi sia eccellenza solo nella sua storia, nei suoi artisti del passato e del presente, nella moda, nel cibo e nel vino, ma talvolta si scopra in un settore che gli stessi Italiani hanno messo alla gogna nel corso dell’ultimo anno . n sostanza le dottoresse del centro Cardiologico Monzino, che si sono prese cura di me in questi ultimi tre anni, dopo un controllo del pacemaker dal quale è risultato che funziona perfettamente, hanno organizzato in una sola settimana un intervento di ablazione delle fibre cardiache responsabili della fibrillazione.

La cosa sorprendente sta nel fatto che tutto è stato predisposto in convenzione con il SSN: ricovero il lunedì, intervento il giorno dopo, dimissione il mercoledì, dopo le opportune ed approfondite verifiche e conferma del buon esito dell’operazione. Cosa per certi versi ancor più sorprendente, ma evidente testimonianza della creatività e inventiva degli Italiani nei settori più differenti, la tecnica chirurgica – che risulta meno invasiva delle precedenti e diminuisce drasticamente la durata degli interventi – è stata messa a punto dai chirurghi del Monzino e il primario tiene regolarmente delle videoconferenze con le quali informa i colleghi di tutto il mondo delle innovazioni nel campo cardiochirurgico nate in Italia , segnatamente in Lombardia .Per inciso, il Monzino è stato in assoluto il primo centro Cardiologico Europeo ed rappresenta tuttora un’eccellenza Italiana in questo campo  , tant’è che molti dei suoi pazienti vengono da molti paesi Europei ed extra-Europei, ivi comprese Germania e Scandinavia che dispongono di strutture sanitarie all’avanguardia! Questo con buona pace di qualche presidente di altre regioni che, all’inizio dell’epidemia del Covid-19, mise sotto accusa la sanità Lombarda per il ritardo e l’inefficienza palesati nell’affrontare questo malanno che ancora non se ne vuole andare , realizzando successivamente che per tutti – e non solo per gli Italiani – è risultato difficile, se non impossibile, effettuare le scelte adeguate al momento giusto.

A questo proposito, mi piacerebbe che gli Italiani smettessero di parlar male di se stessi e di coloro che vivono in altre regioni e, se Massimo D’Azeglio decidesse di lanciare uno sguardo verso il suo paese, potesse finalmente gioire scoprendo che, 150 anni dopo la nascita di una nazione, è finalmente nato un popolo e non viviamo più in mezzo a dispute tra contrade.Infine vorrei ringraziare il personale femminile del Monzino: la mia cardiologa, la chirurga che mi ha operato due volte, l’anestesista, la responsabile del reparto, tutte le infermiere che mi hanno assistito con empatia e disponibilità, a dimostrazione che efficienza, professionalità, innovazione non sono vocaboli al femminile per puro caso!     

 

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VIAGGIO IN INDIA

In occasione di uno dei miei primi viaggi in India, mi capitò di contattare diverse società sconosciute sia a me che alla mia azienda per aprire un dialogo che portasse a intavolare e poi a consolidare significativi rapporti commerciali e umani. Normalmente – soprattutto con le grosse aziende – si era fortunati se si riusciva a parlare con il direttore degli acquisti o dell’import-export, anche perché telefonare era complicato e costoso, il fax era appena agli inizi del suo utilizzo in tutto il mondo, le email non esistevano e il telex era chiaro quanto un rebus per esperti.

Con mia sorpresa, quando scrissi ad una importante   società farmaceutica, mi rispose la segretaria del presidente, dicendomi che egli mi avrebbe accolto con piacere, precisando giorno e ora dell’incontro e informandomi che, se avessi fornito i dettagli del mio volo di arrivo, avrebbe provveduto a inviare un auto in aeroporto per il mio trasferimento alla sua azienda. Son trascorsi più di trent’anni, ma ricordo ancora quanto piacere provai di fronte a tanta empatica disponibilità, da parte di un personaggio che non è normalmente avvezzo ad incontrare l’ultimo arrivato, come ero io per i top manager -non solo Indiani – a quell’epoca.  L’aereo arrivò in ritardo di oltre un’ora, ma trovai comunque l’autista ad aspettarmi, con un grosso foglio di cartone su cui risaltava il mio nome. Il percorso non fu breve e mi chiesi come mai il presidente fosse stato così cortese con una persona che non conosceva affatto

L’auto si fermò davanti a una breve scalinata, su cui campeggiava un tappeto rosso (scoprii poi che non era stato messo in quel luogo solo per me, ma accoglieva ogni giorno tutti gli ospiti) e diverse persone mi accolsero con un inchino quando iniziai a salire le scale. La segretaria, nel suo splendido sari multicolore, mi salutò con le mani giunte, come si usa da quelle parti, e mi disse che il presidente mi aspettava nel suo ufficio.

M’introdusse attraverso la porta d’entrata che richiuse alle mie spalle e, con mia grande sorpresa, il presidente mi invitò a sedermi esprimendosi in Italiano: “Benvenuto, signor Callegari, si accomodi. Gradisce una tazza di the?” Quando a mia volta risposi in Italiano, mi fermò dicendomi in Inglese: “Mi scusi, ho usato con sommo piacere metà delle parole che conosco della sua lingua così bella, ma non riesco ad andare oltre”

Così scoprii che amava l’Italia, la nostra lingua, il nostro cibo (aveva   gustato con piacere anche il risotto alla milanese…) e i nostri vini e che nella sua vita aveva visitato il nostro paese 21 volte, dalle Dolomiti alle isole, Elba compresa.

Non ci incontrammo più né avemmo mai business negli anni a seguire ma, quando lasciai il suo ufficio, mi disse “Ricevo personalmente tutti gli italiani, per aiutarmi a ricordare quello che ritengo il più bel paese del mondo e in cui purtroppo, per problemi di salute, non mi reco più da quasi dieci anni. Tuttavia, sono convinto di sapere perché la sua Italia è così bella: secondo me Dio, quando creò il mondo, si fermò su di essa 5 minuti in più e rese così più facile per chi ci vive, aumentarne la bellezza anno dopo anno, secolo dopo secolo, come avete fatto voi.”

 

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APOLOGIA DI BEETHOVEN di GIORGIO CALLEGARI

250 fa nasceva Ludwig Van Beethoven. Per me che ho sempre amato le persone che si son fatte da sole, grazie alle proprie qualità , alla forza d’animo e alla capacità di non fermarsi mai di fronte alle inevitabili difficoltà , un mito.
Un mito sin da quando ascoltai una sua opera per la prima volta (la famosa bagatella “per Elisa”) e poi, iscrittomi alla “Gioventù Musicale”, ebbi la ventura di assistere, dal vivo e in rapida sequenza, all’esecuzione delle sue nove sinfonie , con terza , quinta e settima in testa alle mie preferenze.
Scoprii meglio la nona , la sua apoteosi , grazie a un film di Kubrick, “Arancia Meccanica” e amai ancor più la sua musica quando scoprii che l’aveva composta quand’era completamente sordo.
Allora compresi che non bastano talento e fortuna per superare le avversità, ma serve qualcosa che pochi hanno dentro di loro e che li aiuta a non cadere nell’abbandono : la volontà di non cedere mai all’alternanza degli eventi, alle inevitabili sfortune che si profilano quando tutto appare promettente e su una facile discesa.
Pensare a lui, come a tanti grandi personaggi della storia e dell’arte, cresciuti poveri e spesso menomati nel corpo o nello spirito , ma capaci di creare opere indimenticabili, dovrebbe darci conforto in quest’anno così diverso e così disastroso, sotto molti aspetti.
Se, come diceva Qualcuno , si può cadere dall’altare nella polvere, credo ci sia ancora abbastanza spazio per risalire dalla polvere al paradiso di una quotidianità che pare persa , ma che tornerà migliore, se solo lo vorremo.

 

Le rubriche di Irene Carossia

 

Il 2023 inizia per noi all’insegna della PACE e della MEMORIA, ma soprattutto della collaborazione che ha al centro l’Arte e la condivisione umana.

Dal 13 al 15 gennaio, sul palcoscenico del CRF_CAROSSIA, sarà in scena la COMPAGNIA STABILE CAROSSIA con lo spettacolo “MEMORIE”, scritto e diretto dalla Direttrice Artistica Irene Carossia.

Nove interpreti per raccontare 13 persecuzioni, per ricordare soprattutto il diritto all’identità e alla dignità di ogni popolo ed il diritto di vivere nella propria terra.

La replica di DOMENICA 15 alle ore 17.00 sarà l’occasione per inaugurare l’installazione “2000 SEGNI DI PACE”, opera collettiva dal valore immenso nata dalla straordinaria idea dell’artista Geremia Renzi, il quale dal 2020 ha dedicato una grande energia, intelligenza ed umanità affinché vedesse la realizzazione.

L’istallazione unisce idealmente tre luoghi.

Magazzini dell’Arte a Trapani

Associazione St Giovani Artisti in Cina

CRF_CAROSSIA a Lissone.

Tre luoghi, tre direttori artistici, un artista capofila Geremia Renzi ed un mondo di Arte e di mani che si stringono per dire SI ALLA PACE!

Presso il CRF l’istallazione sarà affiancata da due spettacoli potenti:

MEMORIE (13/14/15 gennaio)

ANIMA ETERNA: storie di donne ribelli, spettacolo scritto diretto ed interpretato da Irene Carossia. (27/28/29 gennaio)

 

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CRF_CAROSSIA
STAGIONE TEATRALE 2022/2023

LA FATICA DI SHERAZADE
1001 notte sono troppe!

 

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Comunicato stampa
CRF_CAROSSIA
STAGIONE TEATRALE 2022/2023
Spettacolo
STRIDE LA VAMPA

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“DONNE CON LA VALIGIA”
Testo e regia   IRENE CAROSSIA
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA

 Ultimo appuntamento in cartellone per questa ricchissima stagione teatrale 2021/2022 del CRF_Carossia, in scena presso la sede di Villa Mariani a Casatenovo. Una stagione che ha visto la Direttrice Artistica Irene Carossia e le splendide artiste della Compagnia Stabile Carossia portare in scena 22 spettacoli per un totale di 66 repliche.

Lo spettacolo che chiude la stagione ha, in realtà, un titolo sibillino: “Donne con la valigia”. Titolo che, infatti, ben si armonizza con la chiusura naturale della convenzione con il comune di Casatenovo, durata sei anni, ed il trasferimento presso la nuova sede.

“Donne con la valigia”, porta in palcoscenico le istanze delle cinque protagoniste, donne in viaggio verso nuove prospettive e al di là dei confini certi. Cinque donne, cinque artiste, esseri umani in costante divenire, alla ricerca di nuovi progetti dentro ai quali poter far vibrare i propri talenti e il desiderio di andare oltre i propri limiti.

Lo spettacolo si muove su un avvicendarsi di riflessioni dedicate al valore delle scelte ma, soprattutto, dedicate alla difficoltà umana nei confronti dei cambiamenti.

Lasciare andare, questo è il concetto più importante e, sicuramente, più faticoso che viene esplorato in questo testo. Un concetto arduo da comprendere ed accettare e, inevitabilmente, da applicare nella vita umana.

Il teatrodanza, come è prassi negli spettacoli della Compagnia Stabile Carossia, giunge sempre in veste di strumento potente di comprensione e condivisione per il pubblico.

Il linguaggio del corpo risulta infatti il più immediato per toccare le corde profonde dell’anima; luogo preposto al racconto delle passioni, ma anche specchio delle aspettative, dei sogni, delle istanze e delle speranze.

Un bellissimo racconto nel quale poter ritrovare il desiderio di proseguire la corsa verso il cambiamento, verso l’evoluzione, senza paure, senza esitazioni, piuttosto con la certezza che ogni scelta sia foriera di nuovi impulsi creativi.

Un inno al valore del talento e al diritto di ognuno di potersi sperimentare nella vita.

In scena con la stessa Irene Carossia le artiste della Compagnia Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian.

Ultima occasione quindi per vedere la Compagnia Stabile Carossia in scena sul palcoscenico di Casatenovo. Ultima occasione anche per visitare la Mostra “Volontarietà”, allestita nello Spazio Espositivo dalla Croce Rossa italiana, Comitato Regionale e Comitato casatese “E tu che volontario vuoi essere?”

 

Venerdì 24 e sabato 25 alle ore 20 e domenica 26 alle ore 18.00
il palcoscenico di Villa Mariani aspetta il suo pubblico per quest’ultimo incontro.

 

 

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“LA MELA ERRANTE”
di e con
IRENE CAROSSIA

 

Penultimo appuntamento per questa stagione teatrale del CRF_Carossia presso la sede di Villa Mariani. Penultima occasione per il pubblico per assistere ad uno spettacolo di Irene Carossia a Casatenovo.

In scena uno spettacolo scritto, diretto ed interpretato magistralmente dalla Direttrice Artistica Irene Carossia, per raccontare dei tasselli di storia umana attraverso la relazione con…la mela.

LA MELA ERRANTE, questo il titolo dell’opera, conduce il pubblico come in un vortice dentro ad un mondo inatteso di storie, miti, leggende e verità mai raccontante o, spesso, mistificate. Un’arcana, magica, seducente e misteriosa creatura, per certo donna, accompagna con ironia ed eleganza lo spettatore alla scoperta di un mondo che, disvelandosi, stupisce, affascina e diverte.

Uno spettacolo in cui parola recitata, canto e danza si intrecciano, creando un prezioso tessuto di rara pienezza. Uno spettacolo gioiello, ricchissimo in ogni suo aspetto ed estremamente fluido, perché si muove libero e leggero, con grazia e passione.

Irene Carossia dona al pubblico il suo straordinario ecclettismo, con la forza e la pacatezza della sua Arte e dell’amore per il pubblico.

Splendidi i costumi della costumista Anna Maria Mazzoni che, da sempre, veste le eroine alle quali dona vita Carossia. Un’arte sublime quella di Mazzoni, in grado di amplificare la meraviglia dell’opera in scena.

Un’occasione da non perdere prima del trasferimento del CRF_Carossia nella nuova sede.

Penultima occasione anche per visitare la Mostra “Volontarietà”, allestita nello Spazio Espositivo dalla Croce Rossa italiana, Comitato Regionale e Comitato casatese.

Soprattutto una delle ultime opportunità per rispondere ad una domanda importante posta dalla CRI.   “E tu che volontario vuoi essere?”

Venerdì 10 e sabato 11 alle ore 20 e domenica 12 alle ore 18.00 il palcoscenico di Villa Mariani aspetta il suo pubblico.

 Costumi: Anna Maria Mazzoni  –  Audio/Luci: Lorenzo Rivolta

 

VENERDI’ 10 Giugno   –   SABATO  11  Giugno     ore 20.00
DOMENICA 12 Giugno ore 18.00

 

Mostra “VOLONTARIETA’”   CROCE ROSSA ITALIANA
Comitato Regionale e Comitato Casatese

 

340 4652962 – 339 1624727 – 039 5988698
promozione@centroteatralevillamariani.eu
Biglietto € 10

 

www.centroteatralevillamariani.eu
CRF Carossia
Centro di Ricerca e Formazione

Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture
Via Don Carlo Buttafava, 54 – Casatenovo (LC)

 

 

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LE FIGLIE DI LILITH

In scena questo fine settimana, presso il CRF_Carossia a Villa Mariani a Casatenovo, un vibrante omaggio alla forza delle donne alle quali, troppo spesso, la storia ha riservato il silenzio o, peggio ancora, la menzogna.

Coperte di fango e di vergogna ogni volta in cui hanno gestito il potere, punite quando si sono ribellate ai ruoli imposti, zittite con violenza quando hanno usato la parola e sono uscite dal silenzio, disprezzate ogni qual volta il pregiudizio è prevalso.

Streghe, eretiche, demoni, prostitute, queste le definizioni che hanno accompagnato, nell’arco della storia, i destini di tutte quelle donne che si sono opposte alla negazione del loro valore e hanno combattuto per far prevalere il diritto ad esistere.

Sei donne potenti, in scena, chiamate ad un confronto che trascende lo spazio ed il tempo, ma che permette loro di raccontare le troppe verità negate.

Lilith, la prima moglie di Adamo, la donna demone, la prima ribelle, emblema

del lato oscuro del femminino. Tramandata come la prima pericolosa dissidente, donna che ha osato rompere il silenzio imposto usando la parola, Lilith chiama, attorno a sé, cinque donne emblematiche.

Didone, fondatrice di Cartagine, nobile, colta e lungimirante regina, imbrigliata nella dimensione di donna succube delle passioni.

Zenobia splendida regina di Palmira, lungimirante stratega che non si piega all’arroganza romana.

Teodora imperatrice di Bisanzio, filosofa e teologa, importante esempio di cultura e diplomazia politica.

Maddalena, la predicatrice errante, paladina della giustizia e del cambiamento possibile.

Medea, colei che non può tacere di fronte alla corruzione del potere e, nel nominare coraggiosamente, diviene colpevole, poiché colpevole è chi nomina il fatto e non chi lo compie.

Uno spettacolo nel quale il pubblico ritrova il senso dei grandi valori della vita: dignità, libertà, speranza, verità e costanza, celebrati dalle donne.

In scena, ad offrire se stesse a queste donne straordinarie, le attrici della Compagnia Stabile Carossia: Irene Carossia, autrice e regista dello spettacolo, veste i panni della pericolosa Lilith, Luisa Caglio è la nobile Didone, Teresa Capacchione la forte Zenobia, Laura Ferrario la colta Teodora, Stefania Venezian la struggente Maddalena, Federica Nicotra la paladina di verità Medea.

Le protagoniste si muovono in palco accompagnate, nelle parti di teatrodanza, dalle note del pianoforte della splendida Annalisa Ferrario.

I costumi meritano un plauso speciale, poiché la costumista Anna Maria Mazzoni con la sua raffinata arte, permette la precisa collocazione storica dei personaggi dentro a costumi preziosi e rari, veri gioielli di alta sartoria teatrale.

Prosegue nello spazio espositivo la Mostra “Volontarietà” allestita da Croce Rossa Italiana, Comitato Regionale e Comitato Casatese.

 

Testo e regia  IRENE CAROSSIA
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA
Irene Carossia, Luisa Caglio, Teresa Capacchione, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian 

Audio: Lorenzo Rivolta   –    Luci: Valerio Villano

 

VENERDI’ 27 Maggio e SABATO 28 maggio  ore 20.00
DOMENICA 29 Maggio ore 18.00

 

Mostra “VOLONTARIETA’”    CROCE ROSSA ITALIANA
Comitato Regionale e Comitato Casatese

 

 

340 4652962 – 339 1624727 – 039 5988698

promozione@centroteatralevillamariani.eu
Biglietto € 10

 

www.centroteatralevillamariani.eu

CRF_Carossia Centro di Ricerca e Formazione
Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture
Via Don Carlo Buttafava, 54 – Casatenovo (LC)

 

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Secondo appuntamento presso il Centro di Ricerca e Formazione Carossia,

dedicato al tema Volontarietà, condiviso con Croce Rossa Italiana, presente con una propria Mostra nello spazio espositivo.

“DONNE DI PALESTINA” ritorna in scena proprio in concomitanza con la

celebrazione del giorno del ricordo palestinese: il NAKBA. Il 15 Maggio infatti si ricorda “la catastrofe”, l’inizio, nel 1948, della prima guerra arabo-israeliana, alla quale sono seguiti la cacciata dai territori palestinesi dei civili, ma soprattutto la mancata fondazione di uno stato autonomo.

Nel momento storico contingente, nel quale stiamo assistendo impotenti ad una rinnovata follia bellica, in realtà mai sopita nel mondo, ma oggi particolarmente vicina   alla   nostra  illusione   di   civiltà   e   sicurezza,   è   particolarmente   importante ricordare quali sono sempre le conseguenze delle guerre.La tragica storia del conflitto israeliano – palestinese continua ad essere una testimonianza viva e sanguinante della violazione dei diritti umani conseguente all’occupazione militare dei territori. Ancora oggi, sotto lo sguardo distratto dell’occidente, accadono in quei territori espropri, violenze, espulsioni, barbarie, esattamente con le stesse modalità con le quali stanno accadendo in Ucraina, perché gli strumenti della guerra sono sempre gli

stessi e i civili, in particolare donne e bambini, sono sempre le vittime predestinate delle violenze peggiori.

“Donne di Palestina” tuttavia offre uno sguardo pieno di speranza, dove si ricorda la forza etica e morale delle donne, la loro capacità di ricostruire i percorsi di pace anche là dove i tessuti umani sono logori e sfibrati. Lo spettacolo, scritto e diretto dalla Direttrice Irene Carossia, che appartiene da anni all’importante repertorio della Compagnia Stabile Carossia, celebra la forza delle donne, ricordando lo sforzo compiuto dalle donne arabe, palestinesi e israeliane nell’avere creato, con la celebre Marcia delle Madri, l’occasione per riaffermare il valore della Pace e della fratellanza.

Il tema della Volontarietà trova  la sua esaltazione più nobile e commovente: migliaia e migliaia di donne nel mondo quotidianamente resistono alla barbarie in nome della Pace, della Giustizia e dell’Amore per la vita.

Uno spettacolo commovente e vero, dove le cinque protagoniste, cinque sorelle palestinesi cristiane, ripercorrono i propri lutti, i dolori e le sofferenze loro e della loro terra, per riaffermare con forza il valore supremo del rispetto della vita e della speranza. Un inno potente alla vita e al tempo stesso delicato, che risuona ancora più forte in questo momento nel quale, troppo forte, soffia il vento di guerra e di violenza.

In un momento nel quale la società sta pericolosamente virando verso un rigurgito di misoginia feroce, riportare in scena “Donne di Palestina” diventa un atto dovuto, ancora più importante per la dignità delle donne e, in generale, per la dignità della civiltà umana.

Irene   Carossia,   Luisa   Caglio,   Laura   Ferrario,   Federica   Nicotra,   Stefania Venezian,   si   offrono   quali   interpreti   generose,   potenti   e   vere   alle   loro   eroine palestinesi. Uno spettacolo dove la verità umana scorre, dall’inizio alla fine, senza mai un attimo di esitazione o di paura.

Lo spettacolo è in scena a Villa Mariani Venerdì 13 e sabato 14 maggio alle

ore 20.00, soltanto due repliche in sede poiché il 15 Maggio la Compagnia Stabile porterà questo gioiello teatrale fuori sede in collaborazione con l’Associazione di  volontariato La tenda di Amal.

Testo e regia: IRENE CAROSSIA
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA con:
Irene Carossia, Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian

Audio:Lorenzo Rivolta
Luci :Valerio Villano

VENERDI’ 13 Maggio ore 20.00  –  SABATO 14 Maggio ore 20.00

Mostra “VOLONTARIETA’
CROCE ROSSA ITALIANA
Comitato Regionale e Comitato Casatese
340 4652962 /339 1624727/ 039 5988698
promozione@centroteatralevillamariani.eu

Biglietto € 10

www.centroteatralevillamariani.eu

CRF_Carossia Centro di Ricerca e Formazione
Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture
Via Don Carlo Buttafava, 54 – Casatenovo (LC)

 

 

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Spettacolo
“MA ANCHE NO!”
Di e con
IRENE CAROSSIA

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“IL VIAGGIO DI PENELOPE”
Testo e regia IRENE CAROSSIA
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA

Omero nell’Odissea ha raccontato il viaggio di Ulisse, l’eroe, e l’attesa di Penelope, la donna, vittima predestinata della storia, ma cosa sarebbe accaduto se invece, ad un certo punto, Penelope avesse scelto di andarsene?

IL VIAGGIO DI PENELOPE, spettacolo scritto e diretto da Irene Carossia, racconta la scelta della protagonista di partire su una zattera costruita da lei stessa.

Dopo aver atteso in silenzio per una buona parte della sua vita, non vista, relegata dietro ad un telaio, immobile, imbrigliata da quegli stessi fili che intreccia, Penelope comprende che, quel confine, si è fatto inaccettabile. La protagonista trova quindi finalmente il coraggio di salire sulla sua zattera ed iniziare il suo viaggio. Parte senza avere una meta precisa poiché, per poter stabilire dove andare, è necessario che prima apprenda a conoscere il mondo.

Penelope scopre, nel suo errare, che non è importante la destinazione, ma piuttosto il viaggio, così come nella vita è importante il progetto che si matura e non il luogo nel quale si realizza, poiché è nel progetto che si legge il valore identitario.

Penelope, che ha vissuto sino a quel momento avvolta dalla sua solitudine, non sarà invece sola nel suo viaggio, poiché raccoglierà intorno a sé quattro compagne importanti. Profughe in fuga, alla ricerca di un luogo ma, soprattutto, alla ricerca di un senso per le loro vite ed i loro destini.

Donne, fuggitive, profughe dell’esistenza, che sono tasselli di Penelope stessa e, proprio l’incontro con loro, la porterà a comprendere il valore della scelta e fino a che punto, i confini imposti, possano diventare linee di partenza per nuovi lidi. Un intreccio di riflessioni che aprono a nuove prospettive, in questo ricco, dinamico  ed appassionante spettacolo, nel quale il corpo è elemento fondamentale del racconto.

Il teatrodanza sostiene ed accompagna la narrazione, restituendo il moto continuo del viaggio al pubblico.

Irene Carossia è Penelope e al suo fianco le splendide artiste della Compagnia Stabile Carossia: Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra e Stefania Venezian.

Audio: Lorenzo Rivolta    –    Luci: Valerio Villano

 

Queste tre repliche, sono l’ultima occasione per ammirare la splendida Mostra “FORTE E’ LA DONNA” dell’artista Giò Marchesi; dal mese di Maggio infatti inizierà una nuova avventura espositiva e tematica.

 

VENERDI’ 22 Aprile – SABATO 23 Aprile ore 20.00
DOMENICA 24 Aprile ore 16.00

 340 4652962 /339 1624727/ 039 5988698
Biglietto € 10  

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Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture
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STRIDE LA VAMPA
Testo e regia
IRENE CAROSSIA

 Musica
Giuseppe Verdi

 

(Clicca sulla locandina vedere il video di presentazione)

Un gruppo di attrici alle prese con la creazione di uno spettacolo dedicato alle eroine verdiane.

La necessità di comprendere, loro per prime, la pienezza di questo mondo straordinario di donne narrate nelle opere verdiane, per poterle far incontrare al pubblico, lontano dai pregiudizi e dai giudizi già pensati.

Il timore che gli spettatori possano rinunciare ad andare a teatro relegando la lirica ad un ambito teatrale ormai lontano dalla sensibilità e, per questo, poco fruibile.
Il bisogno di raccontare personaggi al di fuori dagli stereotipi e dalle convenzioni.

Ecco quindi, per le protagoniste di oggi, l’esigenza di scandagliare le scelte delle eroine raccontate da Verdi arrivando alla loro verità umana per riuscire a condividerla con il pubblico.

Queste donne archetipe ma, allo stesso tempo, potenti nel loro sentire, che si aggirano sulla scena, di romanza in romanza, di opera in opera, di costume in costume.

Una lenta e umana sovrapposizione del sentire: tutte loro, raccontate e immaginate o attuali e reali, sono donne in cammino verso la consapevolezza.

La musica fluisce, nella pienezza delle partiture di Giuseppe Verdi, attraverso le splendide mani e la sensibilità della pianista Annalisa Ferraio.

Le eroine, donne che appartengono all’immaginario collettivo, eppure vive e trascinanti nell’espressione dei loro travagli, dei dolori, della passione e della disperazione, emergono dalla potente voce di Irene Carossia: generosa, forte e commovente interprete, che non lascia spazio ad incertezze o dubbi sulla forza dirompente della lirica verdiana.

Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra e Stefania Venezian, meravigliose interpreti di se stesse: donne, attrici, cercatrici di verità, colte fra dubbi, incertezze e riflessioni. Un unico obiettivo vibrante sulla scena: far comprendere al pubblico la modernità e l’attualità dell’opera, che è e rimane un mondo teatrale irrinunciabile e foriero di grandi emozioni.

Uno spettacolo diverso, innovativo, vitale e coinvolgente, nel quale il pubblico in sala ha la possibilità di accostarsi al melodramma da una differente porta di accesso, condividendo le proprie presunte, o supposte, difficoltà di comprensione, con le difficoltà delle scelte di chi è in scena.

“Stride la vampa”, il titolo omaggia una delle più celebri romanze della Zingara Azucena, protagonista dell’opera “Il Trovatore”, titolo che rende perfettamente il crepitare del fuoco che arde dentro alle protagoniste.

 

COMPAGNIA STABILE CAROSSIA

Voce: Irene Carossia   –  Pianoforte: Annalisa Ferrario

Interpreti :   Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian

Costui: Anna Maria Mazzoni  –  Audio: Lorenzo Rivolta  –  Luci: Valerio Villano

 VENERDI’ 8 Aprile  e SABATO  9 Aprile ore 20.00
DOMENICA 10 Aprile ore16.00

 

Mostra “FORTE È LA DONNA”  –   Artista GIO’ MARCHESI

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Biglietto € 10

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Spettacolo
“IL FARO”
Testo e regia IRENE CAROSSIA
Liberamente ispirato a  “LA Magia del Faro” di Susy Zappa
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA
Costumi Anna Maria Mazzoni

 

Mostra “FORTE È LA DONNA”
Artista GIO’ MARCHESI

Quando le penne di due donne, Irene Carossia drammaturga e Susy Zappa scrittrice, si incontrano non può che nascere la meraviglia di uno spettacolo che diviene il luogo stesso di espressione delle loro anime.

Così è nato questo spettacolo, magico, potente, arcano dove cinque donne si muovono fra tre luoghi simbolici che appartengono alla dimensione umana e alla storia personale delle due autrici.

Una scrivania, dalla quale inizia il racconto: una scrittrice alla ricerca della possibilità di abbandonare le proprie paure, ma anche le proprie certezze, per liberare l’ispirazione e la creatività fuori dal giudizio del mondo.

Un luogo, il Faro dove una guardiana del passato si confronta con una guardiana del presente; un dialogo fra donne che hanno scelto consapevolmente di abbandonare gli orpelli imposti della vita per andare alla ricerca di se stesse. Il mare pacato e tempestoso dentro al quale vive il misterioso potere di una antica divinità celtica, retaggio di matriarcati la cui forza non si è mai spenta.

Ed uno spirito, non certo un fantasma, in realtà l’anima eterna di queste donne che, nel trasmigrare di volta in volta, non perde la sua forza e il suo fondamentale compito di mostrare la via attraverso la quale apprendere a lasciar scorrere la vita e le scelte.

In scena una struttura imponente che è luogo non luogo, per una narrazione al di fuori dello spazio e del tempo.Irene Carossia e Susy Zappa nel loro incontro sublimano la loro stessa arte.Due donne, due scrittrici, due anime vagabonde alla ricerca di verità umane.In scena, al fianco della stessa autrice e regista Irene Carossia, le splendide artiste della Compagnia Stabile Carossia; Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian.

Nello spazio espositivo l’occasione per vivere la Mostra “Forte è la donna” lasciandosi trascinare dalla potenza creativa della grande artista Giò Marchesi.

La replica di domenica 27 alla 16.00 sarà inoltre, per il pubblico in sala, l’occasione alla fine dello spettacolo per assistere e partecipare all’incontro fra le tre artiste che, in perfetta sinergia, rappresentano il mondo dell’Arte e della Cultura di questo evento a Villa Mariani: Susy Zappa, Giò Marchesi e la stessa Irene Carossia.

Un momento importante per il pubblico, l’occasione per meglio comprendere la pienezza dell’Arte di queste donne, un momento di condivisione e di partecipazione diretta del pubblico, il vero protagonista di ogni scelta.

 

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“CENERENTOLA 20 ANNI DOPO”
Scritto, diretto ed interpretato da IRENE CAROSSIA
Costumi Anna Maria Mazzoni

 

Una Cenerentola che, partendo dalla propria esperienza di apprendistato di domestica in funzione del suo futuro di brava moglie e prolifica madre, analizza con ironia la difficoltà delle relazioni e afferma il diritto di ognuno a scegliere liberamente il proprio destino. Fanciulle e principi, streghe e orchi, poco importano i ruoli imposti poichè è sempre possibile scegliere di cambiare. Uno spettacolo ironico, divertente di grande ritmo, che porta il pubblico, fra racconto e musica meravigliosa, ad affrontare il tema della paura del cambiamento e dell’induzione al pregiudizio. Ma sopra tutto vi è l’affermazione del valore dell’identità, l’identità di donna, di essere umano autonomo ed indipendente che manifesta il diritto ad esprimere i propri talenti. Un racconto fatto di voce recitata e di canto, di corpo, di atmosfere magiche e di musica. Questo è il compito del Teatro, dell’Arte, della Cultura, guardare il mondo da altre prospettive, offrendo nuove mappe e nuovi percorsi.

CENERENTOLA 20 ANNI DOPO
Scritto, diretto ed interpretato da IRENE CAROSSIA Costumi: Anna Maria Mazzoni Audio – Lorenzo Rivolta Luci – Laura Ferrario

DOMENICA 20 MARZO ORE 16.00

Prenotazioni: info@musicaecanto.it 039 5988698

Via WhatsApp al numero 3391624727 Associazione MeC Musica e Canto Via Toniolo, 10 C – Lissone www.musicaecanto.it www.compagniastabilecarossia.it

CRF_Carossia Centro di Ricerca e Formazione Polo Teatrale
ed Espositivo/Parco delle Sculture

Via Don Carlo Buttafava, 54 – Casatenovo (LC)

www.centroteatralevillamariani.eu

 

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LA FATICA DI SHERAZADE
1001 notte sono troppe!

“ Le 1001 e una notte” è un titolo che appartiene alla storia di tutti noi, un luogo magico e, molto spesso, sconosciuto ed inesplorato, dove si muove sinuosa lei, la protagonista, Sherazade, archetipo della femminilità e della sensualità orientale.
Forse, in realtà, Sherazade è una medichessa che, per curare i traumi dell’ anima, si affida alle storie, le storie che curano.
Erede di una tradizione antichissima, Sherazade usa la parola, ma soprattutto, lascia fluire la sua immaginazione per creare storie, storie condivise.
La genesi de “Le 1001 e una notte” raccontata dalla protagonista stessa, donna dalla grande ironia, donna vera, concreta, moderna, che rivela la sua fatica di cantastorie.
Uno spettacolo divertente e, nonostante la leggerezza della forma di dialogo diretto e travolgente con il pubblico, foriero di riflessioni importanti sulla vita di tutti noi. Un omaggio importante al valore del racconto, della parola, alla quale la protagonista restituisce la dignità del significato e, necessariamente, un riconoscimento del valore del dialogo come occasione di incontro destinato a sciogliere nodi.
Una Sherazade molto lontana dallo stereotipo di donna oggetto, schiava del volere di un principe problematico, ma una donna consapevole, autonoma, che sceglie di intraprendere un percorso di acquisizione della coscienza del proprio talento.
Lo spettacolo scritto e diretto dalla Direttrice Irene Carossia, vede la stessa autrice sola in scena fra recitazione, canto e armonia del corpo, che si presta sempre, nel teatro di Carossia, come strumento potente del racconto.
Lo spettacolo inaugura infatti il tema che accompagnerà il pubblico nei mesi di marzo ed aprile: FORTE È LA DONNA.
Cinque spettacoli in programmazione, tutti dedicati alla forza consapevole delle donne e all’ espressione dei loro talenti.
Lo spettacolo inaugura anche la Mostra, che si offre al pubblico nello spazio espositivo, dell’ artista GIO’ MARCHESI. Non solamente pittrice, ma poetessa, intellettuale, artista piena e potente, capace di restituire, nelle sue tele, la matericità e la fisicità della vita delle donne.
Un dialogo, quello fra Irene Carossia e Giò Marchesi, iniziato molti anni fa e fatto di condivisione e desiderio di offrire sempre al pubblico la verità dell’ arte e delle emozioni. Una occasione importante per iniziare questo mese di marzo celebrando, con ironia e bellezza, l’intelligenza ed il talento delle donne.

LA FATICA DI SHERAZADE 1001 notte sono troppe!
Di e con IRENE CAROSSIA
Audio Lorenzo Rivolta – Luci Valerio Villano

VENERDI’ 4 marzo – SABATO 5 marzo ORE 20.00
DOMENICA 6 marzo ORE 16.00

Mostra “ FORTE È LA DONNA” Artista GIO’ MARCHESI

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promozione@centroteatralevillamariani.eu Biglietto € 10

www.centroteatralevillamariani.eu

Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani
Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture
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“MUTI COME…”
Testo e regia IRENE CAROSSIA

È veramente così importante la parola?

In un’epoca di svuotamento del valore del linguaggio, dove la comunicazione virtuale ci ha abituati ad un uso limitato ed improprio della lingua, ecco che Irene Carossia e la sua Compagnia Stabile rispondono con uno spettacolo privo di parole

Dal palcoscenico un susseguirsi di situazioni nelle quali la parola non viene utilizzata.

Come è possibile creare e portare in scena uno spettacolo muto? È possibile quando quotidianamente si ricercano spazi di comunicazione mai esplorati, attraverso una sperimentazione del teatro che permette di guardare la vita da prospettive sempre differenti.

Che cosa è possibile raccontare sulla scena senza parole? In realtà tutto, con l’assoluta certezza di essere compresi, poiché il linguaggio del corpo non conosce confini.

Lo spettacolo, nella sua struttura inattesa, restituisce spazio proprio al corpo quale strumento privilegiato del racconto. Il corpo delle danzattrici che si offre al testo quale materia metamorfica e plasmabile in continuo divenire. Tramite delle emozioni, elemento del veloce fluire dell’esperienza umana: il corpo, vero protagonista di questo spettacolo.

Un’opera ironica ed autoironica, affrontata con l’austera saggezza di un documentario scientifico nel quale si racconta l’evoluzione…quale?

L’unico modo per saperlo è vedere lo spettacolo!

La voce suadente e pacata del narratore che avvolge il pubblico cullandolo nella meraviglia della scoperta è in realtà l’unica certezza di questo spettacolo che mostra al pubblico il senso profondo di una parola: sperimentazione.

Non è un caso che Irene Carossia e la sua Compagnia Stabile abbiano scelto di mutare in questo periodo il nome del loro progetto: CRF_CAROSSIA.

Centro di Ricerca e Formazione, un luogo non solo fisico ma dell’anima, dove non si ferma mai il fervore creativo e dove si coltiva, sempre instancabilmente, l’obiettivo di offrire stimoli al pubblico che restituiscano energia creativa e desiderio di vivere la vita esprimendo i propri talenti. Un’unica possibilità per comprendere: venire a teatro, accomodarsi in platea e godere della meraviglia del fluire del racconto e dell’energia, essendo pronti a scelte inaspettate.

Nello spazio Espositivo l’ultima occasione per visitare la splendida Mostra dell’artista lissonese Luigi Pozzi, dal titolo “Profili altri”.

 

      

MUTI COME…

Testo e regia

IRENE CAROSSIA

 COMPAGNIA STABILE CAROSSIA

 Audio – Lorenzo Rivolta

Luci – Valerio Villano

 VENERDI’ 25 febbraio ORE 20.00

SABATO 26 febbraio ORE 20.00

DOMENICA 27 febbraio ORE 16.00

 Mostra “PROFILI ALTRI”

Scultore Luigi Pozzi

 340 4652962 – 339 1624727 – 039 5988698

                   promozione@centroteatralevillamariani.eu                  
Biglietto € 10

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Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani

Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture

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La  Compagnia  Stabile  Carossia  ritorna  in  scena  dando  questa  volta  

spazio all’ironia, con uno spettacolo nel quale l’autrice, Irene Carossia, racconta il diritto di ognuno a sognare ed il valore innegabile ed incontestabile dei sogni quali espressioni dei nostri bisogni più profondi.

LA DIGNITA’ DEL SOGNO è un entusiasmante  ed  un  po’  folle  inno  alla

meraviglia dei sogni umani; un’incitazione a guardare se stessi ed il mondo intorno, da prospettive altre, inusuali e, proprio per questo, ancora più intriganti. Un  canto  alla  vita,  alla  necessità  di  custodire  gelosamente  i propri  sogni, preservandoli dal pregiudizio e dall’oppressione di un mondo che ci vorrebbe, troppo spesso, soltanto creature razionali ed omologate.

Il  tema  è  proprio  quello  della  fedeltà  a  se  stessi  e  al  proprio  mondo  interiore, dimensione irrinunciabile, dove danza vorticosamente l’istinto profondo.Un universo fatto di immagini, simboli, suoni, voci, riti, intrecci straordinari fra passato e presente, desideri e bisogni, il mondo custodito nell’anima di ognuno: il mondo dei nostri sogni. In  un  momento  storico  faticoso  come  quello  che,  ormai  da  due  anni,  viviamo, dove  prospettive,  speranze,  sogni  e  fantasie  sono  andate  perdute,  questo  spettacolo risuona come una potente e giocosa incitazione a non demordere, a non rinunciare, a resistere alla tentazione di smettere di credere.

Grande ironia, giusta esagerazione e riflessione profonda, sono gli elementi che caratterizzano quest’opera teatrale, veloce, dinamica, da un incalzante ritmo, che non lascia spazio a distrazioni.

Assolutamente  imprevedibile,  esattamente  come le visioni  oniriche, questo

spettacolo  gioca  sapientemente  su  di  un  testo  fittissimo  di  battute  che  offrono  un costante movimento fra realtà e sogno, fra logica ed irrazionalità.

Una  sognatrice che crede di volersi liberare delle sue visioni,  una psicanalista che vorrebbe estirpare i suoi sogni e loro, i sogni.

Creature  ribelli,  potenti,  confuse  agli  occhi  dei  più,  lucide  per  se  stesse,  colte nell’espressione della certezza di avere il diritto di vivere ed esprimersi. In  realtà  i  tasselli  del  mosaico          umano,  le  tessere  chiamate  a  comporre  la personalità della sognatrice, pezzetti irrinunciabili e complementari fra loro.

In questa avventura scenica, non certamente facile per le interpreti dato il ritmo costante, affianco all’autrice e regista Irene Carossia, in scena recitano Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra e Stefania Venezian.

Se  avete  ancora  voglia  di  credere  nei  sogni,  se  avvertite  in  voi  il  bisogno  di sognare  ed  essere  liberi  senza  pregiudizi,  non  potete  perdere  questo  straordinario, magico e folle spettacolo.

Nello spazio Espositivo continua la splendida Mostra dell’artista lissonese Luigi Pozzi, dal titolo “Profili altri”

 

VENERDI’ 11 febbraio ORE 20.00          SABATO 12 febbraio ORE 20.00

DOMENICA 13 febbraio ORE 16.00

340 4652962 /339 1624727/ 039 5988698

promozione@centroteatralevillamariani.eu

Biglietto € 10

www.centroteatralevillamariani.eu

Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani

Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture

Via Don Carlo Buttafava, 54 Casatenovo (LC)

 

 

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“VERITA’ NEGATE”
Testo e regia IRENE CAROSSIA
COMPAGNIA STABILE CAROSSIA

 

Gennaio è il mese della memoria: la memoria degli olocausti, la memoria delle persecuzioni, la memoria di quei brandelli di storia umana che devono essere ricordati e compresi e, dove ancora necessario, devono essere raccontati perché sconosciuti ai più.

Nel ricordare e ripercorrere le strade dell’orrore e dell’abominio, è scritta la forza dell’acquisizione degli strumenti critici atti a contrastare il riproporsi di pericolosi  atteggiamenti sociali di discriminazione ed esclusione. La memoria del passato ci permette di vigilare sull’oggi e progettare il futuro, nel segno del rispetto dei diritti umani e contro ogni forma di violenza e di sopruso.

Come ogni anno la Direttrice Artistica del Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani Irene Carossia, offre al pubblico l’occasione di una potente riflessione portando in scena, con la sua Compagnia Stabile, un nuovo spettacolo dal titolo “Verità negate”.

Cinque donne che conducono il pubblico ad immergersi e vivere con le protagoniste tre dimensioni di verità e vite negate.

Ravensbruck, il lager dello sterminio delle donne, rivive nel racconto accorato e doloroso di cinque sopravvissute.

L’infamia della disumanizzazione, la volontà nazista di colpire le donne, indistintamente, le donne non conformi, perché ritenute la pericolosa anima anarchica della società. Una vergogna storica che, troppo a lungo, è rimasta taciuta, custodita soltanto nell’anima ferita ed insultata delle sopravvissute, nascosta dal senso di vergogna e dall’umiliazione.

Il secondo quadro è dedicato alle donne d’Afganistan. Oggi, in questo momento, un mondo umano di donne che non cedono alle vessazioni e alle imposizioni ma che si ribellano, fiere e determinate a lottare per il diritto di esistere.

Un ultimo luogo del racconto: le nostre vite di donne oggi, la battaglia per essere viste, riconosciute come valore fondamentale di questa società che, invece, ha reso ancora più precario il senso stesso dell’esistere.

Le donne oggi, raccontate nella loro silenziosa battaglia per la dignità, il lavoro sebbene nella loro solitudine.

Un testo denso e trascinante, foriero di grandissime emozioni, scritto da Irene Carossia e portato in scena dalla stessa con al suo fianco Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra e Stefania Venezian.

Uno spettacolo che non si può perdere, perché non è giusto deprivarsi del diritto di ricordare, conoscere, riflettere ed emozionarsi.

Nello spazio Espositivo continua la splendida Mostra dell’artista lissonese Luigi Pozzi, dal titolo “Profili altri”

 

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Allo spettacolo “AL BALCONE” è affidata l’inaugurazione di questo nuovo potente bimestre nel fine settimana del 14/15/16 gennaio.

Scritto, diretto   ed   interpretato   dalla   Direttrice   Irene   Carossia, l’opera   si presenta come un dialogo dal balcone, luogo dal quale la protagonista osserva il mondo e l’umanità, ma anche se stessa riflessa nel cielo, fra nuvole, sole, stelle e luci riflesse.

 

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Allo spettacolo “AL BALCONE” è affidata l’inaugurazione di questo nuovo potente bimestre nel fine settimana del 14/15/16 gennaio.

Scritto, diretto   ed   interpretato   dalla   Direttrice   Irene   Carossia, l’opera   si presenta come un dialogo dal balcone, luogo dal quale la protagonista osserva il mondo e l’umanità, ma anche se stessa riflessa nel cielo, fra nuvole, sole, stelle e luci riflesse.

 

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CRONACA DAL VILLAGGIO

Ogni   anno,   nel   mese   di   Dicembre,   tutti   viviamo   la   magia   dei   preparativi, ripercorrendo   i   gesti   della   tradizione:   l’albero   ed   il   presepe,   immagini   certe   del Natale; per tutti noi gesti legati al senso della famiglia e, quindi, all’infanzia.
È un rito che si ripropone, molto spesso, uguale a se stesso, dove il presepe si offre allo sguardo con le statuine, le casette  di cartone, le pecorelle: la prospettiva conosciuta di un racconto dove i ruoli non mutano.

Oppure,   forse…tutto   all’improvviso   può   cambiare   se   il   presepe   smette   di essere soltanto un’immagine e diviene un… villaggio, nel quale i personaggi esistono, vivono e, soprattutto, pensano in maniera critica  e discordante rispetto a quello che si può immaginare.

Un   villaggio   necessariamente   non   convenzionale,   nel   quale   le   sue   abitanti, soltanto donne, manifestano le loro personalità assolutamente fuori dall’immaginario e, soprattutto, al di là dei canoni.

Niente è come appare agli occhi degli esseri umani, abituati a sguardi frettolosi e poco profondi.
Dietro   all’apparente   normale   presepe   si   cela   infatti   un   mondo   abituato   ad attendere per un anno prima di manifestarsi e vivere, in quell’unico mese.

Un’unica   occasione   all’anno,   per   le   protagoniste,   per   potersi   esprimere,   per raccontare le proprie aspettative, i propri desideri e palesare i propri talenti segreti.

Un divertentissimo racconto dedicato al bisogno, celato in ognuno di noi, di uscire dalle convenzioni e dai ruoli imposti.
Lo spettacolo, scritto e diretto dalla Direttrice Irene Carossia, è un omaggio al

Natale da una prospettiva altra, trascinante e dirompente, dove il fittissimo dialogo e l’alternarsi   costante   di   battute   e   di   ironia,   restituiscono   un   ritmo   straordinario all’opera, ricca di colpi di scena ed arcani interventi.

Cinque protagoniste determinate nella volontà di stravolgere, almeno per una volta, la logica umana imposta.

Perché ognuno di noi, nella vita, ha bisogno di esprimere liberamente se stesso, uscendo dall’obbligo del ruolo di statuina del presepe.

Straordinarie   e   bravissime   le   interpreti,   al   fianco   della   stessa   autrice   Irene Carossia vi sono Luisa Caglio, Laura Ferrario, Federica Nicotra, Stefania Venezian.

I   costumi,   ispirati   alla   tradizione   del   presepe   napoletano,   sono   creati   dalla costumista Anna Maria Mazzoni.
Un   nuovo   racconto,   un   nuovo   inizio,   un   divertimento   e   dei   sentimenti condivisi…venite a teatro!

 

GIOVEDI’     23 Dicembre ORE 20.00

Mostra “ETERNITA’”     WOMEN WAGE PEACE

340 4652962 /339 1624727/ 039 5988698

promozione@centroteatralevillamariani.eu 
      Biglietto € 10

www.centroteatralevillamariani.eu

Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani Via Don Carlo Buttafava, 54 – Casatenovo (LC)
Polo Teatrale ed Espositivo/Parco delle Sculture

 

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La storia umana è cosparsa del bisogno di condividere storie: storie che curano, che esorcizzano, che motivano, che incantano o spaventano, che consolidano le regole o le scardinano ma, sempre, storie che hanno il compito di far vibrare il sentire.

I racconti sono uno strumento potente della condivisione, nella loro brevità, infatti, si fanno velocemente scrigni di sapere.

“I 7 RACCONTI D’INVERNO” è uno spettacolo che si presenta al pubblico come un forziere, una scatola magica contenente sette piccoli, ma rari, gioielli da scoprire.

Ogni racconto è foriero di riflessioni, perché ricco di sentimenti profondi che appartengono, anche quando inascoltati, alla vita di ognuno.

Sette sguardi sul tema del Natale, che offrono prospettive differenti fra sentimenti, storia e invenzione poetica.

Il pubblico si trova come di fronte a sette porte di accesso ad altrettante stanze, all’interno delle quali mutano i colori, i protagonisti, le epoche, le occasioni della vita, ma sempre, in ogni luogo del racconto, vibra l’umanità.

Il gioco scenico, che accompagna il pubblico attraverso la narrazione, è reso emozionante dall’ausilio della suggestione della scenografia e, tuttavia, a farla da padrone è la voce.

 La voce della narratrice, capace di modulare se stessa per far risplendere le luci interne alle singole storie.

La voce narrante che diviene, alla fine di ogni racconto, la melodia di un canto.

Canti antichi che appartengono alla memoria di tutti, canti condivisi nell’immaginario creato da ogni racconto.

In scena Irene Carossia da sola, capace di assolvere con maestria al ruolo di guida, scivolando da un luogo all’altro della narrazione, da un tema all’altro dell’importante tessuto musicale.

Ad accrescere la magia dello spettacolo gli splendidi costumi della costumista Anna Maria Mazzoni, protagonisti dell’incanto creato.

Uno spettacolo per entrare con emozione nel mese di dicembre, ritrovando la pienezza dei sentimenti e della verità umana, ma anche della bellezza del teatro.

 

I 7 RACCONTI D’INVERNO
Di e con IRENE CAROSSIA
                                                                                                                     

Costumi Anna Maria Mazzoni
Audio Lorenzo Rivolta,

Luci Valerio Villano

 

VENERDI’ 10 Dicembre ORE 20.00
SABATO 11 Dicembre ORE 20.00
DOMENICA 12 Dicembre ORE 16.00

 Mostra “ETERNITA’”
WOMEN WAGE PEACE

PRENOTAZIONE
340 4652962 /339 1624727/ 039 5988698
promozione@centroteatralevillamariani.eu

Biglietto € 10

 

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Spettacolo
“ATTRAVERSO IL TEMPO”

Di Irene Carossia
Compagnia Stabile Carossia
Mostra “ETERNITA’”
Dedicata al Movimento
WOMEN WAGE PEACE

Presso il Centro di Ricerca e Sperimentazione Teatrale Villa Mariani la Compagnia Stabile Carossia porta in scena lo spettacolo ATTRAVERSO IL TEMPO, ispirato al tema dell’ETERNITA’ tema che, dall’inizio del mese di novembre, è raccontato anche nello Spazio Espositivo …

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DONNE DI PALESTINA

Scritto e diretto da Irene Carossia che vede in scena la Compagnia Stabile Carossia.
La storia della Palestina vissuta attraverso gli occhi ed i racconti di cinque sorelle che si ritrovano ancora una volta insieme.

 

 

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“SPIRTI D’AMORE”
I miti femminili di Dante
Mostra Fotografica: “LO SPAZIO PIENO”

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Le rubriche di Susanna Chicco

1° maggio…una Festa o una Vacanza?  

C’è un libro di Giovanni Capuano, intitolato ‘111 Errori di traduzione che hanno cambiato il Mondo’ che racconta come diverse credenze attuali sono solo il risultato di cattive interpretazioni di testi antichi, come l’idea delle 70 Hurì vergini che aspettano in cielo l’islamico martire, mentre Huri significa solo ‘uva fresca’; o che Mosè avesse 2 cornini come l’ha scolpito Michelangelo. Tra i possibili errori interpretativi, qualcuno afferma che nei testi originali San Giuseppe non fosse affatto un Falegname ma un ‘Maestro’ che insegnava l’arte di costruire abitazioni agli operai.

Beh, se fosse vero, pensate a quanta iconografia da cambiare sul personaggio…che giustifica comunque l’inserimento della festa di San Giuseppe lavoratore nella data del 1° maggio, la ‘Festa dei Lavoratori’. Oggi come oggi più che una Festa mi sembra, invece, una vacanza, ma non intesa nel senso comune di spasso e divertimento bensì proprio in senso letterale. Vacanza, infatti, deriva dal latino ‘vacuum facere’ cioè fare il vuoto, lo spazio tra periodi ‘pieni’ di lavoro; indica, quindi, una mancanza, come si evince dal termine comune ‘vacante’ cioè che manca.

E da qui il titolo, una considerazione sul fatto che questo 1° Maggio 2021 più che una Festa dei Lavoratori sia un momento di Vacanza = vera e propria Mancanza di lavoro per tante categorie, stroncate dal fermo provocato dalla pandemia di Covid.

Forse allora è meglio festeggiare il 1° Maggio con il suo altro nome: Calendimaggio, una ricorrenza gioiosa che, finchè è stato possibile, ha generato una serie infinita di Sagre e Feste in tutta Italia, con il Palo di Maggio spesso trasformato nel ‘Palo della Cuccagna’ e non solo. Famoso è il Calendimaggio di Assisi, con sfilate in costume d’epoca, ma anche i ‘Cantar Maggio’, le ‘Maggiolate’, il ‘Carlin di Maggio’e feste locali come la ’Galina Grisa’ e ‘Cantè j’euv’.

La Chiesa si è inserita anche qui, infatti in molte Sagre c’è una Messa o una Processione che tentano di mascherare il fatto che questa festa era una potente ricorrenza ‘pagana’, anche se questo spregiativo termine significa solo ‘popolare’ (deriva, infatti, dal latino ‘Pagus’ = Villaggio, per cui ‘pagano’ significa ‘degli abitanti del Villaggio’).

Ma pagana quanto, questa festa? Tantissimo. Già dal nome: Calendimaggio, derivato da ‘Calende’, un nome latino che indicava l’inizio di ogni mese (le Idi, per gli amanti dell’Enigmistica, erano a metà mese), e si capisce che si festeggiavano già presso gli antichi Romani, col nome di Floralia, feste licenziose e divertenti che celebravano il periodo della ricchezza vegetativa e di aumento della produzione agricola. Ma ai romani, si sa, piace festeggiare: solo in Maggio avevano anche le Lemuralia, le Ambarvalia, le Rosalia, le Targhelìe e scusate se ne dimentico altre.

Quello che si vede meno è che questa festa pagana del 1° maggio ha sempre preoccupato la Chiesa per la sua potenza nelle regioni del nord Europa, dove era conosciuta col nome di Beltane e di Valpurgisnacht. Ambedue feste dei fuochi (la parola Beltane deriva dal dio del Fuoco Belenos, conosciuto con altri nomi presso altri popoli come ad esempio Baal- Bel, che significa ‘Luce splendente’). Nella prima (anglosassone) si festeggiano (ancora oggi con colorate manifestazioni) le nozze tra la Regina di Maggio ed il Dio della Vegetazione, con danze simboliche in costume ed il fallico ‘Palo di Maggio’. Dunque feste pagane e ancora una volta legate al momento stagionale. Propria dei popoli germanici è invece la Valpurgisnacht = la Notte di Valpurga, citata anche da Goethe nel ‘Faust’, in cui la fertilità vegetazionale era festeggiata con danze notturne intorno ai fuochi….un Sabba di Streghe in cui la Chiesa ha inserito nell’11° secolo una propria festività, quella, appunto, di santa Valpurga, una Badessa cattolica del 750 circa.

Eh già, una data piena di sorprese, questo 1° maggio, come il mese stesso per altro, ricco di collegamenti con la dea greca Maja della fertilità, poi festa della Mamma, e quindi della Madonna, con storie abruzzesi di Majella, con la Mayflower (fiore di Maggio simbolo di speranza, nome della nave dei Padri Pellegrini in viaggio verso l’America), con il May-Day (la richiesta d’aiuto che ha sostituito l’S-O-S anche per la sua facilità di pronuncia) e tanto altro ancora.

E quindi, auguri per il Primo Maggio, festa di quello che volete. Per me, una festa anticipata del 2 Giugno, festa della Liberazione: finalmente mi sono vaccinata contro il Covid: una liberazione!!!!

 

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San Giorgio a Paneropoli           

Oggi,  23 Aprile, per la Chiesa ambrosiana, è la festa di san Giorgio. E ci sta, parliamone, è imminente. Ma Paneropoli? È forse una storpiatura della Paperopoli dei Topolini disneyani della nostra giovinezza? No, non c’entra, anzi, sarebbe meglio dire, la gh’entra no.

Questa storia inizia con Ugo Foscolo, la cui opera, l’Ajace, viene rappresentata a Milano nel 1811. Opera aulica, durante la quale l’eroe si rivolge agli abitanti di Salamina con un possente ‘Oh salamini….   I Milanesi non resistono: le risate arrivano all’orecchio dell’autore, che si sente offeso, e per vendicarsi da quel momento chiamò la città di Milano PANEROPOLI.

Già, ma che vuol dire? E perché dovrebbe essere dispregiativo? Paneropoli significa Città della Panéra = la Panna, quindi i Milanesi sono dileggiati perché mangiano la Panna. A me piace la panna, da piccola mi chiamavano spesso Susanna tutta Panna; i bambini non sono maliziosi, era ok per me.

Ma la Storia insegna. In quel periodo, era tradizione a Milano comperare latte e panna dagli ambulanti che portavano casa per casa il latte delle Bergamine (le mucche bergamasche stallate a Milano e dintorni). E la ricorrenza di San Giorgio era festeggiata con la PANERADA, una colazione a base di panna, la Panéra in milanese, accompagnata dal Pan Mejno, un pane povero fatto con farina di Miglio (il Mej) aromatizzato con i fiori di Sambuco. Oggi il Pan Mejno è diventato un dolce zuccherato, in cui la farina di miglio è scomparsa, sostituita dalla semola di Mais, mentre rimane l’ingrediente del Sambuco (ma purtroppo temo che ormai invece dei fiori inseriscano l’industriale ‘aroma naturale di sambuco’).

Rimane da capire perché la Panerada sia una tradizione del giorno di San Giorgio. Le possibili motivazioni sono tre. La prima riguarda la fioritura del Sambuco, necessaria per il Pan Mejno, che avviene a fine Aprile inizio Maggio. La seconda motivazione riguarda la Panéra: il giorno di San Giorgio era la data del rinnovo dei contratti delle forniture di latte e panna per Milano con i produttori ed i conduttori delle stalle. La terza motivazione ricorda un momento storico: come san Giorgio sconfisse il Drago, così Luchino Visconti (non casualmente con uno stemma a base di Drago-Biscione), nel 1339 catturò il brigante Vione, un ex soldato di truppe già sconfitte, che con i suoi accoliti depredava i contadini del milanese. Leggenda dice che i Casari di allora ringraziarono offrendo Panéra e Pan Mejno alle truppe viscontee nella zona della cattura, dove ‘morì Vione’ = il quartiere milanese di Morivione.

Bello, bellissimo. Mi piacciono queste storie, sembrano fiabe ma è il nostro passato, da cui si impara sempre qualcosa. Ma continuo a non sentirmi per nulla offesa di aver vissuto per anni a Paneropoli. Il signor Foscolo dimenticava che i Celti fondatori di Milano appartengono alla stessa etnia dei Galati = i ‘bevitori di latte’ che sono arrivati fino al nord della Grecia. E chissà se Foscolo, nella sua Zante natìa, ha mai mangiato la tipica locale Moussakà, a base di besciamella?

 

 

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L’importanza di chiamarsi …       

Immagino che molte persone abbiano avuto occasione di leggere o vedere l’opera di Oscar Wilde ‘L’importanza di chiamarsi Ernesto’, di cui ricordo in particolare un gradevole film omonimo del 2002 ottimamente recitato da Colin Firth e Rupert Everett.

Un titolo curioso. E mi sono sempre chiesta se avere un nome o un altro può fare differenza nella vita. Non è una domanda isolata, visto che se l’è posta anche Shakespeare che fa dire alla sua Giulietta: ‘Che cos’è un nome? La rosa avrebbe lo stesso profumo anche se la chiamassimo in un altro modo’. E gli antichi romani ci credevano proprio, all’importanza del nome, coniando il modo di dire ‘Nomen Omen’, cioè ‘un nome un destino’. E ho verificato che, effettivamente, il nome può avere una rilevanza fatale, proprio nel significato etimologico del termine: il nome può determinare il Fatum (il destino).

E infatti, facendo una ricerca su un racconto che mi interessava, ‘Der Goldne Topf’ = Il vaso d’oro, mi sono imbattuta nel nome, anzi, nel cognome HOFFMANN. Leggendo la biografia dell’autore di quel racconto ho scoperto una personalità vivace ed esuberante, con capacità di un incredibile eclettismo. Ernst Theodor Amadeus HOFFMANN (1776-1822) è stato un tedesco storicamente importante che nei suoi soli 46 anni di vita è riuscito a fare un sacco di cose.  È stato scrittore, pittore, compositore, oltre che giurista e disegnatore e critico. Considerato da molti un esponente di spicco del Romanticismo tedesco, con le sue numerose, creative e fantasiose opere ha ispirato altre conosciute figure storiche come Allan Poe, Fëdor Dostoevskij, Puskin, Pirandello. Il suo racconto ‘Schiaccianoci e il re dei topi’ ha ispirato l’analoga Fiaba di Andersen e il famosissimo balletto di Ciajkovskij. I personaggi delle sue composizioni musicali hanno ispirato musicisti come Schumann; il suo melodramma ‘Undine’ ha stimolato la nascita della fiaba di Andersen ‘La Sirenetta’ e analoghe pellicole: di Disney nel 1989 e i due ‘Undine’ di Benjamin Lacombe (2013) e di Petzold (2020). Il suo racconto ‘Il Mago Sabbiolino’ ha ispirato il compositore Jacques Offenbach (I racconti di Hoffmann), il film ‘Metropolis’, il balletto di ‘Coppélia’ e persino il gruppo heavy metal dei Metallica (Enter Sandman).

E tutto questo condito con una vita amorosamente intensa e scapestrata e comportamenti spinosi per l’elite dell’epoca: le sue caricature satiriche gli hanno creato diversi problemi. Insomma, questo HOFFMANN è sicuramente stato una persona con una vita significativa per sé e gli altri.

Ma poi ho trovato altri suoi più o meno contemporanei quasi altrettanto tosti …e tutti di cognome HOFFMANN. Tra loro, il tedesco Heinrich Hoffmann (1809 –1894) fu medico e direttore dell’ospedale psichiatrico di Francoforte, mentore di Alois Alzheimer. Ma la sua fama è derivata dalla sua produzione letteraria di racconti per l’infanzia, famosi come quelli di Grimm, tra cui quel ‘Pierino Porcospino’ pubblicato più di 562 volte e tradotto in tutte le lingue.

Tra i musicisti ho trovato un compositore tedesco di nome Heinrich Karl Johann HOFMANN (1842 – 1902) autore di una famosa versione di una saga islandese, la ‘Frithjof’ Symphony in F maggiore, Op. 22, una delle più rappresentate nei teatri europei alla fine del XIX secolo. E tra i Pittori c’è il tedesco Johann Michael Ferdinand Heinrich HOFMANN (1824 –1911) conosciuto per i suoi numerosi dipinti raffiguranti la vita di Gesù Cristo, zio di un altro intenso pittore tedesco, Ludwig von HOFMANN.

E che dire di Josef Casimir HOFMANN (1876- 1957)? È stato un musicista, compositore, insegnante di musica e inventore polacco americano. La sua bravura di pianista (a sette anni suonò a Varsavia il ‘Concerto per pianoforte in do minore di Beethoven’) impressionò moltissimo Rubinstein e Rachmaninoff, ma anche Schonberg e Sandòr.  Eclettico e produttivo, oltre alla sua impronta in ambito musicale ha lasciato oltre 70 brevetti. Tra le sue invenzioni, ammortizzatori pneumatici per auto e aeroplani, un tergicristallo, una casa che girava con il sole, un dispositivo per migliorare i ‘rotoli per pianoforte’ (registrazioni di partiture pianistiche su lamine perforate) e altro ancora.

Significativa per la sua epoca fu poi anche la figura di Josef Franz Maria HOFFMANN (1870 –1956), uno dei maggiori architetti del Secessionismo austriaco e precursore dell’Art Decò, il cui capolavoro fu il Palazzo Stoclet di Bruxelles, un edificio in Art Noveau decorato con ‘l’Albero della vita’, una colorata e importante opera di Gustav Klimt.

E che dire poi del Felix HOFFMANN che nel 1946 ha inventato l’Aspirina, un farmaco di importanza mondiale?

Che dire …. sarà una coincidenza che tutti questi personaggi interessanti e dalla vita significativa si chiamino HOFFMANN, che, tradotto dal tedesco, significa ‘Uomo della Speranza’ ? Probabilmente la risposta è sì, anche se gli esempi lasciano veramente il dubbio che da donne e uomini con nomi significativi possano derivarne azioni corrispondentemente significative. E sull’onda di questo pensiero, in questo momento calamitoso, colmo di problemi sanitari ed economici, fantastico di azioni da gigante e soluzioni grandiose risolutive …. in fin dei conti, a capo del nostro Governo ora c’è un Drago.

 

 

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Leggere è una malattia      

Non comprate libri, non regalateli, e soprattutto non leggeteli. Sono causa di grave malattia. Voi credete che un romanzo avvincente o un saggio pastoso siano innocui e piacevoli. Invece no. Sono veicoli falsamente innocenti di una grave sindrome che vi può provocare guai.

Ci infettiamo da piccoli, ed il Virus letterario entra nel nostro corpo con ‘Carneade chi era costui’ di scolastica manzoniana memoria, o forse anche prima, leggendo Alice e correndo con la mente dietro al Cappellaio matto. Ormai è fatta. Infettati. Molti, la maggioranza, sono momentaneamente positivi e senza sintomi, salvi. Altri manifestano deboli sintomi: si iscrivono ad una biblioteca…ma poi tutto finisce lì. Ma per altri ormai è la fine. Forse dipende anche dalla predisposizione genetica, o dal gruppo sanguigno…chissà.

Ma la Malattia è ormai conclamata. E si comincia a leggere, importando nella scatola cranica, che, si sa, è piccola, scenari grandiosi, storie mirabolanti con sviluppi impensati, centinaia di parole frasi concetti e strutture sintattiche che sbloccano passaggi segreti nel cervello.

Eccoci lì, con amici, mentre uno di loro pronuncia la frase ipnotica ‘ma sì, aspetta, come si dice…ho la parola sulla punta della lingua’. Ed è fatta. La malattia, come la Malaria, con febbre terzana o quartana che sia, si manifesta a tratti….…e l’occhio si fissa nel nulla, la bocca rimane semiaperta…

Ed  entri, attraverso la porta del ‘Giardino Segreto’ della Burnett, nel paese di Narnia di Lewis, anzi meglio, di Flatlandia di Abbott, correndo dietro al Vocabolo che scappa. E tu lo rincorri, mentre comincia il sottofondo musicale del ‘Bolero’ di Ravel, lungo l’argine del Fiume della Retorica dove sulle panchine attempati Aforismi corteggiano affascinanti Metafore. E mentre corri piccole preposizioni articolate sfrecciano tra le tue gambe creando disordine e facendo inciampare rigidi Paradigmi che discutono inutilmente con cristallini Assiomi. Passi davanti a vetrine di Allegorie, Ossimori ed Iperboli….mentre il Bolero si fa sempre più assordante. Finchè arrivi al Palazzo degli Etimi, passi nella sala dei Malapropismi dove commessi ‘obesi’ di lavoro cercano gli occhiali ‘da preside’ di Totò, e sbuchi nella sala delle Apofenie dove giganteggia un Mosè con le corna di Michelangelo, e infine in quella delle Pareidolie dove giochi di luce mostrano oggetti inesistenti. Eccolo là il Vocabolo, l’hai quasi preso…quando lui scompare come lo Stregatto, in un fragoroso finale del Bolero mescolato con quello di ‘Una notte sul Monte Calvo’ di Musorgskij.

Sei lì, ti chiamano, bocca semiaperta, sguardo da ebete, dopo un attacco che un Hippy descriverebbe come un eccesso di LSD: ti sei perso il resto del Gossip degli amici, non hai vuotato la spazzatura, non hai gustato l’ennesima parola di verità del politico di turno al TG. Figura da fesso.

Ripeto, leggere fa male, meglio accontentarsi di una sindrome da Covid: non è difficile, basta non vaccinarsi.

 

 

 

Il ‘Farmaco’, un termine ricco di storie 

In questi tempi in cui la parola ‘Vaccino’ continua a rimbalzare, riflettevo sul fatto che questo vaccino antiCovid possa essere ritenuto un Farmaco. Ovviamente si, dal punto di vista del significato, visto che un farmaco è qualcosa che elimina uno stato di sofferenza/malattia o che stimola il sistema immunitario a difendersi. Anche se, più propriamente, il Vaccino previene soltanto la malattia, mentre il Farmaco la cura.

E mi sono ricordata la ricchezza di notizie che il termine Farmaco contiene, scoperta mentre preparavo alcune lezioni per il mio corso sui Miti degli Alberi: una storia molto intrigante.

Pare che nella antica Atene (e poi anche in altre zone della Grecia) esistessero delle ricorrenze religiose dette Targhelìe, in onore del Dio Apollo, durante le quali veniva eseguito un rito particolare. Due persone, scelte tra i condannati o volontari (sempre condannati, ma garantiti di buon mantenimento e vitto fino alla cerimonia) venivano denudati, adornati con collane di fichi secchi e portati in processione fino al mare, fustigandoli nel tragitto. Successivamente, venivano lapidati ed uccisi, bruciati e le loro ceneri sparse in mare (secondo altri autori del tempo semplicemente imbarcati ed espulsi dalla Grecia). I due malcapitati venivano detti PHARMAKÒI, ed erano lo strumento rituale per allontanare ed eliminare simbolicamente malattie contagiose presenti e future. Erano, quindi, capri espiatori, altro termine interessante che svela lo stesso rito svolto similmente altrove, ma con l’uso di animali invece che uomini.

L’origine della cerimonia è storicamente controversa. Per alcuni autori ricorda la storia del greco Pharmakos che aveva rubato dell’Olio sacro ad Apollo. Fu catturato da Achille e lapidato a morte, ovviamente per evitare le ire del Dio solare che avrebbe potuto inaridire col calore la Terra, causando malattie.

Secondo altri autori è la rievocazione di un evento mitologico: la storia di una pestilenza mandata ad Atene da Zeus per soddisfare il desiderio di vendetta del re cretese Minosse che pretese, per farla cessare, l’espulsione ed invio di giovani Ateniesi per nutrire il figlio Minotauro. Come dire, dei ‘Farmaci’ contro la pestilenza, in forma umana.

Quindi il PHARMAKOS è qualcosa che guarisce, che elimina malattie, in particolare le pestilenze. Quindi il Vaccino antiCovid si merita a tutto tondo l’appellativo di farmaco. Rimane il pensiero di quale ‘Farmaco’ potremmo aver bisogno per eliminare tutti i guai sociali ed economici che la pestilenza sta causando. Oltreoceano la democrazia americana ha cambiato direzione con l’espulsione di un Pharmakos dal ciuffo biondo. I recenti avvenimenti nostrani raccontano che nelle stanze del Potere qualcuno ha già tentato di identificare un altro Pharmakos da espellere per avere un governo migliore sulla Res Publica italiana.

Come diceva Alessandro Manzoni….’Ai posteri l’ardua sentenza’

 

 

 

Gli Eventi del Venti e Venti   

Ho letto un libro, tempo fa, intitolato ‘Requiem per il Celacanto’, di Christine Adamo. Si tratta di un romanzo imperniato intorno ad una creatura, il Celacanto o Latimeria, un pesce oggi quasi estinto, anche a causa della ricerca che ne è stata fatta per vendere ad alto prezzo gli esigui esemplari trovati a studiosi di Evoluzionismo. Di questo pesce, infatti, erano stati trovati solo resti fossilizzati, e lo si riteneva l’elemento evolutivo intermedio tra Pesci ed Anfibi. Gli studi sui pochissimi e preziosi esemplari pescati vivi dal 1938 in poi hanno svelato che questi animali sono Pesci ‘diversi’, gloriosi fossili viventi risalenti a 400 milioni di anni fa. Una scoperta scientifica che ne ha quasi provocato la fine, da cui il ‘Requiem’.

Ma il 2020, l’anno che se ne va, non merita affatto un Requiem, ma l’oblio eterno. Di questo anno non riesco a trovare elementi positivi, un’annata che il termine duemila non se lo merita proprio: al massimo lo possiamo chiamare l’anno 20 e 20. Un anno che i profeti della ’Fine del Mondo’ avrebbero potuto scegliere: bastava osservare la posizione delle lancette dell’orologio sulle 20 e 20, che dividono lo spazio in tre ‘magici’ spicchi identici. Anche la Dottrina Pitagorica dei numeri, che valutava i numeri pari come ‘imperfetti’ , avrebbe potuto sicuramente segnalarcelo.

E invece ce lo siamo goduto tutto, con tutta la sua portata sanitaria, economica, sociale e personale. Sono sicura che tutti noi abbiamo attribuito allo sfortunato 20 e 20 anche tutte le piccole e medie sventure che di solito sono fisiologiche: una scottatura, una multa, un oggetto perso, etc. E con il terremoto lombardo di metà dicembre il 20 e 20 ci lascia col botto ad aspettare un 2021 che si prospetta ancora difficile.

Che fare? Proporrei di evitare Catastrofismo, Negazionismo, Complottismo: ricordiamo di questo anno quel che è stato bello, una nascita, una guarigione, la bella cometa Neowise e la congiunzione Giove Saturno. E prepariamoci ad accogliere con gratitudine il grande regalo di quest’anno, frutto di scienziati, finanziatori e studiosi capaci.

Farci somministrare il vaccino anti-Covid sarà per tutti non solo una tutela personale, ma un segnale che abbiamo capito che la contiguità con persone, parenti ed amici, che ci è tanto mancata, è mantenibile solo con una corretta scelta sociale nei confronti degli altri;  soprattutto di coloro che, affetti da patologie o da estrema giovinezza, non possono farlo.

 

 

 

Non è vero ma ci credo  

Possiedo ben due libri con questo titolo: ‘Non è vero ma ci credo’. Uno è di John Brockman, del 2005, ed è una raccolta di interviste a personaggi americani di varia professionalità sul tema. Il secondo, più semplicistico, è un libro del 1991 di Hy Ruchlis e racconta una serie di situazioni in cui l’umanità si è rivelata una massa di ‘creduloni’ acritici.

In ambedue i casi la tematica è interessante. Non nuova in verità. Già Lewis Carrol, nel suo libro del 1871 ‘Attraverso lo Specchio’ aveva fatto pronunciare alla Regina Bianca la frase ‘Io posso credere fino a 6 cose impossibili prima di colazione’. Una frase piaciuta anche ad Agata Christie, che l’ha introdotta più o meno uguale nel suo giallo ‘Istantanea di un Delitto’ del 1957.

Ora, aldilà del concetto di credere qualcosa prima di colazione (consiglio il delizioso libro del 2006 di Lewis Wolpert ‘ Sei cose impossibili prima di Colazione’), la questione apre panoramiche interessanti.  Dalla filosofica ‘è meglio credere o sapere la verità?’ alla scientifica ‘meglio sapere che credere’, alla religiosa ‘meglio credere che sapere’ e, last but not least, alla matrimoniale ‘meglio sapere o far finta di credere?’.

Giochi mentali o no, la verità è che sapere, conoscere una verità, è sempre difficile, soprattutto ai giorni nostri dove il massiccio afflusso di informazioni da ogni canale rende veramente faticoso identificare le fonti corrette da quelle false.

Ma ci sono situazioni in cui questo sforzo, diciamo così, intellettuale, dovrebbe essere sicuramente esercitato, specialmente quando ne va della vita, nostra e di altri. Come quando, dopo un coro di negazionisti irresponsabili, ho cominciato a sentire ‘voci’ sui vari Social Media che il Vaccino antiCovid è nocivo, non testato a sufficienza, e che chi l’ha già fatto è già ‘intubato’.

Un minimo di conoscenza scientifica basterebbe per ricordare che molti dei medicinali, dei cibi e dei vaccini che usiamo da più di venti-trenta anni (e con tecniche sicuramente meno raffinate di oggi) è stato ottenuto con lo scopo preciso di migliorare la Vita dell’Uomo, come è poi avvenuto. Malgrado le solite ostilità dei colpevolmente meno informati, a caccia di sensazionalismo e notorietà. Ai tempi del primo vaccino anti-vaiolo giravano vignette satiriche con persone trasformate in vacche (il termine ‘Vaccino’ deriva dalle osservazioni di Jenner sulle vacche che non si ammalavano se avevano contratto forme lievi del Virus).

Tutte queste Fake News che ostacolano la nostra già difficile uscita dal Tunnel virale non solo non dovrebbero essere credute, ma neppure diffuse, una attività che alimenta solo il pensiero che la nostra sia la Specie più stupida apparsa sulla terra……  Sarà vero? Dai, non è vero, però mi viene da crederci……oppure……non ci credo, ma è vero! uindi tutte queste Fake

P.S. Consiglio a tutti l’ottimo articolo sulla storia dei Vaccini a questo indirizzo WEB:     https://ilbolive.unipd.it/it/news/dal-vaiolo-poliomielite-vaccini-storia

 

Un Natale al tempo del Covid                 

La parola Natale mi evoca l’immagine di una di quelle grandi cattedrali gotiche erette nel Medioevo, come quella raccontata ne ‘I Pilastri della Terra’ di Ken Follett. Un edificio creato dall’Uomo per i bisogni dell’Uomo, un luogo di attività sacre con un contorno di attività profane lucrose per l’arrivo dei pellegrinaggi religiosi, un commercio di cose e attività che arricchiva le città sedi di queste grandi costruzioni. Per confronto, altre feste come Tutti i Santi o la Festa della Liberazione o Ferragosto mi evocano per analogia piccoli Santuari regionali con annessa Sagra popolare.

Una curiosa confusione tra un Tempo (il periodo temporale del Natale) un Oggetto (la Chiesa), ma anche una più che vistosa sovrapposizione della connotazione commerciale con quella sacrale: una sensazione che forse anche altre persone possono condividere emotivamente.

Abbiamo sentito raccontare che il lock down primaverile ha tarpato le ali alla produzione e vendita di Uova di Pasqua e Colombe e quant’altro, e l’impressione attuale è che le preoccupazioni mediatiche riguardo al Natale siano perlopiù legate alla sicura flessione dei consumi e dei regali, con conseguente peggioramento della nostra economia.

Mentre invece la nostra perdita è ancora una volta la mancanza dell’esercizio di quella socialità innata nella nostra specie che ci spinge a condividere fisicamente i passaggi grandi e piccoli della nostra vita, da un compleanno ad una conferenza, da un gioco di squadra a un rito religioso. Ed è questa perdita che dobbiamo accettare, almeno momentaneamente, esercitando una intelligenza superiore a quella di un virus che ha capito da tempo che proprio questa nostra esigenza, la socialità, è il suo punto di forza per espandersi e vincere.

Quindi pazienza, inutile arrabbiarsi o ‘forzare le regole’ del buon senso. Biologicamente so che se tutti, ma proprio tutti, potessimo stare immobili per soli 15 giorni, il virus sparirebbe in tutto il mondo di colpo. Spettacolare ed impossibile. Ma se vogliamo essere più furbi del Virus la storia è solo questa: se ci troviamo, ci abbracciamo, e seguiamo i noti passi delle festività, avremo perso contro un piccolo mucchio di nanocentimetri genetici che ci terrà ancora sotto scacco per molto tempo ancora.

 

 

 

Il mio piccolo Elzeviro                 

Tempo fa ho letto un libro, ‘Il pollice del Panda’, dell’evoluzionista Stephen Jay Gould, in cui lui sostiene la Teoria degli Equilibri punteggiati. Detta in modo semplificato, la teoria dice che in Natura la selezione di nuove specie di Viventi è stata causata da eventi ‘puntiformi’, cioè globali, veloci (relativamente ai tempi geologici) ed improvvisi, nei quali sopravviveva chi aveva maturato le capacità necessarie per la nuova situazione.

Ora siamo di fronte ad un evento, la pandemia virale che causa il Covid 19, che non ha sicuramente la portata e la grandezza di uno degli eventi elencati da Gould (per esempio una aridità climatica globale o una carestia totale) ma che per la sua velocità nel cambiare la vita dell’Uomo ha oggi una notevole somiglianza.

E quindi, per uscirne, dovremmo avere sviluppato nel tempo le qualità che ci consentano di superare questo periodo. E non mi riferisco alla creazione di un vaccino che ci protegga, né alle disposizioni governative che proteggano la nostra economia.

Dovremmo avere sviluppato quelle caratteristiche che l’Evoluzione ha sempre premiato, e cioè la Flessibilità, la Resilienza e la Collaborazione, come quelle di un boschetto di Bambù che si piegano comprendendo ed adattandosi alla forza della tempesta per poi tornare a stare in piedi.

L’impressione, invece, è che le nostre caratteristiche non siano quelle giuste. Siamo come grandi superbe Querce isolate che urlano la loro forza e la loro opposizione alla tempesta che, ovviamente, le abbatterà. Parlo dell’aggressività con cui persone e gruppi si accaniscono cercando ‘colpevoli’ di scelte e decisioni, parlo della protervia e stupidità dei negazionisti, della miope competizione politica, ma soprattutto parlo della mancanza dello spirito critico, cioè di quella capacità culturale che ci consente di distinguere, in autonomia, il vero dal falso nella immensa paccottiglia mediatica di informazioni in cui ci hanno sommersi.

Purtroppo questa capacità si sviluppa solo con l’aumento delle nostre conoscenze (che non è l’aumento dei ‘dati’) soprattutto scientifiche che, per formazione scolastica o necessità lavorativa, tantissimi di noi non hanno. Speriamo, quindi, che presto ci siano le condizioni per tutti noi di riprendere il nostro percorso di ‘crescita’ con ACU per ottenerle e sopravvivere a questo e ad altri eventi uscendone migliorati.

 

 

STIAMO ASSIEME AI TEMPI DEL “COVID”

Nel 1985 il Nobel per la letteratura Gabriel Garcia Marquez scrisse “L’amore ai tempi del Colera”, uno dei suoi molti lavori. Personalmente, preferisco di gran lunga la sua opera maggiore ‘Cent’anni di solitudine’ del 1962, con cui è diventato famoso in tutto il mondo, tuttavia il titolo del romanzo del 1985 evoca istantaneamente la nostra attuale situazione…quindi, “Stiamo assieme ai tempi del Covid”.

Infatti, come dicevano i Latini…”Mala tempora currunt”, cioè siamo in un brutto periodo. E per alleggerirlo un po’ noi dell’ACU abbiamo pensato come stare vicini agli affezionati frequentatori dei nostri Corsi a cui non possiamo ancora offrire la possibilità di trovarci assieme fisicamente.

In questa rubrica, ed in Facebook, pubblicheremo piccoli articoli dei nostri docenti, molti dei quali hanno già pronti i Corsi che avrebbero dovuto iniziare quest’anno. Non è molto, ma l’obiettivo è sempre quello di offrire occasioni di pensare, stimolare curiosità, creare condivisione di conoscenze.

Speriamo così di mantenere i contatti e di intrattenere tutti coloro che ci hanno seguito finora in ACU, e soprattutto di smentire la pessima versione ulteriore del detto latino precedentemente citato: “Mala tempora  currunt  sed  peiora  parentur”, cioè corrono brutti tempi, ma se ne preparano di peggiori.

Rubrica Cinema di Giulio Fedeli e Maurizio Fantini


Data:             Martedì 17 Maggio 2022
     Ore:               14:15
     Canale TV :  IRIS (canale 22)

 ASFA LTO  CHE  SCOTTA
( C L A S S E    T O U S    R I S Q U E S )

 F R A N C I A  1960 – Regia:  C L A U D E   S A U T E T

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Data:             Giovedì 12 Maggio 2022
Ore:               15:50
Canale TV :  RAI MOVIE (canale 24)

U N A   S T R E G A   I N   P A R A D I S O
( B E L L,   B O O K   A N D   C A N D L E ) –  U.S.A.   1958
Regia:  R I C H A R D    Q U I N E

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Data:             Martedì 3 Maggio 2022
Ore:               15:10
Canale TV :  IRIS (canale 22)

I L    C O M M I S S A R I O    P E L I S S I E R
(M A X    ET    L E S    F E R R A I L L E U R S)

Regia:   CLAUDE   SAUTET – Francia,  1971

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Data:             Giovedì 14 Aprile 2022
Ore:               21:30
Canale TV :  LA 7D (canale 29)

QUEL  CH

E  RESTA  DEL  GIORNO
 (T H E    R E M A I N S    O F    T H E    D A Y)

 G B / U.S.A.   1993 – Regia:  J A M E S    I V O R Y

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Data:             Giovedì 7 Aprile 2022
Ore:               21:10
Canale TV :  TV 2000

EST OVEST Amore e libertà  (E S T – O U E S T)
Regia:  RÉGIS  WARGNIER
co-produz.  Russia/ Ucraina/ Bulgaria/ Spagna/ Francia,  1999

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Data:             Martedì 29 marzo 2022
Ore:               21:20
Canale TV :  canale 5 – (505 HD)

I L     D I A V O L O    V E S T E    P R A D A
( T H E    D E V I L    W E A R S    P R A D A )

U.S.A. 2006 – Regia:  D A V I D    F R A N K E L

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Data:             Mercoledì 23 marzo 2022
Ore:               16:45
Canale TV :  RETE 4 – (504HD)

I L    V I Z I E T T O
( L A    C A G E    A U X    F O L L E S )

FRANCIA – ITALIA,  1978   –   Regia:  ÉDOUARD  MOLINARO 

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Data:             Domenica 20 marzo 2022
Ore:               17:00
Canale TV :  RETE 4 – (504HD)

R A N C H O   N O T O R I U S
U.S.A. 1952  –  Regia:  F R I T Z   L A N G

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Data:             Giovedì 17 marzo 2022
Ore:               17:20
Canale TV :   IRIS – CANALE 22

F A N D A N G O
U.S.A.,  1985   –   Regia:  KEVIN  REYNOLDS

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 Data:             Martedì 15 marzo 2022
 Ore:               16:35
 Canale TV :   RETE 4 – (504HD)

L’ALBERO DEGLI IMPICCATI
(THE HANGING TREE) – U.S.A. 1959 – Regia: DELMER DAVES

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Data:             Martedì 8 marzo 2022
Ore:               21:10
Canale TV :   RAI MOVIE – (canale 24)

C O M E    E R A V A M O  (THE  WAY  WE  WERE)
U.S.A.,  1973   –   Regia:  SYDNEY  POLLACK

Sapete  quanto  ci  teniamo  ad  affiancare  alle  osservazioni  riguardanti  propriamente  la  Storia  del  Cinema,  riflessioni  pertinenti  la  Critica  Cinematografica.  Sottolineando  quanto  il  Critico  dovrebbe  – un  po’  alla  maniera  dei  conoscitori  delle  arti  figurative –  individuare  subito,  con  occhio  infallibile,  autori  e  film  importanti  da  ciò  che  non  lo  è.  Ripetiamo:  subito,  non  dopo  anni  o  decenni.  Laddove  succedesse,  è  evidente  che il  discorso  si  situerebbe  su  un  altro  piano,  e  soprattutto  la  cosa  andrebbe  riconosciuta  apertamente.  L’esempio  più  trasparente  riguarda  – in  Italia –  il  caso  di  Douglas  Sirk.  Chi,  da  noi,  riconobbe  subito  l’importanza  di  Secondo  amore  o  Lo  specchio  della  vita

Ora,  durante  la  stagione  cinematografica  1973/74,  uscirono  in  Italia  film  di  alto  o  altissimo  livello  di  cui,  tutto  sommato,  ci  si  occupò  adeguatamente:  Lancillotto  e  Ginevra  di  Robert  Bresson;  Amarcord  di  Federico   Fellini;  Sugarland  Express  di  Steven  Spielberg;  Allonsanfàn  dei  fratelli  Taviani… .  Film  di  altissimo  livello  di  cui,  colpevolmente,  non  ci  si  occupò  affatto:  La  rosa  rossa,  di  Franco  Giraldi !  Film  molto  modesti  di  cui,  colpevolmente,  ci  si  occupò  fin  troppo:  Jesus  Christ  Superstar,  di  Norman  Jewison;  L’esorcista,  di  William  Friedkin;  Il  viaggio  di  Vittorio  De Sica;  La  montagna  sacra,  di  Alejandro  Jodorowsky… .  In  mezzo  vi  furono  decine  di  titoli  – soprattutto  americani –  poco  o  nulla  capiti  e  scambiati  per  prodotti  commerciali  pro-botteghino  da  liquidare  in  due  righe.  C’erano  opere  di  qualità  assai  elevata  (Chi  ucciderà  Charley  Varrick?  di  Don  Siegel;  La  conversazione  di  Francis Ford  Coppola;  Paper  Moon  di  Peter  Bogdanovich…),  o  di  medio-buon  livello  (Il  lungo  addio  di  Robert  Altman;  Città  amara  di  John  Huston;  L’ultima  corvé  di  Hal  Ashby…).  Anche  il  nostro  Come  eravamo  fa  parte  di  questo  folto  gruppo:  ma  come,  un  film  con  il  bello  Robert  Redford,  e  Barbra  Streisand,  la  cantante  de  Il  gufo  e  la  gattina ?  E  invece  il  film  con  il  “biondo  era,  e  bello”,  e  la  canzonettista  da  145  milioni  di  dischi  venduti,  è  una  delle  riflessioni  più  ricche  sulla  recente  storia  americana!

Fra  chi  riconobbe  subito  (subito,  nel  1974!)  il  valore  di  Come  eravamo,  vi  fu  il  nostro  amato  Tullio  Kezich  (allora  46enne).  Eccolo  in  integrale:  « Non  eravamo  poi  tanto  diversi  da  questi  ragazzi  che  oggi  facciamo  finta  di  non  comprendere:  ce  lo  dice  il  regista  Sydney  Pollack,  un  quarantenne  che  parla  a  nome  degli  ultracinquantenni.  Tra  un  flash-back  e  l’altro,  la  vicenda  di  Come  eravamo  abbraccia  circa  tre  lustri:  dal  ’37  agli  inizi  degli  anni  Cinquanta,  cioè  dalla  vigilia  della  seconda  guerra  mondiale  alle  mobilitazioni  popolari  contro  la  bomba  atomica.  Sulle  vette  degli  incassi  americani  con  oltre  11  milioni  di  dollari,  il  film  è  un  tipico  prodotto  dell’operazione  nostalgia:  favoleggia  agli  spettatori,  con  toni  delicati  alla  Scott Fitzgerald,  di  un’epoca  dove  tutto  sarebbe  stato  meno  grossolano  che  al  giorno  d’oggi  (ma  Scott  diceva  le  stesse  cose  degli  anni  Venti,  scrivendone  nel  cuore  del  decennio  successivo).  Robert  Redford,  bello  e  dannato,  è  uno  scrittore  dottissimo,  troppo  arrendevole  ai  richiami  della  dolce  vita;  Barbra  Streisand,  bruttina  e  superimpegnata,  è  una  comunista  ebrea  che  ha  fatto  di  Roosevelt  il  suo  dio  e  crede  di  poter  cambiare  il  mondo.  Come  eravamo  è  la  cronaca  del  loro  incontro  e  dei  loro  scontri,  dalle  scaramucce  del  college  al  matrimonio  dopo  la  guerra,  per  finire  in  quel  cimitero  degli elefanti  (intellettuali)  che  una  certa  letteratura  ha  collocato  a  Hollywood.  Si  tratta,  però,  di  una  Hollywood  vista  per  la  prima  volta  senza  ipocrisie  negli  anni  della  caccia  alle  streghe.  Qui  dentro  c’è  materia  per  due  film,  di  cui  il  primo  (quello  che  arriva  alla  morte  di  Roosevelt)  sarà  certo  accolto  più  cordialmente  perché  tocca  temi  che  non  riguardano  solo  un’élite.  Però  tutto  lo  spettacolo,  animato  da  due  interpreti  stupendi,  ha  il  fascino  avvincente  delle  cose  riuscite;  e  la  figuretta  di  Barbra  – che  continua  a  strillare  i  suoi  slogan  democratici  nel  finale  amarognolo –  è  un  atto  di  fede  nella  continuità  dell’illusione.  E  (perché  no?)  un  invito  a  non  mollare.»

Il  maggior  esegeta  italiano  di  Sydney  Pollack,  è  stato  l’americanista  Franco  La Polla.  Chi  ci  tenesse  può  ancora  procurarsi  in  Rete  la  sua  preziosa  monografia  nella  collana  “Il  Castoro  Cinema”,  del  1978.  Vi  troverà  anche  illuminanti  indicazioni  bibliografiche  (non  per  l’aggiornamento è naturale,  ma  per  il  nostro  discorso).

Una  considerazione  conclusiva.  Qualcuno  potrebbe  obiettare:  sì,  ma  anche  voi  celebrate  adesso  – a  quasi  14  anni  dalla  scomparsa –  Sydney  Pollack;  quanto  a  Come  eravamo,  arrivò  in  Italia  ben  48  anni  fa!  Già,  ma  noi  lo  riconosciamo  apertamente,  facciamo  i  nomi  giusti,  e  poi  – soprattutto –  uno  di  noi  due,  nel  suo  piccolo,  può  vantare  titoli  di  merito  non  proprio  da  buttar  via.  Insieme  con  il  critico  Gian Carlo  Castelli,  pubblicò in tempi non sospetti,  uno  studio  dettagliato  – rimasto  abbastanza  raro… –  sul  film  forse  più  bello  e  meno  considerato  di  Pollack:  vale  a  dire  Ardenne  44:  un  inferno  (Castle  Keep,  1969)  in  rapporto  al  romanzo  d’origine  di  William  Eastlake.  E,  sempre  con  il  compianto  professore  bustocco,  si  diede  non  poco  da  fare  durante  qualche  anno  per  diffondere  la  conoscenza  (mediante  proiezioni  e  ricche  dispense  di  studio)  di  Questa  ragazza  è  di  tutti,  1966,  e  – soprattutto –  di  Yakuza,  1975,  ennesimo  capolavoro  pollackiano  con  Robert  Mitchum  su  sceneggiatura  di  Paul  Schrader ! 

Sydney  Pollack,  o  uno  specchio  grande  come  gli  Stati  Uniti  d’America.

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Data:            Lunedì 7 marzo 2022
Ore:              21:00
Canale TV :  IRIS – (canale 22)

A  HISTORY  OF  VIOLENCE
U.S.A. / CND-2005 – Regia: DAVID  CRONENBERG

[ Tutto  il  cinema  di  David  Cronenberg
– imprescindibile  dal  punto  di  vista  della  cultura  cinematografica –
non  è  adatto  ai  minori. ]

Guardate  bene  la  fotografia.  È  l’interno  dello  “Stall’s  Diner”,  cioè  di  un  luogo  di  ristorazione  tipicamente  americano  – qui  siamo  in  una  città  dell’Indiana,  nella  regione  del  Midwest –  gestito  da  Tom  Stall  (Viggo  Mortensen,  in  tranquillizzante  camicia  marrone  a  quadri).  Ci  sono  le  bottigliette  di  ketchup,  i  bollitori  con  il  caffè  caldo,  la  pubblicità  di  dolci  e  gelati.  C’è  qualcosa  di  più  normale,  di  più  ‘americano’ ?  Sembra  una  stampa  di  Norman  Rockwell,  l’autore  delle  copertine  del  “Saturday  Evening  Post”.  Osservate  ora  l’uomo  seduto  al  banco.  Camicia,  cravatta,  e  occhiali  scuri:  sorride  (un  sorriso  può  avere  molti  significati…),  sorride,  ma  la  sua  presenza  contribuisce  essa  sola  a  deviare  l’atmosfera  da  Rockwell  a  Edward  Hopper,  anch’egli  pittore  dell’american  way  of  life,  di  cui  – viceversa –  ha  sempre  sottolineato  la  solitudine  venata  da  aspetti  inquietanti. 

“Inquietante”,  ecco.  Quando  abbiamo  scelto  i  titoli  da  segnalare,  Maurizio  ha  affermato:  «… c’è  A  History  of  Violence,  film  inquietante  ma  molto  valido…».  Sintesi  tanto  semplice  nella  formulazione  quanto  indovinata  nel  caratterizzare  con  un  solo  aggettivo  il  film  medesimo.  Sì,  inquietante.  A  History  of  Violence  è  l’esatto  opposto  (180°,  un  angolo  piatto…)  dell’hitchcockiano  Delitto  perfetto,  di  cui  si  è  appena  parlato.  Il  titolo,  come  al  solito,  ci  dovrebbe  mettere  subito  in  allarme:  “una  storia  di  violenza”,  va  bene,  ma  se  lo    completassimo  con  il  verbo  to  have  avremmo  to  have  a  history  of  violence,  che  significa  avere  (alle  spalle)  un  passato  violento.  C’è  dunque  qualcuno  dal  passato  discutibile  nel  film ?  Vedi  come  è  la  vita:  si  tratta  proprio  del  gestore  del  diner  con  la  tranquillizzante  camicia  a  quadri  sceso  da  una  copertina  di  Norman  Rockwell.  È  lui,  celebrato  dalla  comunità  come  una  sorta  di  eroe  per  aver  sventato  una  rapina  nel  suo  diner,  a  far  scattare  il  segnale  d’allarme:  quale  è  davvero  il  passato  di  Tom  Stall ? 

La  domanda  se  la  pongono  per  primi  la  moglie  Edie  e  il  figlio  Jack  (ma  in  meno  di  un  secondo  essa  si  trasferisce  allo  spettatore):  che  cosa  succede  quando  una  moglie  e  un  figlio  i  quali  credevano  di  far  parte  di  una  famiglia  ‘perfetta’  (della  perfetta  famiglia  americana),  vengono  assaliti  dal  dubbio  che  il  rispettivo  marito e  padre  tiene  forse  nascosto  qualcosa  di  poco  edificante  intorno  alla  sua  vita  precedente  il  matrimonio ?  E  ciò  che  ha  detto,  ciò  che  dice,  è  una  menzogna,  oppure  vuole  davvero  proteggere  la  famiglia,  oppure… ?  Si  può  amare  (ancora)  una  persona  la  cui  history  sconcerta,  una  persona  che  forse  non  è  mai  esistita,  che  forse  non  esiste  nella  realtà ?  Della  trama  di  questo  splendido  film,  nulla  si  deve  rivelare:  segnaleremo  però  che  a  un  certo  punto  – a  proposito  di  legami  familiari –  salterà  fuori  anche  il  fratello  di  Tom  Stall  (ma  si  chiama  davvero  così ?).

David  Cronenberg  – diciamolo  chiaramente:  è  un  regista  difficile,  complesso –  non  ha  mai  esitato  a  filmare  la  violenza,  ma  se  la  mette  in  scena  non  è  per  estetizzarla,  per  spettacolarizzarla,  come  in  Sam  Peckinpah,  o  in  Sergio  Leone  sia  pure  in  misura  minore.  È  per  rifletterci  sopra.  Anche  dietro  la  famiglia  ideale  dell’inizio  la  violenza  si  fa  strada.  Cronenberg  si  e  ci  chiede:  ma  da  dove  essa  arriva ? 

La  ricchezza  di  A  History  of  Violence  è  molto  estesa  in  temi,  toni,  sfumature.  Come  va  letto  il  ‘quieto’  finale ?  Indubbiamente  il  film  non  tralascia  anche  una  punta  polemica  (forse  qualcosa  più  di  una  punta…)  nei  confronti  di  un  Paese  che  storicamente  e  sociologicamente  ha  avuto  e  ha  molto  a  che  fare  con  la  violenza:  siamo  dalle  parti  del  Martin  Scorsese  di  Gangs  of  New  York,  qui  superato  tuttavia  con  un  balzo  nettissimo. 

David  Cronenberg  (canadese  di  Toronto,  79  anni  martedì  prossimo  15  marzo),  ha  creato  un  universo  a  più  dimensioni,  da  cui  le  domande  intorno  ai  limiti  della  condizione  umana  –  sia  essa  fisica,  morale  o  esistenziale –  sgorgano  senza  sosta.  Un  cinema,  il  suo,  che  mostra  volentieri  il  mondo  visto  con  lenti  deformanti,  e  per  questo  degno  del  qualificativo  di  “moderno”.  Molto  amato  dalle  ultime  generazioni  di  critici.  Mauro  Gervasini,  per esempio,  ha  portato  alle  stelle  A  History  of  ViolenceTom  si  illude  di  costruire  intorno  a  sé  il  mondo  perfetto,  impermeabile  a  qualunque  contaminazione  dell’altro  (i  banditi,  i  gangster,  la  minaccia  che  viene  da  fuori)  e  Cronenberg  fa  quello  che  ha  sempre fatto.  Distrugge  da  dentro.

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Data:            Mercoledì 2 marzo 2022
Ore:              16:25
Canale TV :  RETE 4 (504 HD)

IL  DELITTO  PERFETTO
(DIAL M FOR MURDER)
U.S.A.,  1954 Regia:   ALFRED   HITCHCOCK

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Data:             Lunedì 28 Febbraio 2022
Ore:              21:00
Canale TV :  IRIS (canale 22)

C’ERA  UNA  VOLTA  A  NEW  YORK
(T H E   I M M I G R A N T) USA – 2013  –  Regia:  JAMES  GRAY

♦•♦•♦•♦•♦

Data:             Mercoledì 23 Febbraio 2022
Ore:              21:00
Canale TV :  IRIS (canale 22)

SHAKESPEARE IN  LOVE   
GB / U.S.A.,  1998 – Regia:   J O H N    M A D D E N

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Data:             Domenica 20 Febbraio 2022
Ore:              21:20
Canale TV :  RAI STORIA (canale 54)


I L    P O S T O

ITALIA,  1961   –   Regia:  ERMANNO  OLMI

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Data:             Domenica 13 Febbraio 2022
Ore:              18:00
Canale TV :  RAI MOVIE (canale 24)

S A N G U E  S U L L A  L U N A    (BLOOD ON THE MOON) 
U.S.A.,  1948  – Regia:   R O B E R T   W I S E

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Data:             Martedì 8 Febbraio 2022
Ore:              21:10
Canale TV :  RAI MOVIE (canale 24)

UN  TRANQUILLO  WEEKEND  DI  PAURA (DELIVERANCE)
U.S.A,  1972   –   Regia:  JOHN  BOORMAN

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Data:             Mercoledì 2 Febbraio 2022
Ore:              16:50
Canale TV :  RETE 4 (canale 4 – 504 HD)

LE  TENTAZIONI  DEL  SIGNOR  SMITH  (THIS  HAPPY  FEELING)
U.S.A.,  1958 – Regia:  BLAKE  EDWARDS

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              Giovedì 27 Gennaio 2022
Ore:                  22:55
Canale TV :    RAIMOVIE  (canale 24)

In  occasione  della
GIORNATA  DELLA  MEMORIA
proponiamo  e  consigliamo  la  visione  di  questo  film

 M R.   K L E I N
FRANCIA,  1976   –   Regia:  JOSEPH  LOSEY

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Data:              Mercoledì 26 Gennaio 2022
Ore:                  16:45
Canale TV :    RETE 4  (canale 4 – 504 HD

COME  LE  FOGLIE  AL  VENTO( WRITTEN  ON  THE  WIND)
U.S.A.,  1956 – Regia:  DOUGLAS  SIRK

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Data:              Lunedì 24 Gennaio 2022
Ore:                  15:20
Canale TV :    IRIS  (canale 22)

L’ ASSEDIO  DI  FUOCO    ( R I D I N G   S H O T G U N )
U.S.A. – 1954  Regia:  ANDRE  DE  TOTH

Nel  1954  la  Warner  Bros.  mandò  sugli  schermi  20  film.  Anche  soltanto  i titoli,  senza  i  nomi  dei registi,  degli  interpreti  e  la  specificazione  del genere,  bastano  a  farci  sognare  e  tornare  per  un  attimo  a  quella  felice epoca  d’oro:             

L’invasore  bianco,  Lo  sceriffo  senza  pistola,  Il  mostro della via  Morgue,  Duffy  of  San Quentin,  Il  delitto perfetto (sì,  proprio  il capolavoro  hitchockiano!),  Il  trono  nero,  Un pizzico  di  fortuna,  Il  circo delle  meraviglie,  Riccardo  Cuor  di  Leone,  Prigionieri  del  cielo,  Assalto  allaTerra   (sì,  proprio  uno  dei  grandi  capolavori  della  fantascienza!),  Duello nella  giungla,  Rullo  di  tamburi,  Mandato  di  cattura,  È  nata  una  stella,  La belva,  Il  calice  d’argento.               Siamo  a  quota  17. I  tre  che  mancano  sono:  La città  è  spenta,  Cacciatori  di  frontiera  e  L’assedio  di  fuoco:  tutti  e  tre diretti  da  Andre  De Toth (1912-2002),  chiare  origini  ungheresi  (5  film  in patria  – a  Hollywood  Paprika… –  prima  di partire  per  gli  Stati  Uniti dove Tóth  Endre  diventerà  il cittadino americano  Andre  De Toth);  per  una manciata  di  anni  marito  felice  della  fragile, indimenticabile Veronica Lake (1922-1973);   attivo   a   fine   carriera   anche   in   Italia,   negli   anni   della “Hollywood  sul  Tevere ”  (Morgan  il  pirata,  I  Mongoli,  Oro  per  i  Cesari,  tra il  1960  e  il  1962).                                                                                                                                                               Andre  De Toth,  il  terzo  grande  guercio  di  Hollywood, dopo  John  Ford  e  Raoul  Walsh (Nicholas  Ray  non  era  guercio,  su  Fritz Lang  la  discussione  è  aperta…).

Già  ai  suoi  tempi,  gli  spettatori  andavano  (in tanti)  a  vedere  i  suoi  film, di  cui  ricordavano  i  titoli:  non  conoscevano  però  il  suo  nome.  Occorre  – al  solito –  guardare  ai  cinefili  parigini  per  afferrarne  l’importanza  e  la grandezza:  amatissimo  da  Bertrand  Tavernier  e  Jean-Pierre  Melville.  Più tardi   anche   Martin   Scorsese   dichiarerà   di   ammirare   De Toth, anunderrated  hero,  un  eroe  misconosciuto. L’assedio  di  fuoco  è  uno  dei  numerosi  western  che  Randolph  Scott  girò con  De Toth,  risultando  di  incredibile  efficacia  – con  quel  suo  viso  quasi di  marmo –  nel  dar  vita  a  uomini  di  poche  parole  ma  di  solida  moralità. Nel  film,  egli  è  un  uomo  il  quale  – per  dimostrare  di  non  essere  il fuorilegge  che  tutti  credono  sia –  deve  tutto  solo  lottare  contro  i  veri cattivi.

Il  titolo  originale  del  film  – Riding  Shotgun –  si  riferisce  al  mestiere esercitato  dal protagonista  Larry  Delong,  il  quale  è  l’uomo  di  scorta  che sulle  diligenze  sedeva  accanto  al  conducente  con  funzioni  di  difesa  e protezione  in  caso  di  assalto.  ‘Riding  shotgun’  perché  era  armato  di

fucile  (shotgun),  definito  “da  equitazione”  nel  pittoresco  linguaggio  della frontiera  per motivi comprensibili.  Sta di fatto che Larry cade  in un’imboscata da  parte  di  una  banda  di  fuorilegge  associati  a Dan Marady, l’uomo  che  ha  ucciso  sua  sorella  e  suo  nipote.           

Quandotorna  a  Deep Water,  Larry  scopre  che  quasi  tutti  gli  abitanti  credono  che sia   stato   coinvolto   in   una   rapina alla   diligenza   di   cui   era   il   riding shotgun. La  rapina  ha  provocato  due  morti.  Nessuno, esclusa  la sua  fidanzata e  Doc  Winkler,  ne  ascolta l’avvertimento,   e  cioè  che  gli uomini  di  Marady  stanno  arrivando  in  paese  per  compiere  davvero  una rapina.  Larry  è  costretto  a  rifugiarsi  in  una cantina,  e  a  stento  viene sottratto   al   linciaggio   dal  deputy   sheriff  Tub Murphy.   Ecco   intanto giungere  la  banda  di  Marady:  ma  – secondo  le  convenzioni  del  cinema  di allora –  il  lieto  fine  è  d’obbligo.  Però  Larry  Delong  se  l’è  vista  brutta… .

L’assedio  di  fuoco è  un  piccolo,  delizioso,  semplice,  bel  western  di  serie B:  vediamolo, per  nostro  piacere  e  per  celebrare  degnamente i   110   anni   dalla   nascita   e   i   20   dalla   morte   di  Andre  De Toth, «underrated  hero».

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Data:              Giovedì 20 Gennaio 2022
Ore:                  15:15
Canale TV :    IRIS  (canale 22)

LA  GATTA  SUL  TETTO  CHE  SCOTTA
(CAT  ON  A  HOT  TIN  ROOF –  U.S.A. 1958) Regia:  RICHARD  BROOKS

To  be  like  a  cat  on  hot  bricks”;  “To  be  like  a  cat  on  a  hot  tin  roof”  (amer.):   = stare  sui  carboni  ardenti.

“The  Cat”  si  riferisce  a  Maggie  “la  gatta”  [cat  può  tradurre  anche  il  femminile,  she-cat  o  female  cat],  moglie  sola  e  sessualmente  frustrata  dell’alcolizzato  ex-giocatore  di  football  Brick  (Paul  Newman).  Maggie  (Elizabeth  Taylor)  non  sa  per  quanto  tempo  l’unione  potrà  andare  avanti.  Si  paragona  a  un  gatto  [a  una  gatta…]  la  quale  cerca  di  rimanere  su  un  tetto  di  lamiera  che  scotta,  ma  ha  paura  di  saltare,  perché  non  sa  dove  potrà  atterrare.

Un  titolo  celeberrimo,  che  ci  riporta  a  un’epoca  del  cinema  americano  (suppergiù  gli  anni  1950-1965),  quella  dei  melodrammi  ‘fiammeggianti’  fatti  apposta  per  mettere  in  rilievo  le  protagoniste  (belle  e  brave)  e  i  protagonisti  (belli  e  bravi)  dello  star  system  hollywoodiano;  gli  ambienti  e  gli  arredi  delle  case  dei  ricchi;  tenori  di  vita,  abiti  e  comportamenti  che  la  gente  comune  poteva  solo  immaginare.  Il  cinema  come  “officina  dei  sogni”,  appunto.  Non  è  ovviamente  questa  la  sede  anche  solo  per  iniziare  un  discorso  di  tipo  sociologico  su  quel  cinema:  qui  il  nostro  discorso  si  limita  alla  constatazione –  doverosa –  che  molti  di  quei  film  non  solo  erano  cinematograficamente  validi  ma  hanno  in  qualche  modo  segnato  la  Storia  del  Cinema  (basti  pensare  a  Douglas  Sirk,  a  John  M. Stahl,  a  William  Wyler…). 

Una  fetta  non  piccola  del  loro  successo,  dipendeva  dai  soggetti  (e  dalle  successive  sceneggiature).  Un  nome  con  cui  fare  i  conti  è  certamente  quello  del  drammaturgo  Tennessee  Williams  (1911-1983),  che  da  solo  fornì  al  cinema  Lo  zoo  di  vetroUn  tram  chiamato  desiderio,  Estate  e  fumo,  La  primavera  romana  della  signora  StoneLa  rosa  tatuataImprovvisamente  l’estate  scorsaLa  dolce  ala  della  giovinezzaLa  notte  dell’iguana.  E,  naturalmente,  La  gatta  sul  tetto  che  scotta.  Opere  che  trionfarono  sui  palcoscenici  americani  ed  europei,  vinsero  premi,  imposero  il  suo  nome  come  il  più  “forte”  del  periodo  postbellico.  Loro  tema  fondamentale  è  la  «rappresentazione  di  un  mondo  corrotto  e  corruttore,  dominato  dalla  violenza,  dall’interesse,  da  varie  forme  di  prepotenza  che  finiscono  per  schiacciare  gli  innocenti,  o  più  semplicemente  i  diversi».  Pubblico  e  critica  rimasero  colpiti  anche  dall’ambientazione  geografica  di  molti  lavori  di  Williams,  originario  del  Mississippi  e  dunque  a  suo  agio  nel  descrivere  il  ‘profondo  Sud’  degli  Stati  Uniti,  ancora  legato  al  ‘clima’  (in  tutti  i  sensi),  ai  valori  (o  disvalori)  pre-Guerra  di  Secessione.

La  gatta  sul  tetto  che  scotta,  con  dialoghi  (per  allora)  morbosi,  sessuofobie,  frustrazioni,  racconta  di  una  famiglia  dove  c’è  un  padre  che  si  scopre  malato  terminale,  un  figlio  maggiore  avido  (Jack  Carson),  quello  minore  (Paul  Newman)  depresso, bevitore,  fragile  ma  anche  debole  e  irresoluto.  Le  mogli  (comunque  in  posizione  subordinata…)  fanno  quello  – più  o  meno  ‘nobile’ –  che  possono  per  difendere  i  mariti.

Un  evergreen,  avvisa  “FilmTV”.  Sì,  e  noi  ne  consigliamo  la  visione.  Il  problema  è  però  questo:  La  gatta  sul  tetto  che  scotta  ha  resistito  all’usura  del  tempo?  Quanto  è  accettabile  oggi  la  pruderie  del  tempo  nel  censurare  la  (chiara)  omosessualità  del  personaggio  di  Paul  Newman?  Ormai  anche  in  Wikipedia,  cui  rimandiamo,  si legge:  per  non  incappare  nelle  maglie  del  Codice Hays,  fu  soppressa  la  tematica  originaria  del  testo  teatrale:  Brick,  un  atleta,  non  riesce  a  desiderare  la  bellissima  e  focosa  moglie  perché  non  si  è  mai  ripreso  dalla  morte  (per  suicidio)  di  un  compagno  di  squadra,  Skipper,  di  cui era  innamorato,  senza  però  sapere  o  accettare  di  essere  omosessuale.  E  annega  nell’alcool  qualunque  barlume  di consapevolezza  rischi  di  venire  a  galla. 

L’interpretazione  è  di  maniera:  basti  pensare  a  La  dolce  ala  della  giovinezza  (1962,  sempre  Brooks,  sempre  Williams;   ancora  un  Newman,  però  decisamente  migliore;  soprattutto  una  magnifica  Geraldine  Page  che  Elizabeth  Taylor  non  riesce  nemmeno  a  vedere…).  Taylor  era  più  indicata  per  i  film  in  costume:  “la  gatta”  era  una  parte  per  Lana  Turner.  Anche  Jack  Carson  è  qui  al  di  sotto  della  sua  performance  ne  Il  trapezio  della  vita,  di  Douglas  Sirk.  Quanto  al  Brick  di  Paul  Newman,  ci  piace  ripetere  ciò  che  a  suo  tempo  disse  Louis  Marcorelles,  il  quale  recensì  il  film  per  i  Cahiers  du  Cinéma:  «un  frère  de  ces  jeunes  Américains  qui  n’ont  jamais  fini  de  grandir»  (un  fratello  di  quei  giovani  americani  che  non  finiscono  mai  di  crescere).

Richard  Brooks  (1912-1992)  è  stato  un  buon  regista.  Il  suo  problema  era  la  “continuità  di  rendimento”.  Prima  de  La  gatta  ci  diede  due  ottimi  film,  Il  seme  della  violenza  e  L’ultima  caccia;  così  come  fece  subito  dopo  (Il  figlio  di  Giuda,  il  citato  La  dolce  ala  della  giovinezza  e  il  bellissimo  Lord  Jim,  tratto  da  Conrad).  Probabilmente  a  fine  anni  Cinquanta  attraversò  un  periodo  accidentato,  lanciandosi  ne  I  fratelli  Karamazov  (estraneo  alle  sue  corde),  e  nel  poco  felice  Qualcosa  che  vale.  Il  film  comunque  è  qui,  proviamo  a  vederlo:  oleografico  oppure  un  classico  riuscito?

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Data:              Domenica 16 Gennaio 2022
Ore:                  16:50
Canale TV :    RAI MOVIE  (canale 24)

MA  PAPÀ  TI  MANDA  SOLA ?   (WHAT’S  UP,  DOC ?)
U.S.A. –  1972 – Regia:  PETER  BOGDANOVICH

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Data:              Sabato 15 Gennaio 2022
Ore:                  17:00
Canale TV :    RAI STORIA  (canale 54)

H U G O   C A B R E T
(U.S.A. 2011) Regia:  MARTIN  SCORSESE

Il  primo,  il  primissimo  fondamento  che  motiva  questa  segnalazione  è  il  più  semplice,  il  più  condivisibile,  il  più  vicino  alla  ragion  d’essere  di  una  segnalazione:  dare  di  gomito  a  un  amico  quando  gli  si  voglia  dire  (con  tutti  i  migliori  sentimenti,  quasi  con  affetto…):  ecco,  non  perdere  questo  film  perché  è  bello,  e  soddisferà  al  massimo  grado  quel  che  ormai  tutti  chiamiamo  il  piacere  della  visione.  Senza  curarsi  della  verosimiglianza,  lanciando  la  mdp  in  favolose  carrellate  ad  alta  velocità  dietro  il  protagonista  Hugo,  il  regista  cinefilo  Martin  Scorsese  ha  modo  di  rendere  omaggio  a  Georges  Méliès  (1861-1938),  il  padre  fondatore  del  cinema  fantastico  e  fantascientifico.  Quanto  l’opera  dei  Lumière  ‘stava  addosso’  alla  realtà,  tanto  le  preoccupazioni  di  Méliès  erano  rivolte  alle  immense  possibilità  che  il  nuovo  linguaggio  apriva  alla  fantasia. 

La  vicenda  del  film  prevede  che  a  inizio  anni  Trenta,  l’orfano  dodicenne  Hugo  Cabret  viva  praticamente  ‘di  contrabbando’  in  una  grande  stazione  ferroviaria  parigina  (la  gare  Montparnasse),  dedicandosi  alla  manutenzione  degli  orologi  e  alla  riparazione  di  meccanismi  e  congegni.  ‘Mestiere’  e  passione  ereditate dallo  zio  e  dal  padre,  il  quale  gli  ha  lasciato  un  automa  che  non  era  riuscito  a  rimettere  in  sesto.  Hugo  viene  a  contatto  con  il  proprietario  del  negozio  di  giocattoli  della  stazione  stessa:  che  è  proprio  Georges  Méliès.  E  il  film  diventa  così  una  ricca  storia  a  quattro  (Hugo-automa-Georges-Isabelle,  figlia  degli  scomparsi  collaboratori  dell’inventore-regista).

Non  ci  si  stancherebbe  mai  di  ammirare  la  precisione  assoluta  con  cui  ambienti,  costumi,  colori,  caratteri  sono  ricostruiti  e  resi  dal  film.  Cinema  puro,  insomma,  che  non  è  poi  tanto  facile  trovare  oggigiorno  sugli  schermi.  Sarà  che  noi  siamo  particolarmente  sensibili  al  mito  mélièsiano  dell’illusione  di  celluloide,  ma  questo  omaggio  filologicamente  rigoroso  al  cinema  delle  origini,  lo  abbiamo  trovato  splendido.  Se  proprio  dobbiamo  esprimere  una  (moderata)  perplessità,  questa  deriverebbe  dal  tipicamente  scorsesiano  accumulo  di  materiale:  tante  citazioni,  mai  un  minuto  di  respiro,  inquadrature  sghembe  a  profusione,  tentazioni  virtuosistiche  sempre  in  agguato.  Beh,  averne  di  film  che  mescolano  David  Copperfield  (v.  il  personaggio  dell’ispettore  ferroviario  Gustav,  interpretato  dal  famoso  Sacha  Baron Cohen)  David  Copperfield  e  Giulio  Verne;  Harold  Lloyd  e  Charlie  Chaplin;  una  riflessione  sul  caleidoscopio  (v.  tutte  le  invenzioni  visive)  e  la  necessità  di  riandare  agli  affascinanti  studi  di  Jurgis  Baltrušaitis  intorno  alle  deformazioni  ottiche. 

Un  film  dunque  da  affrontare  solo  dal  punto  di  vista  di  un  raffinato  formalismo?  Ma  neanche  per  idea!  Sentite  cosa  dice  l’equilibrato  Paolo  Mereghetti:  «Nelle  mani  di  Scorsese,  il  bellissimo  romanzo  illustrato  di  Brian  Selznick  La  straordinaria  invenzione  di  Hugo  Cabret  permette  al  regista  di  intrecciare  i  due  temi  forti  della  sua  ispirazione:  la  sfida  del  singolo  per  trovare  il  proprio  posto  nel  mondo,  e  il  cinema  come  lente  per  capire  la  realtà.  E  dilata  la  sua  carica  poetica  fino  a  diventare  un  inno  alla  gioia  di  vivere  e  alle  capacità  dei  sogni  (cioè  dei  film)  di  regalarci  preziosi  momenti  di  felicità.  Quattro  stelle.»

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Per questioni  “ tecniche “  questa settimana ci è impossibile presentare la scheda dei film prescelti per la visione. Vi elenchiamo comunque una serie di titoli che meritano la visione.
(due film: “Il traditore di Fort Alamo” e “Steve Jobs” li riteniamo i più “interessanti”)

                                                                                                               Buona visone

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Data:                Martedì 28 settembre 2021
Ore:                  21:00
Canale TV :    CINE 34  (canale 34)

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Per questioni  “ tecniche “  questa settimana ci è impossibile presentare la scheda dei film prescelti per la visione. Vi elenchiamo comunque una serie di titoli che meritano la visione.
(due film: “Il traditore di Fort Alamo” e “Steve Jobs” li riteniamo i più “interessanti”)

                                                                                                               Buona visone

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Data:                Martedì 28 settembre 2021
Ore:                  21:00
Canale TV :    CINE 34  (canale 34)

LA  LEGGENDA  DEL  PIANISTA  SULL’OCEANO
1998,  Italia    Regia:  GIUSEPPE  TORNATORE

Settimana  interlocutoria,  questa,  in  cui  abbiamo  scelto  film  un  po’  controversi,  i  quali  sollecitano  il  giudizio  del  singolo  spettatore.  Film,  intendiamo  dire,  ‘aperti’,  che  hanno  suscitato  reazioni  contrastanti.  Prendiamo  questo  Tornatore.  Una  sorta  di  kolossal  girato  – in  lingua  inglese –  in  Ucraina,  con  attori  stranieri  anglofoni  e  collaboratori  più  che  illustri  (Ennio  Morricone  per  le  musiche,  l’ungherese  Lajos  Koltai  per  la  fotografia,  costumi  di  Maurizio  Millenotti,  soggetto  da  un  monologo  teatrale  di  Alessandro  Baricco).  Una  “favola  grandiosa”  – si  direbbe –  (40  miliardi  di  spesa),  costruita  a  tavolino  per  centrare  il  grande  successo  di  pubblico  e,  forse,  per  entrare  nella  storia  del  cinema.  Con  il  primo  scopo  è  andata  bene,  con  il  secondo  un  po’  meno.  Tornatore  (n. 1956)  già  vincitore  di  un  Oscar  meritato  con  Mediterraneo  (1991),  ha  poi  sempre  faticato  a  mettere  insieme  opere  totalmente  convincenti:  si  è  abituato  a  pensare  in  grande,  e  la  critica  non  infrequentemente  ha  fatto  pollice  verso.  Che  dire?  Provate  a  guardare questa  Leggenda:  forse  sapete  già  che  racconta  la  storia  di  un  Tim  Roth  pianista  che  sceglierà  di  non  scendere  mai  a  terra  dalla  nave  sulla  quale  fu  trovato  ancora  in  fasce:  è  un  uomo  che  “non  esiste”.  Lasciamo  però  a  un  estimatore  del  film,  l’illustre  critico  Paolo  D’Agostini,  il  compito  di  tracciare  qualche  linea  orientativa:  «(…) Che  lezione  ci  dà  questo  film,  che  insegnamento  ci  lascia  questo  bel  personaggio?  Forse  che  per  apprezzare  la  ricchezza  della  vita,  per  sapere  che  “è  una  cosa  immensa”  occorrono  tanto  i  Novecento  [è  il  nome  del  personaggio  di  Tim  Roth]  quanto  i  Max:  l’ingenuità,  la  follia,  l’isolamento,  la  ‘malattia’  degli  artisti  cui  Dio  ha  donato  il  genio  per  creare  ma  non  la  capacità  di  vivere  la  vita  comune;  e  l’adattabilità,  il  realismo,  il  senso  comune,  i  vizi,  ma  anche  la  capacità  di  perdersi  e  di  commuoversi  dei  loro  gregari.  Quelli  che  scendono  a  terra.  A  poco  più  di  40  anni,  come  il  Fellini  che  aveva  appena  fatto  La  dolce  vita  e  si  accingeva  a  fare  Otto  e  mezzo,  Tornatore  ci  consegna,  nel  doppio  richiamo  alla  fine  di  secolo  che  ci  ha  preceduti  e  a  quella  che  è  alle  porte,  una  metafora  che  resterà  perché  emoziona  senza  cedimenti  sentimentalistici,  e  perché  scava  senza  proclami  pretenziosi,  con  il  dono  di  una  “pesante  leggerezza”.  Tornatore  ha  sempre  avuto  la  tendenza  a  riempire  i  suoi  film  di  suggerimenti,  evocazioni,  citazioni,  intenzioni,  ma  qui  finalmente  il  sovraccarico  non  deborda,  si  fa  ricchezza  di  rimandi,  significati,  valori,  riflessi.  E  anche  la  mancanza  di  misura  (ci  sono  momenti  in  cui  le  due  ore  e  quaranta  non  paiono  tutte  necessarie),  si  lascia  perdonare,  anzi  giustificare  come  armonica  a  una  necessità  espressiva,  a  un’economia  narrativa,  a  uno  stile  personale.»

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Data:                Sabato 25 settembre 2021
Ore:                  15:20
Canale TV :    RAI 3

VIA  DALLA  PAZZA  FOLLA  (FAR  FROM  THE  MADDING  CROWD)
2015,  GB/U.S.A.  –  Regia:  THOMAS  VINTERBERG

 Questa  segnalazione  è  per  la  verità  originata  più  dall’incitamento  a  leggere  (o  a  rileggere)  il  romanzo  originario  di  Thomas  Hardy,  che  dall’intrinseca  pregevolezza  del  film  che  ne  ha  tratto  il  danese  Thomas  Vinterberg  (n. 1969)  il  quale  – con  L’ultimo  giro –  ha  vinto  l’Oscar  per  il  miglior  film  straniero  all’ultima  edizione.  Thomas  Hardy  è  scrittore  che  ha  sempre  avuto  pochi  lettori  in  Italia,  quantunque  i  suoi  romanzi  e  una  parte  delle  poesie  e  dei  racconti  siano  stati  tradotti.

Forse  Hardy  (1840 – 1928)  tiene  a  distanza  il  lettore  italiano  perché  esprime  una  visione  amara  e  desolata  della  vita,  in  cui  l’uomo  è  schiacciato  da  un  Fato  (rigorosamente  in  maiuscolo)  indifferente  e  ostile.  Lontano  parente  della  nostra  Grazia  Deledda,  ha  ambientato  tutte  le  sue  trame  nelle  campagne  del  natìo  Dorset  (da  lui  ridenominato  Wessex,  alla  maniera  anglosassone),  e  si  è  rivelato  un  grande  poeta  della  natura.  Per  questo  il  cinema  (inglese)  si  è  spesso  ispirato  ai  suoi  romanzi,   e  il  risultato  migliore  venne  raggiunto  dalla  splendida  versione  che  proprio  di  Via  dalla  pazza  folla  ci  diede  nell’ormai  lontano  1968  il  regista  John  Schlesinger.  Già,  ma  allora  c’era  alla  sceneggiatura  Frederic  Raphael  (90  anni  compiuti  lo  scorso  14  agosto:  auguri!),  Julie  Christie  come  Betsabea  Everdene; Peter  Finch  era  Boldwood,  il  proprietario  terriero  di  mezza  età,  Terence  Stamp  faceva  il  sergente  Troy  e  Alan  Bates  il  fedele  pastore  Gabriel  Oak.

Adesso  invece  il  problema  riguarda  proprio  gli  interpreti,  che  sono  totalmente  fuori  parte  (stavamo  per  scrivere  che  non  sono  all’altezza…),  con  la  sola  eccezione  della  brava  Juno  Temple  (n. 1989)  nel  breve  ruolo  della  sfortunata  Fanny  Robin.

E  dire  che  la  vicenda  è  ben  congegnata.  Betsabea  è  contesa  da  tre  uomini:  Oak,  appunto,  Troy  e  Boldwood.  Rifiuta  il  pastore  perché  non  è  abbastanza  ricco  e  il  proprietario  perché  non  lo  ama;  sposa  il  soldato,  ma  ne  ricava  solo  offese  e  amarezze.  Poi  il  proprietario  uccide  il  soldato,  e  Betsabea  può  correggere  l’errore  originario  sposando  il  pastore  Oak.  Il  film  è  corretto  dal  punto  di  vista  dei  bei  paesaggi  fotografati  a  colori,  i  costumi  sono  gradevoli,  qualche  scena  è  filmata  bene  (Betsabea  e  il  sergente  Troy  con  la  giubba  rossa  nel  bosco…),  ma  il  confronto  con  Schlesinger  è  improponibile.  Forse  Hardy  può  essere  portato  sullo  schermo  solo  da  registi  inglesi:  per  esempio,  anni  fa  (1979)  ci  si  mise  anche  Roman  Polanski  con  Tess  dei  d’Urbervilles.  Sì,  Nastassja  Kinski,  tre  premi  Oscar:  sostanza,  però,  pochina.

Via  dalla  pazza  folla:  sì,  vedetelo  (non  vi  annoierà  di  certo);  vedetelo,  e  poi  via  di  corsa  al  romanzo.   

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R
itorniamo dopo la pausa estiva con la nostra rubrica di “consigli” per la visione di film di qualità.

Molti i titoli che meriterebbero la vostra attenzione, ma le nostre scelte si orientano su pellicole trasmesse in orari “umani”, pomeriggio e prima serata. Chissà perché i “capolavori” li trasmettono in orari notturni o all’alba… quelli non ve li proponiamo, ma dalla prossima pubblicazione potremo perlomeno evidenziarveli…se soffrite d’insonnia!!!
Buona visione

Data:                Mercoledì 22 settembre 2021
Ore:                  16:30
Canale TV :    RETE 4 (504 HD)

SCANDALO  AL  SOLE  (A  SUMMER  PLACE)
1959,  U.S.A.    Regia:  DELMER  DAVES

 

«Preferisco di gran lunga che il pubblico non sappia che c’è un regista. Questa è la mia tesi generale riguardo alla regia.»

Non si può certo sostenere che l’americano Delmer Daves (1904 – 1977) non sia stato accontentato in questo suo auspicio teoretico. Di fatto, ancora oggi molti suoi titoli (la decina di western: L’amante indiana, 1950; L’ultima carovana, 1956; Quel treno per Yuma, 1957; L’albero degli impiccati, 1958 …), sono vivi nella memoria degli spettatori, ma quanto a ricollegarli complessivamente al suo nome in segno di avvenuta identificazione autoriale, ebbene siamo ancora piuttosto lontani. Che simile atteggiamento sia da estendere anche agli addetti ai lavori, è però davvero singolare: singolare perché – esso sì – consapevole ( e dunque colpevole…!).

Estraneo al triangolo Vienna-Berlino-Hollywood, all’humus culturale ebraico, alle soluzioni narrative (Edgar G. Ulmer) o visive (Jacques Tourneur) ‘estreme’ di certi suoi coetanei, a Delmer Daves è stato fatto pagare un biglietto esageratamente caro per i fluviali melodrammi del quadriennio 1961-’65, da Vento caldo ad Accadde un’estate. In Francia era tempo di Nouvelle Vague e il 68 bolliva già in pentola; negli Stati Uniti non gli furono perdonati l’ipocrisia e i pregiudizi attribuiti alle classi sociali benestanti, soprattutto nei rapporti intergenerazionali. Sono proprio i temi che Daves affronta a partire dal celebre Scandalo al sole, celebre perché la colonna sonora di Max Steiner ha segnato un’epoca ed è ancora ben presente a chi aveva sedici-diciotto-vent’anni quando uscì il film. È totalmente fuori moda Scandalo al sole ? Alcuni rispondono affermativamente, ma è una domanda che riveste poco significato nel momento in cui lo si guarda con l’occhio dello storico, sia del cinema che dell’american way of life (e forse non soltanto). La vicenda è nota: è la storia di tre coppie, due di genitori male assortiti e una dei rispettivi figli che si amano con l’entusiasmo della giovane età. Ambientata a Pine Island, al largo della costa atlantica del Maine, traccia di fatto un parallelo tra la pruderie, il tipico puritanesimo di molti ambienti ricchi dell’East Coast, e la permissività – sì, in materia sessuale innanzitutto… – richiesta dalle generazioni che avanzano. Due generazioni a confronto insomma, dove il liberal Daves ha buon gioco nello stigmatizzare – v. la Helen Jorgenson di Constance Ford – snobismo, pregiudizi sociali e razziali, ipocrisia (la stessa che spinse i distributori italiani a tradurre il titolo originale A Summer Place con Scandalo al sole…!). Detto che il problema maggiore del film risiede nel cast (bravissimo, come sempre, Arthur Kennedy nel ruolo di Bart Hunter, marito disincantato di Sylvia Hunter/Dorothy McGuire; non più comprensibile invece il motivo che spinse a valorizzare i bamboleggianti Troy Donahue e Sandra Dee come la coppia giovane), non è il caso di fare pollice verso a Scandalo al sole: una volta riposizionato nel suo proprio contesto cronologico, contiene anch’esso una parte di verità.

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Data:                Domenica 19 settembre 2021
Ore:                  21:15
Canale TV :    26 CIELO

LEZIONI  DI  PIANO  (THE  PIANO)

1993 – Australia / Francia

Regia:  JANE  CAMPION

 

Non  fosse  stato  per  lei  e  per  il  Peter  Weir  di  Picnic  a  Hanging  Rock,  quanti  fra  noi  (e  fra  gli  addetti  ai  lavori…)  avrebbero  spontaneamente  cominciato  a  considerare  che  la  lingua  inglese  ricomprende  la  cultura  raffinata  e  autonoma  di  un  intero  Continente  geografico,  una  cultura  da  indagare  per  mezzo  di  categorie  mentali  libere  e  indipendenti ?  Cinema  e  Australia;  cinema  e  Nuova  Zelanda:  ma  chi  ci  aveva  mai  pensato ?  E  invece  oggi  possiamo  essere  qui  a  scrivere  con  certezza  assoluta  che  il  primo  posto  nell’ambito  di  una  classifica  di  merito  riguardante  le  registe  che  hanno  operato  e  operano  nella  Storia  del  Cinema,  spetta  ex-aequo  a  Ida  Lupino  (1918 – 1995,  inglese)  e  a  Jane  Campion,  nata  a  Wellington,  Nuova  Zelanda,  il  30  aprile  1954. 

Chi  ha  seguito  su  RaiMovie  la  recentissima  cerimonia  di  assegnazione  dei  premi  a  conclusione  della  Mostra  di  Venezia,  non  potrà  dire  di  non  essere  stato  colpito  dal  suo  volto  inquadrato  in  primissimo  piano:  emanava  la  forza  interiore,  la  decisione,  il  ‘marchio’  vorremmo  quasi  dire,  di  una  donna  il  cui  destino  è  l’arte,  l’espressione  artistica,  la  comunicazione  di  sensazioni  che  aiutano  a  capire  ad  alti  livelli  di  profondità  l’universo  nel  quale  ci  è  stato  dato  di  vivere  (e  non  solo…).  Come  non  pensare  ad  Artemisia  GentileschiAngelika  Kauffmann, Vittoria  Colonna,  a  Katherine  Mansfield  stessa,  presente  in  tutte  le  storie  della  letteratura  inglese  e  conterranea  di  Jane  Campion ?

Sentite  come  Giovanni  Grazzini  (quanto  ci  mancano  critici  come  lui,  come  Guglielmo  Biraghi,  Claudio  G. Fava…)  apriva  sul  “Corriere”  la  recensione  dedicata  a  Lezioni  di  pianoTra  i  film  belli  della  stagione,  Lezioni  di  piano  fa  spicco,  forte  ritratto  d’una  donna  vincente  compiuto  da  una  donna  intelligente  e  sensibile,  venuta  dal  femminismo  a  celebrare  l’assoluto  dell’amore.  Questa  storia  romanticamente  eccessiva,  è  narrata  da  Jane  Campion  con  uno  stile  di  volta  in  volta  vibrante  e  sfumato,  che  ha  una  grande  forza  inventiva  e  d’espressione.  Usando  la  mdp  col  piacere  quasi  sensuale  di  trascorrere  sui  volti,  gli  oggetti,  i  comportamenti  per  coglierne  la  valenza  fantastica,  evoca  il  valore  del  tatto,  esalta  la  comunicazione  trasmessa  non  già  con  la  parola  ma  con  la  nota  musicale,  esplora  attraverso  l’immagine  la  zona  dell’inespresso,  e  in  una  perdurante  atmosfera  di  lirismo  trae  da  tempo  e  spazio  tante  occasioni  emotive. 

Avete  letto  bene:  Lezioni  di  piano  è  un  film  che  celebra  l’assoluto  dell’amore,  e  –  senza  ‘steccare’ –  tocca  anche  l’amore  carnale  per  affermare  la  volontà  femminile.  Segnatevi  dunque  questo  appuntamento,  e  il  nome  di  Jane  Campion:  con  lei  –  connazionale  di  Edmund  Hillary –  il  cinema  sale  a  quota  ottomila. 

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Probabilmente avrete notato che la rubrica di CINEMA è stata interrotta …..  in parte per la scarsa qualità della programmazione  ma anche per il “naturale” desiderio di riposo dopo un anno dedicato non solo all’ACU del nostro esperto “principe” Giulio Fedeli.

Vi ringraziamo per l’attenzione con cui ci avete seguito in tutto questo periodo di “tempo senza tempo” e Vi diamo appuntamento a settembre  per riprendere il nostro percorso, nella speranza di poterlo presentare a pieno regime ed in presenza non appena le circostanze ce lo permetteranno.

Nel frattempo vi auguriamo una serena estate con l’invito comunque ci continuare a seguirci sul sito e sulla pagina Face Book.

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Data:               Martedì 1 Giugno 2021
Ore:                  16:15
Canale TV : RETEQUATTRO

GIUBBE  ROSSE
  (NORTHWEST  MOUNTED  POLICE) 

di   Cecil  B.  De  Mille    U.S.A. 1940
Con  Gary  Cooper,  Paulette  Goddard,  Preston  Foster,  Robert  Preston

La critica cinematografica (c.c.) che riflette sulle sue basi teoretiche: mai ci stancheremo di raccomandarvi la lettura di quei testi che analizzano quali strumenti gli addetti ai lavori mettono in campo (o non mettono in campo…) per formulare i loro giudizi. Cominciate con l’agile guida dell’ottimo Alberto Pezzotta, divulgativa e rigorosa (La c.c.; Carocci, Roma 2007); seguitate con il volume dell’universitario Claudio Bisoni (La c.c. Metodo, storia e scrittura; Archetipo, BO 2008). Poi però prendetevi anche una vacanza: per es., provate a procurarvi (e non preoccupatevi dell’inglese: lo leggerete lo stesso, e non dovrete ricorrere all’aiuto del dizionario così spesso come pensate) The Fifty Worst Films of All Time. Sì, perché Giubbe Rosse -il film che vi consigliamo oggi di non perdere- a detta degli autori rientra proprio nell’elenco dei 50 peggiori film mai girati. E questa è già una (validissima) ragione per spingervi a vederlo: pensate infatti come sarebbe salutare cominciare a farvi qualche domanda se vi dovesse piacere.

Ricordate quando durante i nostri incontri presentammo -qualificandoli come “capolavori” (è un modo di dire, è un modo di dire…)- titoli come Madre Giovanna degli Angeli, Strategia di una rapina, o Irene Irene di Peter Del Monte, che vi lasciarono invece perplessi, se non indifferenti? Chi stabilisce quali sono i film migliori o peggiori della storia del cinema?

Sappiate che nel libro citato (procuratevelo, ci ringrazierete!), immediatamente prima di Giubbe Rosse (1940), l’elenco prevede La taverna della Giamaica (1939, Alfred Hitchcock); prima ancora Il cavaliere della libertà (1930, di D.W. Griffith), poco dopo Ivan il terribile (1944, di S.M. Ėjzenštejn). C’è anche un Preminger, un Losey, un Resnais. C’è bisogno di aggiungere altro?

Sì, c’è bisogno di aggiungere che Giubbe Rosse è un bel film avventuroso, con DeMille per la prima volta alle prese col Technicolor, il quale aggiunge splendore alla maestà dei paesaggi, alla venustà di Paulette Goddard, alla ‘scrittura’ cinematografica senza tempi morti. E questo è ancora nulla, perché il regista ci immerge in un quadro storico che –soprattutto qui in Italia- conosciamo forse ancora troppo poco: la rivolta dei Métis intorno agli anni Ottanta del XIX° sec. Erano costoro i meticci di lingua francese discendenti dalle unioni tra coloni franco-canadesi con donne Cree, Saulteaux, Ojibway, Algonquin. E le appena create (1873) Tuniques Écarlates, si trovarono a dover operare in quei territori immensi, contro popolazioni ostili, dove il banditismo era spesso mescolato alle rivendicazioni ‘nazionali’. Nel film compaiono alcuni personaggi storici, come appunto Louis Riel e Jacques Corbeau superbamente caratterizzato da George Bancroft, il quale aveva appena smesso i panni dello sceriffo Charlie Wilcox in Ombre Rosse. Gary Cooper è Dusty Rivers, un ranger texano giunto in Canada sulle tracce appunto di Corbeau. Paulette Goddard è Louvette (=lupetta), la scatenata figlia di Corbeau. Ed ecco un’altra caratteristica tipica del cinema di Cecil DeMille: l’inserimento mai fuori luogo di storie d’amore e sentimento. Noi non ve lo diciamo: tocca a voi infatti contare quante ne sono romanticamente presenti in Giubbe Rosse. A noi lasciate il compito di sottolineare la bella delicatezza della battuta che Gary Cooper porge alla fine a Madeleine Carroll: «Il Texas sarà più triste senza di lei».

Avendo aperto con delle indicazioni bibliografiche, chiuderemo allo stesso modo. Forse fate ancora in tempo a trovare in edicola l’ultimo numero di Tex Magazine 2021: contiene decine di pagine curate da Graziano Frediani dedicate alle Giubbe Rosse, alla loro storia e leggenda, alla loro canadesità, ai numerosi film che hanno ispirato, tanto numerosi da originare un piccolo filone autonomo del genere western. Buona visione. E Buona lettura.

 

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Data:               Giovedì 27 Maggio 2021
Ore:                  17:10
Canale TV : 22 – IRIS

L’ I N F E R N A L E  Q U I N L A N  di  O r s o n  W e l l e s   U.S.A. 1958

Qualche anno fa, un docente di A.C.U. ci disse che si accingeva a partire per un viaggio di piacere in Spagna, e che una delle tappe sarebbe stata la città andalusa di Ronda. La reazione fu automatica: dovette giurarci che a qualsiasi costo sarebbe andato a cercare la finca (= tenuta) di Antonio Ordóñez (1932-1998), nel patio della quale – in una vera di pozzo cieca ricolma di terra della Plaza de Toros – giace l’urna con le ceneri di Orson Welles (1915-1985). Il grande e celebre torero, era molto amico sia di Welles che di Hemingway, dos americanos que idolatraban la corrida de toros. Al suo ritorno, il collega ci disse che, essendo proprietà privata, la tenuta non era aperta al pubblico: non aveva dunque potuto scattare le fotografie richieste.

Che cosa era accaduto a noi – da sempre disobbedienti all’obbligo diffuso di decretare Quarto potere e Orson Welles rispettivamente il film e il regista più importanti della storia del cinema – per intraprendere, sia pure attraverso interposta persona, un ‘pellegrinaggio’ wellesiano così pregnante di riconoscimenti? La risposta è semplice. Messa a parte la lettura del libro di Peter Bogdanovich, ci era diventato impossibile negare l’autentico piacere della visione che un titolo qualsiasi di Orson Welles procura, sia esso vicino al suo progetto iniziale o manomesso dai produttori. Per esempio, che il suo gusto per il mascheramento – eccessivo e debordante quanto si vuole – è basilare in ordine ai concetti di finzione e spettacolo con cui le storie cinematografiche devono fare i conti.

Proviamo a prendere il poliziotto ‘deviato’ Hank Quinlan di questo film. È un po’ la sintesi di tutti i “cattivi” wellesiani, e il regista-interprete si è sbizzarrito nell’applicargli anche visivamente tutti i difetti possibili e immaginabili: grasso, vecchio, laido, brutalmente volgare, alcolizzato, ributtante nel suo aspetto sudaticcio (moite, direbbero i francesi). Ne sarebbero bastati due – tre, via – per farne comunque un personaggio odioso. Ebbene, il fatto che Hank Quinlan assurga invece a simbolo della complessità dell’animo umano, si trova enormemente potenziato da simile descrizione: poliziotto che non esita a fabbricare prove false pur di incastrare quelli che ritiene i colpevoli di un reato, ha dalla sua un fiuto praticamente infallibile. Forse, più ancora che di complessità, si dovrebbe parlare di ambiguità dell’animo umano, di negatività positiva di un personaggio tutore di un ordine allarmante e che tuttavia è estraneo al concetto di vantaggio personale, legato a una idea di giustizia implacabile ma “giusta”. Il vero colpevole de L’infernale Quinlan è quello che lui aveva intuito; lui, così lontano dalla correttezza formale del bello e pulito Mike Vargas di Charlton Heston, campione di mediocrità lineare.

Eh, sì; sappiate che dovrete prendere una posizione nei riguardi dell’energia dittatoriale condita di sarcasmo ironico che sprigiona da Hank Quinlan. Tornano alla mente il discorso dei cucù svizzeri che l’angelico e perfido Harry Lime ci sottopone ne Il terzo uomo; la mancanza di limiti morali del suo Macbeth. Soprattutto deve tornare il ricordo della piega tragica delle labbra del commissario di polizia François Périer, mentre nel melvilliano Frank Costello faccia d’angelo confessa – vergognandosene – a Nathalie Delon: «La verità è quella che dico io, malgrado i mezzi che devo usare per raggiungerla!»

Sì, è davvero difficile rimanere indifferenti di fronte al ritratto di Hank Quinlan: e solo un regista/interprete davvero grande lo poteva tracciare.

Il resto è cosa nota: il piano-sequenza iniziale al posto di frontiera tra Stati Uniti e Messico; quello della famosa scatola da scarpe; l’uso del grandangolo; il cameo della divina Marlene Dietrich nel ruolo di Tanya, cui tocca pronunciare l’orazione funebre per Quinlan: «He was some kind of a man» [= a modo suo, era un grande uomo].

Il critico americano Danny Peary ha sintetizzato bene i motivi di quel piacere della visione cui abbiamo accennato: nell’Infernale Quinlan, Welles ha enfatizzato gli elementi di squallore, ma li ha filmati da vero artista.

♦•♦•♦•♦•♦

Data:               Venerdì 21 Maggio 2021
Ore:                  16:45
Canale TV : 22 – IRIS

SHAKESPEARE  IN  LOVE   di  John  Madden    U.S.A. 1998

Ce la ricordiamo bene la stagione cinematografica di Shakespeare in Love. Uscirono molti titoli di sicuro interesse, come Ronin, La sottile linea rossa, Train de vie, Salvate il soldato Ryan… . Chissà se fu quella la ragione che portò la critica italiana a trascurare questo film del britannico John Madden (n.1949), il quale aveva esordito bene con Ethan Frome (tratto da Edith Wharton) e in anni più recenti ci avrebbe dato il dittico di Marigold Hotel. O forse Shakespeare in Love venne guardato con sospetto a causa della messe di Oscar che lo gratificarono, e del cast zeppo di nomi importanti (Gwyneth Paltrow, Joseph Fiennes, Geoffrey Rush, Judi Dench, Colin Firth…). Insomma: una furba operazione commerciale studiata a tavolino o un’altra pellicola costruita intorno all’universo del Bardo che ormai costituisce quasi un genere a sé?

Il nostro consiglio è di non lasciarsi prendere dalla fretta nell’emettere un giudizio. Attenzione infatti, perché alla voce “sceneggiatura” compare il nome di Tom Stoppard (n.1937), il drammaturgo inglese di origine cecoslovacca già regista in proprio del famoso Rosencrantz e Guildenstern sono morti e molto attratto dall’autore di Amleto. La notizia che Shakespeare in Love è opera di fantasia, è una buona notizia: in mancanza di una documentazione certa che faccia luce sull’intera vita di William Shakespeare, Tom Stoppard inventa la storia della nascita di un capolavoro rivisitando il mito di Romeo e Giulietta a partire da un altro mito, quello di una presunta musa che avrebbe ispirato il Bardo, liberandolo da una lunga crisi creativa.

Siamo infatti a Londra, nell’estate 1593 – dunque nel bel mezzo dell’età elisabettiana – dove l’astro nascente della scena teatrale non riesce a portare a termine la sua nuova opera. Ma tutto cambia quando il giovane William (Joseph Fiennes) si innamora di Lady Viola De Lesseps (Gwyneth Paltrow). Viola, decisa a diventare attrice nonostante le convenzioni dell’epoca impedissero alle donne di recitare, si traveste da uomo per poter partecipare alle audizioni: sarà lei – la vera Giulietta – a interpretare il Romeo che Shakespeare aveva sempre sognato.

L’idea è molto stuzzicante, perché il travestimento di Viola racconta altre trame shakespeariane (La dodicesima notte, I due gentiluomini di Verona…, provate a ‘lavorarci’ un po’ intorno), e valorizza la vitalità che il drammaturgo – immerso nelle medesime passioni dei suoi personaggi – è stato capace di infondere loro. Il regista Madden mette in scena l’affascinante mondo del teatro elisabettiano con grande sontuosità: collaborazione e rivalità fra gli autori e le compagnie teatrali; gli attacchi dei puritani; il coinvolgimento festoso e rumoroso del pubblico di estrazione popolare.

Forse esagereremo, ma partendo da Shakespeare in Love un professore universitario di Storia del Teatro e dello Spettacolo potrebbe agevolmente ricavare materia per un corso monografico della durata di un intero anno accademico. Che non è proprio male per un film, se è vero – come è vero – che nella sua “Guide des Films” lo storico e critico francese Jean Tulard afferma che Shakespeare in Love richiama il celebre Enrico V di Laurence Olivier.

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QUATTRO  PERCORSI  PER  UN  CINEFORUM  PERSONALE

Questa  settimana  (15-21  maggio),  l’abbondanza  di  buoni  titoli  è  tale  da  consentirci  e  consigliare  il  disegno  di  una  sorta  di  “cineforum”  personalizzato  a  seconda  di  gusti  e  preferenze. Vediamo.

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